“La richiesta di protezione internazionale, per norma, può essere fatta dovunque e anche con l’ausilio di un mediatore. Deve essere poi formalizzata in un verbale, modello C3, in tre giorni. Questi tre giorni possono essere prorogati di dieci. A Napoli la verbalizzazione del modello non avviene entro i termini previsti dalla legge, ma avviene in media dopo cinque, sei mesi”.
L’avvocata Martina Stefanile, da Napoli, ha il dono della chiarezza nello spiegare – nella sua assurdità – la situazione che vivono centinaia di persone di fronte alla violazione di un loro diritto: quello di chiedere la protezione internazionale. Nulla di questo ha a che fare con il fatto che venga o meno concessa, siamo alla fase della manifestazione della volontà, quindi in piena violazione di un diritto fondamentale.
Perché accade? Ancora l’avvocata Stefanile prova a spiegare: “Si vive sempre su un termine emergenziale, non previsto da nessuna norma, perché i tempi di attesa sono infiniti rispetto a quello che prevede la legge. E parliamo di nuclei parentali con minori, di donne vittime di tratta, soggetti vulnerabili eppure tutti restano in attesa per mesi dopo aver chiesto protezione. Prima del gennaio 2018, la Questura di Napoli prevedeva le file fisiche fuori dagli uffici, il lunedì mattina, per 50 richieste, poi ridotte a 40. Si creavano file assurde, con persone che dormivano fuori dalla questura per strada, e ovviamente fallì, perché si creavano situazioni anche di pericolo per la sicurezza oltre alla lampante violazione dei diritti. A quel punto la Questura di Napoli, e anche quella di Caserta, crearono un sito dedicato della Polizia di Stato dove richiedere la protezione internazionale online. Attivo solo il giovedì mattina e accettava solo le prime 40 domande, che si esaurivano in pochi minuti. E presupponeva che tu sapessi leggere e scrivere e che avessi una connessione internet. Le file diventano virtuali, le violazioni le stesse”.
Il quadro, se possibile, negli ultimi anni si è aggravato anche a causa della pandemia. “ASGI e altre associazioni segnalano questa assurdità e la Questura, circa in concomitanza con il Covid, elimina il sito dedicato, ma non crea un’alternativa”, spiega Stefanile.” A quel punto i richiedenti potevano inviare una PEC attraverso le associazioni e gli avvocati e tutti eravamo convinti fosse solo uno strumento emergenziale per il periodo della pandemia, ma adesso è diventato lo strumento ordinario. Al punto che chi si reca fisicamente in Questura si sente dire di inviare una PEC. Per esercitare un diritto, solo per dichiarare la propria volontà di chiedere la protezione internazionale. Questa è la situazione che viviamo e che soprattutto vivono queste persone”.
La società civile, a Napoli come altrove, ancora una volta, tenta di barcamenarsi nel mondo sempre più complesso e feroce dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo.
“Come gruppo della società civile che comprende ASGI, ActionAid, CGIL, Mediterranea, Avvocati di Strada e LasciateCIEntrare e altri, abbiamo istituito da fine settembre un tavolo di lavoro sul tema con la Questura di Napoli”, spiega Stefanile. “Ci sono stati due incontri, dove abbiamo illustrato tutte le problematiche connesse alle attese: i ritardi fino a 7 mesi nell’accesso alla procedura, le attese fino a 9 mesi nel rinnovo del permesso di soggiorno, il possesso di iscrizione anagrafica come requisito per la consegna del permesso di soggiorno, il possesso di passaporto per il rilascio di permessi per protezione internazionale, la gestione materiale dell’utenza all’esterno dell’ufficio ed altro. Quanto allo strumento della Pec, pare sia destinato ad essere strumento ordinario per chiedere asilo, nonostante ufficialmente non vi sia alcun avviso all’utenza o regolamento interno, né potrebbe esservi perché sarebbe illegittimo. Cosa dire, è ovvio che la PEC sia meglio di niente, o meglio di file fisiche e siti assurdi, ma è paradossale che ad un fenomeno migratorio oramai ordinario, debbano continuare a darsi risposte emergenziali e pertanto improprie. pagare queste lacune amministrative sono le persone che vedono violati i loro diritti”.
Chi deve far rispettare la legge non la applica e per prassi si muove fuori da quanto stabilito dalle norme, non potendo però standardizzare questa procedura proprio perché non a norma di legge. C’è di che far impallidire Kafka. Come non bastasse questa situazione incredibile, si aggiunge una procedura lentissima anche per coloro che riescono a presentare domanda di protezione internazionale.
“Una volta presentata la domanda”, spiega ancora Stefanile, “la Commissione Territoriale dovrebbe convocarti entro 30 giorni e decidere entro tre giorni rispetto al caso. La norma prevede delle tempistiche derogatorie in casi particolari, dove la Commissione può prorogare il momento della decisione fino a dodici mesi. Tuttavia, anche in questa fase, i termini ordinari di 3 e 30 giorni non vengono mai rispettati”.
Stessa sorte per coloro che tentano di opporsi ai rimpatri verso i cosiddetti tredici paesi sicuri (attualmente dodici, essendo l’Ucraina sospesa) che derivano dal periodo del ministro Salvini. “In fase giudiziaria è ancora più complesso, perché quando si presenta il ricorso non viene in automatico sospeso il diniego della protezione. È come dire che dovresti tornare nel paese di origine e aspettare la decisione del giudice sul ricorso che può arrivare dopo quattro anni, salvo che non ci sia una decisione differente del giudice”.
Una situazione complessa e grave che non riguarda solo Napoli, ma che a Napoli vive un elemento particolare di gravità. Quello legato alla casa. ActionAid ha lavorato a un rapporto proprio sul tema della residenza e Stefanile spiega il particolare groviglio burocratico.
“Napoli ha un’emergenza abitativa enorme. La Questura di Napoli richiede – per il rilascio del permesso di soggiorno – una iscrizione anagrafica. Anche se mi viene riconosciuto lo status di rifugiato, con priorità, richiede l’iscrizione anagrafica prima, in conflitto con la norma nazionale che prevede una residenza dopo aver ottenuto un permesso di soggiorno. Ragionando come la Questura dovrebbe ritenersi che i senza fissa dimora non potrebbero ottenere protezione, lo stesso dicasi per tutti gli abitanti del territorio napoletano che non accedono a contratti di affitto. Centinaia di permessi di soggiorno, per persone che ne hanno diritto, sono bloccati per mancanza di residenza. Una situazione assurda, che per esempio non accade a Caserta o Salerno. Su questo tema – spiega Stefanile – servono soluzioni comuni e univoche, soluzioni che attendiamo dalla Questura al prossimo tavolo di lavoro.”.
Il prossimo incontro previsto del tavolo tra la società civile e la Questura di Napoli è previsto per gennaio 2023, almeno per il problema della residenza. Nello stesso gruppo dell’avvocata Martina Stefanile lavora anche l’avvocata Stella Arena, da sempre impegnata sui diritti della società civile, anche al fianco di ActionAid, ASGI e altre associazioni.
“Seguo il problema dei ritardi dal 2016, che è strutturale: di fondo si continua ad affrontare la questione migrazioni come un’emergenza. Non si capisce perché, visto che oramai da tempo l’afflusso è costante nel nostro paese, a eccezione di momenti particolari come la crisi ucraina, o in passato il 2011, o il 2015. Ma in generale è assurdo continuare ad avere un approccio emergenziale alla questione. Ci vorrebbe una ristrutturazione generale sul tema, per quanto riguarda la legislazione, ma anche delle strutture. Gli uffici della Questura di Napoli sono inadeguati, se ne lamentava lo stesso questore, con poche stanze in una zona dove diventa anche pericoloso per gli utenti sostare. Detto questo, però, ci sono dei tempi e delle norme chiare sui tempi per la domanda di protezione internazionale e, pur tenendo conto del contesto, le tempistiche attuali non sono accettabili”.
Arena sottolinea come, di base, esista una grande contraddizione narrativa rispetto al tema della ‘sicurezza’.
“Rispetto alle persone per strada, a Napoli, la situazione è terribile non solo per coloro che sono vittime dei ritardi nel riconoscimento della domanda di protezione internazionale, quanto quelli che hanno un disagio mentale. Una donna incinta è stata per mesi per strada a Napoli, c’è una persona che dorme per terra davanti al Museo Nazionale in città, ma non abbiamo centri specifici che si occupino del disagio mentale in particolare per i soggetti migranti che sono ancora più vulnerabili. Varie ordinanze del TAR dicono che per queste persone, con disagi mentali e richiedenti asilo, sarebbero i SAI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), ma che non li prendono in carico, perché non sono attrezzati, ma neanche si attrezzano. Non so di chi sia la responsabilità, dello Stato, del Comune o della singola cooperativa, ma c’è il fatto che queste sono persone traumatizzate, proprio per queste persone andrebbero previsti posti in strutture attrezzate – spiega Arena – C’è bisogno di più personale deputato a queste attività, e anche di conoscere i numeri: quante domande vengono prese in carico dalle singole questure in una settimana? Ci danno dei numeri, che non sono verificabili, e che non sono chiari. Bisogna avere chiarezza anche su questo. Si parla di grandi afflussi, ma per quello che vediamo sul territorio questi numeri non ci sono e viene il dubbio che non sia solo un problema di numeri, ma di volontà di dare accesso a queste procedure. Dando a cinque mesi la possibilità di accedere a un diritto, le persone si spostano e per me è allucinante rispetto alle normative vigenti che esistono e che in modo illegittimo non vengono applicate. Dopo lo sbarco, li accogli nei centri, e dopo mesi prendi impronte e identità, per la sicurezza è un sistema folle, quello che dichiarano non coincide con quello che fanno. Lo metti in un CAS, ma non te ne fai carico e non dai un documento, li fai vagare con una PEC in mano, che sicurezza garantisci al territorio, visto che pubblicamente invece tutte le istituzioni dicono di avere proprio la sicurezza come priorità?”, si chiede l’avvocata.
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In copertina: Questura di Napoli, foto via WikiCommons