1. L’intesa con una delle peggiori dittature al mondo
La vicenda da cui origina il ricorso segue la sottoscrizione dell’accordo di polizia in materia di immigrazione tra il Capo della Polizia italiana, Franco Gabrielli, ed il Capo della Polizia sudanese ad inizio agosto 2016. Il memorandum d’intesa con il Sudan è solo uno dei numerosi accordi siglati dall’Italia per semplificare la riammissione di cittadini di paesi terzi ritenuti “irregolari”. L’accordo con il Sudan è stato particolarmente discusso e contestato trattandosi di una delle peggiori dittature al mondo. Sul presidente Omar al-Bashir pende un mandato di cattura emesso dalla Corte penale internazionale per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel contesto del conflitto in Darfur – che ha causato circa 400mila vittime e oltre 2 milioni di sfollati. Come spiega Sara Prestianni (Arci immigrazione), “nell’ambito del processo di esternalizzazione, l’Europa non si fa problemi a sedersi al tavolo delle trattative con i peggiori dittatori, che vengono così pericolosamente “rivalutati” come legittimi attori della politica internazionale”.
L’esistenza del memorandum d’intesa fu svelata solo a fine agosto 2016, a seguito dell’indignazione pubblica per il rimpatrio forzato di 48 giovani da Ventimiglia al Sudan.
L’allora Ministro dell’Interno Angelino Alfano rivendicava così la legittimità dell’operazione: “Violazione dei diritti umani? No, pieno rispetto di un accordo tra la polizia italiana e quella del Sudan”. Peccato che quell’accordo, mai passato all’attenzione del Parlamento e reso pubblico solo nell’ottobre del 2016, sia in violazione del diritto italiano e internazionale.
Trattasi infatti, secondo la denuncia delle organizzazioni del Tavolo Nazionale Asilo di un atto “totalmente illegittimo”: “l’accordo di polizia tra il governo italiano e quello sudanese si pone in contrasto con principi di diritto interno e internazionale, tra cui in primis il divieto di refoulement ovvero di rimpatrio a rischio di persecuzione… L’Italia ha l’obbligo di non trasferire persone verso paesi dove corrono un rischio concreto di gravi violazioni dei loro diritti umani”.
2. Ventimiglia-Khartoum ad alta velocità
Nonostante i paesi europei, Italia inclusa, siano determinati a portare avanti la propria strategia di esternalizzazione delle frontiere sono innegabili le gravi conseguenze che tali politiche hanno in termini di violazioni dei diritti fondamentali. Dando luogo, tra le altre cose, a rimpatri collettivi verso luoghi in cui le persone si troveranno a rischio di trattamenti inumani. Come nel caso di specie: lo scorso agosto, le autorità italiane hanno dato un forte segnale di operatività dell’accordo organizzando una operazione diretta all’arresto ed al rimpatrio di un elevato numero di cittadini sudanesi presenti a Ventimiglia. Circa in sessanta sono stati fermati nel comune ligure il 19 agosto e successivamente trasferiti in pullman sino all’hotspot di Taranto, dove sono rimasti giusto il tempo per vedersi notificato un decreto di espulsione adottato dal prefetto della città con accompagnamento alla frontiera convalidato dal giudice di pace. Poi di nuovo per strada, lo stesso tragitto al contrario, ed il 24 agosto i cittadini sudanesi sono già condotti all’aeroporto di Torino per essere imbarcati su un volo per Khartoum.
L’aereo decolla, ma a bordo sono “solo” in quarantotto, perché alcuni sono riusciti a sottrarsi al rimpatrio di massa: sette cittadini sudanesi sono infatti stati fatti scendere dall’aereo in partenza e condotti nel Cie della città per ragioni di sicurezza.
3. Se questo è un paese terzo sicuro
Appare peraltro significativo che tutti e sette abbiano poi presentato domanda di protezione internazionale e ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato. Il che, in realtà non sorprende: in Italia circa il 60% delle domande di protezione internazionale presentate da sudanesi nel 2016 hanno infatti avuto esito positivo – un dato in linea con i numeri europei, secondo cui quella sudanese è attualmente tra le 10 nazionalità con il tasso di accoglimento più alto – in conseguenza della difficile situazione nel paese.
Una situazione generale che investe tutti i cittadini sudanesi ma che è particolarmente grave per quanti provenienti dal Darfur. Questa provincia è infatti notoriamente investita e coinvolta in un conflitto armato che continua a causare sfollamenti di massa e vittime civili e nel cui contesto tutte le parti coinvolte nel conflitto hanno perpetrato gravi violazioni dei diritti umani. Tutto messo nero su bianco da una serie infinite di rapporti delle Nazioni Unite e delle organizzazioni che si occupano di diritti umani (tra cui Human Rights Watch e Amnesty International).
Nonostante queste siano le condizioni in cui versa il paese, l’Italia ha considerato perfettamente accettabile disporre rimpatri ad alta velocità e bassa garanzia. Peccato che secondo il diritto internazionale tali procedure siano ammissibili solo verso i cosiddetti paesi terzi sicuri. E questo evidentemente non lo è…
- FOTO: UN Photo/Albert Gonzalez Farran (CC BY-NC-ND 2.0).
4. Il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
E così cinque dei cittadini sudanesi rimpatriati – e raggiunti in Sudan dagli avvocati Fachile e Bellucci dell’Asgi – hanno presentato ricorso alla Corte Europea il 13 febbraio*.
La ricostruzione offerta dai ricorrenti è limpida e netta: il rimpatrio forzato del 24 agosto ha violato il principio di non refoulement verso uno stato dove non vengono rispettati i diritti fondamentali e c’è il rischio di subire trattamenti inumani (art. 3 della Convenzione europea ma anche, a livello nazionale, art. 19 del decreto legislativo 286/98). Un rischio particolarmente evidente nel caso in oggetto, e di cui il governo italiano avrebbe dovuto avere consapevolezza anche a prescindere dalle espresse e disperate richieste dei ricorrenti – sia di fronte al giudice di pace sia al momento dell’imbarco – di non essere riportati in Sudan. E che in ogni caso non viene certo meno per via del formale impegno del governo sudanese al rispetto dei diritti umani, perché – come ricordato dalla CEDU nel 2012 condannando Italia per un rimpatrio di massa in Libia eseguito in virtù dell’accordo tra Gheddafi e Berlusconi – il dato giuridicamente vincolante è la situazione di fatto e non anche le promesse di un dittatore.
Violato anche il divieto di espulsioni collettive (art. 4 del quarto protocollo alla Convenzione). Quella di agosto, documentano i ricorrenti, è un’operazione che è stata programmata e preordinata a dimostrare l’efficacia delle politiche di rimpatrio basate sulla nazionalità grazie a specifici accordi – come del resto rivendicato dallo stesso governo italiano – e all’interno del quale si sono adottate rapidissime procedure semplificate di identificazione e rimpatrio che hanno compromesso il diritto all’informazione sul diritto d’asilo e il diritto a un esame individuale delle domande.
Leso sarebbe infine anche il diritto ad un ricorso effettivo per entrambe le doglianze data l’impossibilità per i soggetti coinvolti di agire contro il provvedimento di espulsione in modo da impedire o sospendere il rimpatrio (art. 13 della Convenzione).
E adesso resta da vedere che cosa avranno da dire i giudici di Strasburgo. Perché l’ennesima condanna dell’Italia per la pratica dei rimpatri di massa verso paesi terzi evidentemente non sicuri potrebbe costituire un importante monito per il governo italiano – di cui c’è bisogno oggi più che mai.
*Ricorso firmato dagli avvocati Salvatore Fachile e Dario Belluccio dell’Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione (Asgi) e sostenuto dalle associazioni che compongono il Tavolo Nazionale Asilo – Arci, Asgi, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, Amnesty International Italia, A Buon Diritto, Senzaconfine, Cnca, Medu, CIR, Focus Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli.
Immagine di copertina: Pixabay (CC0).