A tornare a casa, nonostante le precarie condizioni dei luoghi di origine, sono soprattutto le famiglie, che oggi rappresentano oltre il 60% dei rientri, al contrario di quanto accadeva negli anni scorsi, quando a muoversi erano soprattutto gli uomini. La provincia con il maggior numero di rientri è quella di Herat, seguita da Farah e Baghdis.
Nel 2021, con il ritorno al potere dei talebani, le persone fuggite dall’Afghanistan sono state 2 milioni e 300 mila (dati Unhcr), mentre gli sfollati interni 3 milioni e mezzo. Un anno dopo i rifugiati avevano raggiunto i 5 milioni e 200 mila, un numero che è cresciuto di altre 600 mila unità nel 2023 e che poi si è leggermente ridotto a 5 milioni e 300 mila nel 2024.
Un paese ancora in emergenza
Oggi il paese mantiene lo stesso numero di sfollati interni, e conta quasi 23 milioni di persone bisognose di assistenza umanitaria, circa la metà della popolazione totale. Come riporta il World Report 2025 di Human Rights Whatch, 12,4 milioni di afghani affrontano l’insicurezza alimentare e 2,9 milioni non hanno cibo a sufficienza. Il peggioramento delle condizioni di vita già precarie in Afghanistan è stato analizzato anche nell’ultimo Rapporto del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, nel quale si considerano una serie di indicatori: i costi dell’assistenza sanitaria, i prezzi dei prodotti alimentari, le condizioni abitative, la possibilità di avere indumenti caldi d’inverno, la disponibilità di acqua e di carburante, gli eventi avversi. È emerso che il 95% della popolazione è stata colpita da disastri climatici, l’84% non dispone di vestiti adatti alle basse temperature, il 71% subisce l’aumento dei prezzi dei generi alimentari, il 70% non può permettersi cure mediche, il 69% non ha un alloggio confortevole, il 59% ha avuto problemi con l’approvvigionamento idrico e il 52% non ha la possibilità di usare del carburante per il riscaldamento.
A queste gravi difficoltà si aggiungono le politiche dei talebani che hanno continuato a limitare gli spazi di libertà e di diritto, in particolare per le donne, gli operatori dei media, gli ex funzionari governativi. La missione Onu in Afghanistan, Unama, ha documentato arresti e detenzioni arbitrarie, casi di tortura e punizioni corporali. Le minoranze etniche come gli Hazara hanno continuato ad essere prese di mira dallo Stato Islamico del Khorasan. Nel frattempo, la decisione degli Stati Uniti di chiudere l’Agenzia per lo sviluppo internazionale ha di fatto eliminato il 40% degli aiuti umanitari dedicati all’Afghanistan.
In questo contesto di grave crisi il paese si trova oggi a dover gestire enormi flussi di cittadini allontanati dai paesi confinanti o che decidono di rientrare proprio per evitare i provvedimenti di espulsione.
Gli afghani in Iran
Si stima che gli afghani in Iran siano fra i quattro e i sei milioni, dei quali oltre la metà in una situazione di irregolarità. Dal maggio scorso Teheran ha avviato una campagna di espulsione contro i cittadini stranieri presenti illegalmente sul suo territorio, e intimato alle persone sprovviste di documenti di andarsene “volontariamente” prima di essere fermati e respinti. Da allora più di 700 mila profughi afghani hanno scelto di partire, e altre centinaia di migliaia sono stati deportati. Secondo l’Unhcr, solo durante i 12 giorni di guerra con Israele, ne sono stati espulsi quotidianamente circa 30 mila. Anche se il governo iraniano ha sempre negato di aver preso di mira la comunità afghana, la più numerosa sul territorio, le testimonianze raccolte dall’Alto Commissariato Onu raccontano di raid in luoghi pubblici e viaggi estemporanei fino ai valichi di frontiera di Dogharoun, verso Islam Qala, e di Milak verso Zaranj.
Gli afghani in Pakistan
Anche per il Pakistan quella afghana è la comunità straniera più numerosa presente nel paese. Gli afghani censiti dall’Unhcr come rifugiati sono oltre un milione e mezzo, ai quali si aggiungono almeno altrettante persone non registrate.
Dallo scorso aprile il governo di Islamabad ha annunciato il ripristino del Piano di rimpatrio dei cittadini stranieri illegali, compresi gli afghani, che prevede la deportazione forzata di coloro che non risultino in possesso di documenti di residenza validi. Secondo l’Unhcr, dal primo aprile al 3 giugno i rientri accertati in Afghanistan dal Pakistan sono stati oltre 230 mila, dei quali almeno 42 mila trasferimenti forzati. La maggior parte degli afghani ai valichi di Torkham e Chaman in attesa di essere espulsi hanno lamentato aggressioni (46%), detenzioni arbitrarie (80%), abusi fisici (16%), casi di estorsione (8%) e confisca di documenti (3%).
La prima fase del Piano era iniziata il 3 ottobre del 2023, dopo che Islamabad aveva deciso di procedere con l’espulsione di oltre un milione di persone sprovviste dei documenti di soggiorno. Da allora, fino al mese di settembre dell’anno successivo, più di 700 mila afghani avevano già fatto rientro nel proprio paese, e 84 mila di essi erano stati sottoposti a deportazione forzata.
Gli afghani in Europa
Dall’ultimo Rapporto del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esiliati (Ecre) sulle richieste d’asilo degli afghani nei paesi dell’Unione Europea, risulta che i cittadini dell’Afghanistan sono tuttora uno dei gruppi più numerosi fra i richiedenti asilo, con 100.930 domande di protezione internazionale presentante nel 2023 nei diversi paesi Ue, in particolare in Germania, Francia e Grecia, e che nonostante il tasso complessivo di protezione sia aumentato (80% contro il 53% del 2019), continuano ad incontrare grandi difficoltà e lentezza nelle procedure.
La Germania è il paese con il maggior numero di richieste d’asilo, e non solo da parte degli afghani e dei siriani, che rappresentano la maggioranza dei richiedenti. Tuttavia, nella prima metà di quest’anno si è registrato un calo del 49,5% di tutte le domande rispetto allo stesso periodo del 2024, con 72.818 richieste totali (61.336 presentate per la prima volta e 11.482 ripresentazioni dopo un primo rifiuto o un ritiro della domanda iniziale), e 15.181 formulate da cittadini afghani.
Gli afghani in Italia e la strada tortuosa dei ricongiungimenti familiari
In Italia gli afghani residenti sono poco più di 17.600 (dati 2024), e le comunità più numerose vivono nel Lazio, in Lombardia, in Puglia e in Piemonte. I titolari di protezione internazionale, secondo i dati raccolti dal Centro Astalli lo scorso anno, erano 16.825. Chi riesce ad ottenere la protezione, spesso deve affrontare nuovi iter burocratici estenuanti per riuscire a fare uscire dal paese anche i familiari. “La situazione più drammatica che riscontriamo non è tanto per coloro che arrivano in Italia ma per i familiari che restano – spiega Loredana Leo, coordinatrice del progetto di Collaborazione italiana pro bono per i rifugiati afghani Cipbra di CILD – il problema è che dall’Afghanistan non c’è modo di partire in modo regolare, non ci sono le rappresentanze diplomatiche, non ci sono i voli diretti, quindi le persone sono costrette a spostarsi, in Iran o Pakistan, per tentare il ricongiungimento. Una volta arrivati a Islamabad o a Teheran, si scontrano con le procedure delle ambasciate italiane in loco, spesso lentissime nel rilascio dei visti, e non riuscendo a completare l’iter entro tre mesi, si ritrovano a scegliere se restare in questi paesi da irregolari oppure ricominciare da capo tornando in Afghanistan.”
Leo spiega che c’è chi rientra nel paese d’origine “volontariamente” per non rischiare di essere deportato dai paesi ospitanti, come sta succedendo in questi mesi, avere la possibilità di scegliere dove stare e non essere additati dalle autorità come coloro che erano fuggiti.
“Se nel 2021, subito dopo il ritorno al potere dei talebani, c’era stata una grande attenzione nei confronti degli afghani, oggi non è più così, né dal punto di vista mediatico né istituzionale – continua Leo – tuttavia la situazione non è migliorata per loro, c’è una crisi umanitaria molto forte, e quindi chi rientra non lo fa perché ha scelto di ricostruire la sua vita suo paese, ma solo in attesa che si sblocchi il rilascio del visto. Di conseguenza non possiamo parlare, in questi casi, di rimpatri volontari. Un mio assistito, che seguo da anni per una pratica di ricongiungimento cominciata nel 2021 e non ancora terminata, ha deciso di tornare in Afghanistan per rivedere la famiglia e supportarla, mettendo a rischio anche la sua permanenza in Italia. Ci troviamo di fronte a situazioni di questo tipo, con l’ambasciata italiana che richiede alla persona di effettuare il test del Dna per provare il legame familiare, ma questo non può essere fatto perché in Iran l’accordo con il Ministero degli Affari Esteri e l’Oim non è partito.”
Cipbra continua ad occuparsi anche degli ex collaboratori delle autorità italiane, che durate le missioni Nato hanno lavorato come interpreti, ingegneri, personale specializzato in vari campi. Perché nonostante il grande clamore iniziale delle evacuazioni del 2021, molti professionisti afghani restano ancora in attesa di risposta, spesso a rischio della propria incolumità.
“Riceviamo tante richieste di persone che hanno collaborato con gli italiani in Afghanistan e che non hanno ancora ricevuto il via libera per venire in Italia, nonostante potrebbero essere prese di mira proprio per il ruolo avuto. Eppure per loro non ci sono facilitazioni. È facile accusare altri paesi di violazioni, soprattutto se si tratta di Iran e Pakistan, ma anche le autorità italiane non si stanno curando pienamente di quanto previsto dalle norme internazionali”.