Nel parco Saint Pierre di Calais
“Ho lasciato l’Afghanistan tre anni fa e adesso sono qui”. Rasoul fa segno verso terra: sta seduto su una panchina nel parco Saint Pierre di Calais insieme ad alcuni compagni di viaggio. Hanno occhi di colori abbaglianti, ma li rivolgono in basso quando sfila lentissima un’auto della polizia. Gli uomini in divisa scrutano quelli sulla panchina come per perquisirli da lontano.
“Sono arrivato a settembre e ho vissuto per un po’ nella Giungla; sono andato a Dunkirk, ma dopo qualche mese sono tornato a Calais”, continua Rasoul. Usa il nome informale Jungle, Giungla, con cui dal 2015 si è cominciato a chiamare l’insieme di accampamenti dei migranti nella città. L’inglese di Rasoul è incerto e se ne scusa, proponendo di telefonare per la traduzione al fratello, che vive nel Regno Unito e che spera di raggiungere, prima o poi.
Il parco si trova proprio dietro la stazione di Calais, ma nessun migrante può semplicemente salire su un treno e andarsene. Quello che possono fare, invece, è aspettare tutta la notte nel parcheggio “Belgium” e chiedere un passaggio per Dover ai camionisti fermi in sosta, oppure salire a bordo dei veicoli di nascosto. In mancanza di una tecnica efficace, saltare su un camion è ogni volta una scommessa, perché gli autisti potrebbero anche essere diretti altrove, o venire subito bloccati alla frontiera. L’unica cosa sicura è che nessuno vuole restare a dormire all’addiaccio e che tanto vale tentarle tutte.
I dati dopo lo sgombero di ottobre 2016
Da quando gli abitanti della Giungla sono stati sfrattati e il campo demolito lo scorso ottobre, si fa fatica a tenere il conto delle persone che si sono spostate. All’epoca dello smantellamento, ufficialmente 7.000 migranti vivevano nella Giungla. Secondo Help Refugees, la popolazione totale era di 8.143 persone. Il governo del Regno Unito ha infine accettato che 750 bambini fossero trasferiti dalla Francia oltre la Manica. Le autorità francesi hanno trasportato una parte degli adulti in altri centri di accoglienza sparsi per il paese.
Dei restanti, alcuni si sono trasferiti poco lontano nel campo Grande-Synthe a Dunkirk, come Rasoul. Grande-Synthe era un campo più piccolo, dove la pressione si è fatta intollerabile con i nuovi arrivati. In seguito allo scoppio di un gigantesco incendio ad aprile di quest’anno, anche quel rifugio è scomparso e, come Rasoul, tutti sono stati costretti a spostarsi di nuovo. In quel momento Medici Senza Frontiere contava 900 persone evacuate e 600 scomparse da ogni registro.
Il rapporto più recente del Refugee Rights Data Project, basato su una ricerca dell’aprile 2017, mostra che ancora 400 persone vivono a Calais, di cui almeno 200 sono minori non accompagnati (qui l’analisi del rapporto precedente, quello del settembre 2016). Per timore delle incursioni notturne della polizia, devono dormire nei sacchi a pelo sotto i ponti e stare nascosti fra i cespugli. A distanza di tempo dalla demolizione, gira voce che presto si costruirà un nuovo campo nel nord della Francia. I migranti rimpiangono la vita nelle tende, e sperano che sia vero.
Il 33 per cento dei migranti intervistati dal Refugee Rights Data Project sostiene di non voler chiedere asilo in Francia perché lì non si sente al sicuro, l’89 per cento ha raccontato di aver subito violenze da parte della polizia, e soltanto il 4 per cento descrive il trattamento loro riservato come “buono” o “molto buono”. Hanno sperimentato abusi verbali e fisici, e quasi tutti l’uso di spray urticanti da parte delle forze dell’ordine.
Il divieto di nutrire i migranti
“È una vera caccia all’uomo, che si tiene ogni notte. Vengono intossicati con il gas urticante spruzzato direttamente in faccia, colpiti coi manganelli e inseguiti lungo la strada”, dice Alix, la rappresentante dell’associazione legale Cabane Juridique. “L’uso della violenza non ha nemmeno lo scopo di impedire ai migranti di salire su un camion, ma soltanto quello di molestarli, stancarli, denigrarli e far capire loro che non hanno diritto di essere qui. Mi è capitato di vedere un poliziotto spruzzare gas urticante in faccia a un rifugiato che gli stava passando vicino. Senza motivo”.
L’associazione in cui lavora Alix difende l’accesso equo ai diritti e supporta i migranti di Calais e altrove – una delle molte organizzazioni coinvolte in questo quadro che negli ultimi mesi si è ancora aggravato. Piccole Giungle si formano e vengono disfatte di continuo, divise per comunità e paesi di origine, nei parchi e nelle zone più remote della città, come lo spazio industriale de les Dunes. Per questo il 2 marzo il sindaco di Calais, Natacha Bouchart, ha introdotto nuove norme che impediscono ritrovi nelle zone dove vivono i migranti. La legge locale vieta “tutte le occupazioni abusive, prolungate e ripetute della zona industriale delle Dunes”. Quattro giorni dopo, il divieto è stato esteso al bosco Dubrulle e alla Place d’Armes.
Di fatto, la decisione del sindaco impediva anche di ritrovarsi in fila per ricevere il cibo offerto dai volontari, e ha provocato la reazione indignata delle associazioni umanitarie. In men che non si dica, un collettivo di cui fa parte la Cabane Juridique ha presentato la richiesta di autorizzazione a distribuire i pasti. Hanno firmato anche rappresentanti di Care4Calais, l’Auberge des migrants, Help Refugees, Utopia 56, Groupe d’information et soutien des immigrés, Ligue des droits de l’Homme, Médecins du monde, Refugees Community Kitchen, Réveil voyageur e Secours catholique. Nonostante questo dispiegamento di forze, Bouchart ha rifiutato il permesso, invocando come giustificazioni le tensioni tra gruppi etnici diversi, le risse e i frequenti incendi.
Il collettivo di associazioni ha presentato ricorso al tribunale amministrativo di Lille, che a fine marzo ha giudicato la decisione del sindaco di Calais “una violazione grave e manifestamente illegale alla libertà di andare e venire e a quella di riunirsi” che ostacola “la soddisfazione dei bisogni elementari, essenziali al diritto di non subire trattamenti inumani e degradanti”.
“Ma questo non ha cambiato molto le cose,” ammette Alix. Ogni sera, tutti gli attori in gioco si fissano a vicenda come il gatto col topo: i poliziotti dicono ai volontari che hanno soltanto un’ora per distribuire i pasti, i volontari cercano di mantenere l’ordine e la calma, i migranti aspettano fermi ed escono dai cespugli quando scattano le sei. Spesso vengono schierati membri delle forze speciali, le Compagnie Repubblicane di Sicurezza in tenuta antisommossa. Se qualcosa va storto, i poliziotti scacceranno le persone in attesa. Se ci vorrà più tempo di quanto stabilito, i poliziotti fermeranno qualcuno e lo porteranno via per interrogarlo, nonostante le distribuzioni siano perfettamente legali.
“Quando abbiamo chiesto di vedere un documento ufficiale che dimostrasse l’origine di questa decisione, non avevano niente da esibire”, spiega Alix. I poliziotti infatti non hanno bisogno dell’autorizzazione del sindaco per fare incursione: obbediscono alla prefettura e la prefettura a sua volta al Ministro dell’Interno.
Non a caso, i volontari arrivati da meno di una settimana si limitano a preparare i pasti, mentre quelli più esperti possono partire con i furgoncini alle cinque e smistare i pacchetti. Michel Drouet viene da Lille ogni fine settimana per prestare servizio all’Auberge des Migrants: “Nel clima in cui siamo adesso è meglio che chi non ha seguito l’addestramento non partecipi alla distribuzione”.
A fine maggio, la polizia ha fermato una ragazza per oltraggio a pubblico ufficiale perché, voltandosi di scatto, ha fatto cadere per sbaglio un pacchetto di cibo addosso a un poliziotto.
“[Le autorità] credono che, se continuiamo a offrire servizio ai migranti, loro continueranno a venire a Calais, non capendo che in realtà è la posizione geografica della città che da anni e anni attira i migranti”, dice Ilaria Bianco, un’altra volontaria all’Auberge. Anche il magazzino dove cucinano e raccolgono le donazioni si trova a un indirizzo che preferiscono tenere nascosto per evitare ritorsioni.
Per Rasoul, tuttavia, le difficoltà per mangiare sono il problema minore: “Il cibo va bene, ma vorrei un posto che posso chiamare casa”. I ragazzi insieme a lui dicono di essere stati svegliati di soprassalto la notte prima. La Cabane raccoglie queste testimonianze e cerca di corredarle con foto e video per poi presentare i reclami alla prefettura. Attualmente la maggior parte dei migranti è troppo impaurita per protestare e il processo richiede tempi molto lunghi. Ma secondo Alix va fatto, in modo che la polizia e la società in generale non possano dire “non lo sapevamo”.
Anche l’Auberge des Migrants e Utopia 56, durante una conferenza stampa il 1° giugno, hanno denunciato “l’uso di gas urticante per svegliare i migranti nei loro sacchi a pelo, l’uso di gas nell’acqua e nel cibo, i colpi e le ferite, il furto di carte di soggiorno, la confisca di telefoni cellulari”. Le denunce sono arrivate al Difensore dei diritti, un’istituzione indipendente che ha chiamato in causa l’azione dei servizi di stato nella gestione della situazione migratoria. Lo scorso 14 giugno il prefetto del Pas-de-Calais, Fabien Sudry, ha risposto con un breve comunicato in cui non faceva nessun riferimento alla violenza. Se si chiama il centralino della prefettura per chiedere la reazione alle accuse, si riceve una copia del comunicato via email. Il comunicato non parla di alcuna investigazione in corso, anzi: “Le forze dell’ordine effettuano con discernimento e professionalità un lavoro difficile nel rispetto del diritto. Il loro impegno è riconosciuto dalla popolazione di Calais e dall’insieme dei responsabili pubblici e socio-professionali”.
L’ultima volta che la Cabane Juridique ha presentato una denuncia per azioni che hanno coinvolto i minori, per un po’ la tensione si è placata. D’altronde finora nessuno è stato condannato, e la violenza contro le 400 persone ancora ferme a Calais va a ondate. Il 5 giugno il nuovo ministro dell’Interno Gérard Collomb ha inviato altri 150 poliziotti. Oggi il rapporto fra poliziotti e i migranti, se si escludono i minorenni, è quasi di 1:1.
In copertina: ll cartello che ricorda la popolazione della Giungla di Calais prima dello sgombero dell’ottobre 2016 (foto di Emi Barbiroglio, come tutte le fotografie nell’articolo).