Rischiava fino a 10 anni di carcere Hafez (nome di fantasia indicato dai suoi avvocati), un richiedente asilo afgano, detenuto in Grecia con un’accusa allo stesso tempo feroce, assurda e molto pericolosa.
Secondo gli inquirenti ellenici, infatti, Hafez aveva la responsabilità colposa della morte del figlio, per averlo portato con sé su un gommone che – come tanti – tentava di arrivare in Grecia dalle coste della Turchia.
Il gommone si è rovesciato e la tragedia, quotidiana in quel braccio di mare, si è consumata ancora una volta. Hafez, 26 anni, è disperato, come racconta il suo avvocato, Dimitris Choulis, ad Al-Jazeera.
Alla fine è stato assolto, grazie anche all’impegno di molte realtà della società civile, perché molto peggio dell’eventuale, durissima, condanna, sarebbe stato far passare l’idea di poter essere accusato di aver contribuito alla morte del figlio solo per essere fuggito da quell’Afghanistan che, di colpo, ad agosto 2021, tutti hanno riscoperto come un luogo tragico dopo che i Talebani hanno ripreso il controllo del paese.
La tragedia è avvenuta nella notte tra il 7 e l’8 novembre 2020, quando il figlio di cinque anni di Hafez è annegato. Ha raccontato di aver abbracciato forte il figlio mentre la barca, con 24 persone a bordo, urtava gli scogli al largo dell’isola greca di Samos, nell’Egeo orientale, e si capovolgeva.
Il ragazzo è scomparso in acqua; la polizia greca ne ha ritrovato il corpo senza vita sulla spiaggia della costa di Capo Prasso, una zona dell’isola ripida e rocciosa, a volte chiamata “Capo della Morte” dagli stessi pescatori dell’isola greca.
La storia di Hafez è la storia di centinaia di migliaia di afgani che non hanno goduto dell’attenzione del mondo che è durata meno di un mese ad agosto scorso, è la storia di centinaia di migliaia di migranti in fuga che non hanno la stessa attenzione e la stessa empatia che hanno coloro che fuggono dall’Ucraina.
La sua richiesta di asilo era già stata respinta due volte in Turchia e rischiava la deportazione in Afghanistan. “Sono venuto qui solo per il futuro di mio figlio”, ha detto al suo avvocato Hafez, che non riesce a capire perché rischiasse il carcere per questo tragico evento che ha visto morire suo figlio.
Non si capiva, in effetti, quale fosse la differenza tra il figlio di Hafez e Alan Kurdi, ad esempio? Nell’immaginario di molti è scolpita l’immagine del copro senza vita del piccolo Alan, siriano di due anni, annegato dopo che la sua barca si è rovesciata durante il viaggio dalla Turchia alla Grecia e il cui corpo è stato ritrovato su una spiaggia turca nel 2015. La sua famiglia è stata aiutata, si generò un’ondata di solidarietà che attraversò tutta Europa. Qual è la differenza?
La narrazione, come sempre. Il figlio di Hafez è uno dei tanti bambini morti nel Mar Egeo mentre cercavano sicurezza in Europa, ma il padre è il primo che si trova ad affrontare questa accusa terribile. L’avvocato Choulis si era detto convinto dell’assoluzione, e per fortuna aveva ragione, ma la sensazione è quella dell’ennesimo tentativo di spingere il discorso sulle migrazioni lontano dal suo reale focus.
Partendo proprio dal ruolo delle autorità greche che processano un padre che ha perso un figlio nel tentativo disperato di dargli una vita migliore. Senza alternative, ricordiamolo sempre, perché nessuno rischia la propria vita e quella dei suoi figli se ha un’alternativa sicura e legale. Ma agli Hafez del mondo non è data altra possibilità che i canali irregolari per fuggire dall’Afghanistan e da altri luoghi del mondo.
Ecco, le autorità greche se la prendono con lui, ma non hanno aperto un’inchiesta sulla cronologia degli eventi di quella notte nel Mar Egeo. L’avvocato Choulis ha dichiarato che le autorità hanno impiegato più di sei ore per condurre un’operazione di salvataggio quella notte.
Aegean Boat Report, ONG norvegese che monitora gli arrivi di richiedenti asilo in Grecia e che viene spesso contattata da chi arriva, ha confermato ad Al-Jazeera di aver chiamato la polizia portuale di Samos alle 12:06 dell’8 novembre 2020 per informarli di un arrivo e del fatto che c’erano persone disperse. Secondo Choulis, i richiedenti asilo che sono riusciti a raggiungere gli scogli dal naufragio hanno testimoniato di aver visto un’imbarcazione che pattugliava la zona e che ha acceso le luci su di loro, ma poi si è allontanata.
La Guardia Costiera greca ha dichiarato ai media di aver risposto inizialmente a una richiesta di soccorso, ma di non aver trovato nessuno. Alle 6 del mattino dopo, Hafez stava ancora cercando disperatamente suo figlio, ha incontrato degli agenti di polizia e ha raccontato loro l’accaduto.
Quando il figlio è stato trovato quella mattina, era troppo tardi per salvarlo. Il corpo del bambino fu recuperato vicino a quello di una donna incinta, che era incosciente, ma viva, e partorì giorni dopo nell’ospedale dell’isola.
L’avvocato Choulis ricorda come Hafez fu poi portato in manette per identificare il corpo del figlio.
E poi l’accusa di omicidio colposo e comportamento negligente. Ma nulla su quella Guardia Costiera greca che è coinvolta, come l’agenzia Frontex che resta a guardare senza muovere un dito, in respingimenti illegali e violenti, che mettono a rischio le vite dei migranti.
L’inchiesta del magazine tedesco Der Spiegel, a marzo scorso, ha ampiamente dimostrato come Frontex fosse a conoscenza dei respingimenti operati dalla guardia costiera greca verso la Turchia a danno dei richiedenti asilo. E li ha coperti. Le accuse di Der Spiegel hanno portato alle dimissioni del direttore di Frontex Fabrice Leggeri.
Choulis rappresenta anche un altro richiedente asilo, Hasan (altro pseudonimo), che è stato processato negli stessi giorni di Hafez, per essere stato il conducente della barca in cui si trovavano Hafez e suo figlio. Hasan, anch’egli afghano, rischiava l’ergastolo per la morte del bambino di cinque anni, oltre a un massimo di 230 anni di carcere per aver messo in pericolo la vita di 23 persone, ma ha ottenuto una condanna a un mese e cinque mesi con sospensione della pena.
Hasan è uno dei sempre più numerosi richiedenti asilo che hanno dovuto affrontare accuse di traffico di esseri umani in Grecia per essere stati alla guida dell’imbarcazione. E questo ci racconta una storia già nota, quella della criminalizzazione – mediatica e giudiziaria – della figura dello ‘scafista’, che quasi sempre è un altro migrante disperato messo al timone dai trafficanti veri, che si muovono nell’impunità di quelle autorità turche che l’Ue ricopre di denaro dal 2016 per fare il lavoro sporco.
Hafez, Hasan e molti altri, sono parte di un processo: criminalizzare i migranti. Un processo che va in parallelo alla criminalizzazione della solidarietà, come abbiamo visto in tanti casi in Europa e anche in Grecia, come dimostra il caso seguito da Human Rights Watch nel processo contro Sarah Mardini e Sean Binder, tra i 24 imputati per le loro presunte affiliazioni con Emergency Response Center International (ERCI), un gruppo di ricerca e soccorso senza scopo di lucro che ha operato a Lesbo e nelle acque greche dal 2016 al 2018.
L’accusa e l’indagine sono state descritte in un rapporto del Parlamento europeo come “il più grande caso in corso di criminalizzazione della solidarietà in Europa “.
Il 5 maggio 2022, tre richiedenti asilo provenienti dalla Siria, che erano a bordo di un’imbarcazione rovesciatasi al largo dell’isola greca di Paros nel dicembre 2021, sono stati condannati per “favoreggiamento dell’ingresso non autorizzato” in Grecia e condannati collettivamente a 439 anni di carcere.
Siamo di fronte a un attacco ai diritti umani fondamentali, mentre nulla si fa per migliorare le condizioni dei contesti di origine dei flussi migratori, mentre i fondi finiscono nella militarizzazione e nella esternalizzazione delle frontiere, mentre si mandano in carcere attivisti e cittadini solidali.
Non è stato solo Hafez a essere sotto processo, ma il concetto stesso della libertà di fuggire da contesti di ferocia e pericolo, che sono sempre esistiti nella storia, ma se passasse il criterio legale per il quale la vittima è colpevole della sua stessa tragedia, si creerebbe una breccia pericolosa nel muro del buon senso e dei diritti, compreso quello a cercare una vita migliore.
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