La proposta di rifusione della direttiva 2013/33/UE della Commissione europea non sembrerebbe restituire un sistema che produce inclusione, ma piuttosto ulteriore “clandestinità” delle condizioni di vita. La proposta è stata assegnata dal Parlamento alla Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe); nello specifico si fa riferimento agli emendamenti proposti nella Relazione della relatrice Sophia in’t Veld, e la proposta è in attesa della posizione in prima lettura del Parlamento (si veda qui) per poi essere eventualmente approvata in Consiglio seguendo la procedura legislativa ordinaria (qui si può vedere lo stato di avanzamento dei lavori).
Una maggiore armonizzazione
In linea generale, la direttiva si applica a tutti i cittadini stranieri che chiedono protezione negli stati membri. Tuttavia, considerando le fortissime discrepanze tra gli stati membri (si veda Considerando n.5 della proposta di rifusione della direttiva accoglienza), la Commissione europea prontamente prevede un’eccezione, stabilendo che il richiedente che si trovi in uno stato membro diverso da quello in cui è tenuto a essere presente ai sensi del regolamento Dublino, non possa beneficiare delle condizioni materiali di accoglienza, della scolarizzazione e dell’istruzione dei minori, né dell’accesso al mercato del lavoro e della formazione professionale. Semplificando, se transito dall’Ungheria ma non avanzo richiesta di asilo, al mio arrivo in Italia non ho diritto all’accoglienza. Peccato che il transito e l’approdo siano praticamente obbligati dai flussi e che una previsione del genere crei una fortissima discriminazione (si veda la Corte di Giustizia, sentenza Cimade e Gisti (C-179/11) sul diritto all’accoglienza per i richiedenti asilo soggetti alla procedura Dublino). Nella proposta della Commissione europea si prevede che ai richiedenti debba essere comunque garantita l’assistenza sanitaria e un livello di vita dignitoso, la cui definizione è però praticamente lasciata alla libera interpretazione degli Stati membri.
Difficile comprendere la logica secondo cui una maggiore armonizzazione, finalizzata in definitiva alla riduzione dei movimenti secondari, dovrebbe passare attraverso misure restrittive a danno dei richiedenti asilo (si veda il parere del Comitato Economico e Sociale europeo). Critica in particolare la previsione di non garantire ai minori l’accesso alla scolarizzazione e all’istruzione (per approfondimenti si veda ancora questa risoluzione della 1a Commissione Permanente del Senato, e questa relazione del Ministero dell’Interno). Questa eccezione viene opportunamente rimossa nella Relazione presentata nell’ambito della commissione Libe.
Ridurre i movimenti secondari
Al fine di ridurre i movimenti secondari e di garantire una gestione ordinata dei flussi migratori, la Commissione europea sottolinea come sia necessario garantire una più “efficace sorveglianza del luogo in cui si trovano i richiedenti”. Quindi per motivi di interesse pubblico o di ordine pubblico; per il trattamento rapido e il controllo efficace della domanda di protezione internazionale o della procedura volta a determinare lo Stato membro competente ai sensi del regolamento Dublino; e al fine di “prevenire efficacemente” che il richiedente si renda irreperibile, si prevede che gli stati membri stabiliscano per i richiedenti la permanenza in un determinato luogo di residenza. Tale decisione potrà essere necessaria, in particolare, nei casi in cui il richiedente non abbia rispettato l’obbligo di presentare domanda di protezione internazionale nello stato di primo ingresso; sia fuggito dallo stato membro in cui è tenuto a essere presente; sia stato rinviato nello stato membro in cui è tenuto a essere presente dopo essere fuggito in un altro Stato membro. Quindi la logica diventerebbe che se un richiedente è già “fuggito” in un altro stato membro facilmente sussiste il rischio di fuga.
Di conseguenza, al fine di garantire il rispetto del regolamento Dublino posso violare il diritto alla libertà di movimento “per ragioni di natura amministrativa” (si vedano i commenti dell’Ecre). Qualora il richiedente abbia diritto alle condizioni materiali di accoglienza, anche queste dovranno essere condizionate alla permanenza in tale luogo specifico. Inoltre, se necessario, il richiedente, sarebbe obbligato a manifestare regolarmente la sua presenza alle autorità laddove vi siano motivi per ritenere che sussista il rischio che possa fuggire. Non viene presa in considerazione dalla Commissione europea l’ipotesi che il richiedente non voglia scappare ma abbia solo buoni motivi per chiedere asilo in un altro Paese (si vedano ancora i commenti dell’Ecre). In ogni caso gli stati membri della Ue obbligano i richiedenti, tutti, a comunicare il loro luogo di residenza o indirizzo, o un recapito telefonico.
Anche la relazione della commissione Libe prevede delle limitazioni alla libertà di circolazione in determinati casi specifici, sempre al fine di evitare i tanto temuti movimenti secondari, ma rimane più possibilista, circoscrive tali casi e, soprattutto, aggiunge una serie di garanzie. Nello specifico viene eliminata la possibilità di stabilire un obbligo di residenza al fine di determinare lo stato membro competente, in quanto, secondo il ragionamento della commissione parlamentare, gli stati potrebbero applicare questa ipotesi a tutti i richiedenti asilo la cui domanda è in corso di esame senza che ve ne sia realmente la necessità. Inoltre viene previsto che, affinché si possa ritenere che un richiedente potrebbe rendersi irreperibile, debba essere stabilita la sussistenza di un rischio di fuga, nella cui definizione si fa riferimento anche alle norme dell’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo, e si precisa che la violazione dell’obbligo di presentare domanda nello stato di primo ingresso da parte del richiedente debba essere intenzionale, ma non sembra che questa distinzione cambi poi realmente le conseguenze pratiche della disposizione. Per quanto concerne l’eventuale obbligo di segnalare la propria presenza alle autorità, viene sottolineata l’esigenza di rispettare il principio di proporzionalità e di necessità e viene correttamente previsto che questo obbligo venga deciso da una autorità giurisdizionale con conseguente possibilità di fare ricorso.
La Commissione europea prevede, inoltre, nuove ipotesi di trattenimento. In pratica, se un richiedente non ha osservato l’obbligo di residenza e nel caso in cui esista il rischio che si renda irreperibile, potrà essere privato della libertà. Viene anche meglio specificata la possibilità che il richiedente venga trattenuto nell’ambito di una procedura di frontiera sul suo diritto di entrare nel territorio. Anche le persone che hanno esigenze di accoglienza particolari – inclusi i minori, questi quantomeno come ultima ratio – possono essere trattenute. Il testo della commissione parlamentare introduce l’importante garanzia dell’intervento esclusivo di un’autorità giurisdizionale, dispone una previa valutazione delle esigenze di accoglienza specifiche, ma soprattutto elimina totalmente la possibilità che i minori siano oggetto di trattenimento.
Nella proposta di rifusione della direttiva accoglienza viene favorevolmente estesa la nozione di condizioni materiali di accoglienza, includendo oltre a vitto, alloggio e vestiario, anche altri beni non alimentari di prima necessità come gli articoli sanitari, e un sussidio per le spese giornaliere. Questo sulla base della convinzione che basti migliorare le condizioni di accoglienza per porre fine ai movimenti secondari. Solo i sussidi giornalieri potrebbero, in alcune circostanze, essere ridotti o, in ipotesi eccezionali, revocati, mentre vitto, alloggio, vestiario e i beni non alimentari di prima necessità possono essere sostituiti con condizioni materiali di accoglienza in natura. I motivi aggiuntivi riguardano i casi in cui: il richiedente abbia gravemente violato le norme del centro di accoglienza o abbia tenuto un comportamento gravemente violento (la revoca per questi motivi è già prevista in Italia); il richiedente si renda irreperibile; il richiedente ometta di partecipare alle insidiose “misure obbligatorie di integrazione”; il richiedente non abbia rispettato gli obblighi previsti da Dublino, e si sia recato senza un’adeguata giustificazione in un altro stato membro in cui abbia presentato domanda di asilo – verrebbe da chiedersi quale potrebbe essere un’adeguata giustificazione – oppure sia stato rinviato dopo essere “fuggito” in un altro stato membro.
La proposta emendativa della commissione Libe suggerisce che in ogni caso venga garantito un livello di vita adeguato, specificando di cosa si tratta. Nel testo della Commissione europea viene inoltre previsto che ciascuno stato monitori e controlli le proprie condizioni di accoglienza, anche tenendo conto di indicatori predisposti a livello europeo, e prepari un piano di emergenza dove vengano indicate le misure da adottare per garantire una adeguata accoglienza nei casi di numeri sproporzionati di richiedenti asilo. Difficile immaginarlo nel contesto di perenne emergenza tipico dell’Italia.
Considerando quali possono essere le conseguenze del mancato rispetto degli obblighi del richiedente, il diritto di informazione appare imprescindibile. Affinché tutto funzioni e i richiedenti asilo non commettano errori, è previsto che gli stati membri debbano informare i richiedenti, per iscritto, attraverso un modello comune, quanto prima e al più tardi al momento della presentazione della domanda, dei benefici riconosciuti ma soprattutto degli obblighi che i richiedenti devono rispettare in riferimento alle condizioni di accoglienza, precisando il venir meno del diritto all’accoglienza in caso di violazione del regolamento Dublino. Nel contesto della commissione Libe si pone l’accento sull’importanza di un’informativa che sia comprensibile, più precisa, altresì nei tempi, che riguardi anche i diritti, le procedure e le conseguenze della mancata osservanza degli obblighi.
Aumentare l’autonomia e le possibilità di integrazione
Al fine di rafforzare le prospettive di integrazione, la Commissione europea prevede che i richiedenti dovrebbero, quanto più rapidamente possibile, essere autorizzati a lavorare, anche se l’esame della loro domanda è ancora in corso. Fatta eccezione per i richiedenti asilo che probabilmente non saranno riconosciuti titolari perché le loro domande sono giudicate “verosimilmente infondate” – tra questi anche il richiedente la cui domanda è in corso di esame nell’ambito di una procedura accelerata, ad esempio perché proveniente da un paese di origine sicuro, profilando, come sottolineato nel parere del Comitato economico e sociale europeo, una discriminazione fondata sulla nazionalità.
Il termine per l’accesso al lavoro dovrebbe quindi essere ridotto da un massimo di nove mesi a un massimo di sei dalla presentazione della domanda, una delle questioni delicate, questa, per il Consiglio europeo (si vedano le discussioni al Consiglio). La norma non tocca l’assetto italiano, dove, per strana lungimiranza, l’accesso al lavoro è previsto dopo due mesi dalla verbalizzazione della richiesta di asilo. La logica alla base resta quella di ridurre gli incentivi ai movimenti secondari, evitando che i richiedenti asilo vadano alla ricerca dello stato che offre maggiori opportunità di lavoro (si veda la Relazione introduttiva della Proposta di rifusione della Commissione, p. 5).
Dovrebbero anche essere garantite condizioni di lavoro pari a quelle dei cittadini nazionali oltre che la libertà di associazione, la formazione professionale, il riconoscimento di diplomi, certificati e altri titoli di formazione. Tuttavia, l’esistenza di eccezioni a questi principi, di differenti condizioni economiche e sociali in ambito europeo e di altri ostacoli all’accesso effettivo riduce l’importanza delle conseguenze pratiche di tale disposizione.
Le modifiche predisposte dalla commissione parlamentare propongono di fornire accesso al mercato del lavoro entro due mesi dalla presentazione della domanda con l’esclusione del richiedente per il quale lo stato, nell’ambito di una procedura accelerata, abbia stabilito che non ha diritto al riconoscimento della protezione. Vengono eliminate alcune deroghe e introdotte alcune tutele, come la formazione in materia di diritto del lavoro, prevedendo anche l’attivazione di un corso di lingua al fine di facilitare un migliore inserimento nel territorio e principalmente l’opzione, facoltativa, che gli stati permettano di richiedere un titolo di soggiorno per lavoro laddove venisse respinta la domanda di protezione internazionale.
Sebbene le proposte emendative della relatrice Libe, laddove adottate integralmente, apportino alcuni elementi significativi e migliorativi anche eliminando, a ragion veduta, alcune previsioni ai limiti della legittimità, resterebbero prescrizioni decisamente allarmanti, e resta impossibile condividere l’approccio di fondo punitivo e poco realistico proposto dalla Commissione europea.
L’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani riconosce a ogni individuo il diritto a condizioni di vita sufficienti a garantire il benessere, con riferimento all’alimentazione, il vestiario, le cure mediche, l’assistenza sociale e la sicurezza in caso di perdita di lavoro, malattia, invalidità, vecchiaia. L’accoglienza dovrebbe essere per tutti e non un mero privilegio destinato a chi se lo merita.
Questa è la terza e ultima parte del nostro approfondimento sulla riforma del diritto d’asilo UE.
Per saperne di più:
• La prima parte dedicata al disegno complessivo del progetto di riforma e la seconda parte sull’approccio securitario del nuovo regolamento Dublino;
• L’explainer sul Regolamento Dublino.
Foto di copertina: Russell Watkins/DFID, CC BY 2.0.