Jalal e Simo lasciano il Marocco a giugno del 2017. Jalal, che ha 33 anni, saluta sua moglie e suo figlio a Oujda, la sua città al confine con l’Algeria. Simo, 23 anni, parla bene il francese, oltre al marocchino. All’inizio, atterrano all’aeroporto internazionale Carthage di Tunisi e si dirigono verso la Libia, il paese da cui credono di partire per l’Italia.
Si fa metà settembre. Jalal e Simo, come tanti altri migranti in transito, lavorano a Sabrata, nella Libia occidentale, a 80 chilometri dalla capitale Tripoli e 100 dal confine con la Tunisia. Ma il viaggio verso l’Italia non è mai stato così lontano. In una casa a due chilometri dal mare, insieme ad altri cinque compagni di viaggio – uomini di 50, 40 e 31 anni, tutti di nazionalità marocchina tranne un algerino – si ritrovano ad essere testimoni oculari della battaglia di Sabrata e ostaggio dei combattimenti.
Richard, dallo sportello legale di Arci Porco Rosso a Palermo, è in contatto con alcuni loro amici in Olanda e mi inoltra i loro messaggi il 18 settembre, quando la battaglia infuria ormai da tre giorni interi. “Abbiamo bisogno di aiuto. Abbiamo paura. Ci hanno rubato tutto e ci hanno picchiato. Non mangiamo da tre giorni. Siamo in una casa a due chilometri dal mare”, scrive Jalal in chat su Messenger. Nel frattempo anche Simo chiede aiuto: “Continuano i bombardamenti. Sentiamo i rumori della battaglia fuori. Abbiamo paura. Siete la nostra unica speranza. Non dormiamo dall’inizio della battaglia”.
Da quel momento comincio a corrispondere direttamente con loro in privato. Dei primi giorni di battaglia scrive in Italia L’Espresso il 19 settembre: “La causa scatenante, quattro giorni fa, è stato il passaggio di un veicolo con i vetri oscurati vicino al quartier generale dell’Operation Room anti Isis, la forza militare che contrasta la presenza di fondamentalisti in Libia. Il veicolo appartenente alla milizia Anas Dabashi non si sarebbe fermato al check-point, provocando uno scontro a fuoco tra i militari dell’Operation Room e la potentissima milizia, che controlla il traffico di uomini della zona e anche il traffico di carburante”.
Ma il casus belli è solo un pretesto per una battaglia tra milizie che ci si aspettava da molto. Da un lato il clan Dabashi, ormai celebre nel traffico dei migranti con il suo boss Ammu, e la Brigata 48, il cui nome era saltato fuori ad agosto: si tratta della banda criminale che bloccava le partenze dei migranti come nuova tattica nel post-accordi tra l’Italia e il governo Serraj. Dall’altro, l’Operation Room, militari anti-Isis affiliati al Generale Haftar, e la brigata al-Wadi, salafita di ispirazione, pronta a schierarsi secondo gli interessi politici anche con il governo presieduto da Fayez al-Serraj, il quale invece conta – direttamente o indirettamente – sui traffici dei Dabashi.
Ma tutto questo è lontano da Jalal e Simo: “Ieri [domenica 17 settembre] sono entrati in casa degli uomini armati, col volto coperto, ci hanno rubato i passaporti e sono andati via. Sentiamo gli spari in continuazione fuori. Dove andiamo?” dice Simo, mentre Jalal aggiunge in un altro messaggio: “le milizie circondano il posto in cui siamo. Non abbiamo neanche del pane. Uno fra noi è malato, soffre di pressione alta e diabete. Abbiamo pensato che l’unica soluzione è correre verso il mare: morire annegati, piuttosto che colpiti dalle loro pallottole”. E a queste parole allega il video in diretta degli spari nella notte. “Non sappiamo il nome delle milizie, avevano delle jeep militari”.
La mattina dopo, cominciamo a contattare la Mezzaluna Rossa libica, Amnesty International sezione Tunisi, Medici senza Frontiere; allerto amici a Zuwara e a Tripoli, nonché altri giornalisti che di recente sono stati in Libia e a Sabrata in particolare, sperando possano essere d’aiuto o raccogliere l’appello di Jalal e Simo. Ma non appena comincio a fornire loro alcuni numeri, Jalal risponde: “Abbiamo contattato la Mezzaluna Rossa libica. Non hanno fatto nulla”, mentre Simo scrive: “Non possiamo parlare con i giornalisti: se ci vedono in video, vengono a ucciderci”. Solo alcuni giorni dopo, un collega di La7 riesce a fare sentire la voce di Simo in un servizio che trasmette i suoi messaggi vocali su WhatsApp.
Nessuna delle organizzazioni umanitarie può entrare a Sabrata. Le strade da Tripoli o da Zuwara sono chiuse. Gli stessi abitanti di Sabrata sono tappati in casa o lasciano la città per paura degli scontri. Il 19 settembre sera giunge la notizia di poche ore di tregua, e invito Jalal e il suo gruppo a fuggire, come sono riusciti a fare alcuni rifugiati eritrei che sono in contatto con un amico a Zuwara. “Non sappiamo verso dove fuggire. Troppo pericoloso muoversi. Hanno ucciso delle persone vicino a noi. Siamo usciti per cercare pane e acqua, abbiamo trovato solo spari e missili potenti. Uccidono abitanti, civili, pacifici. Questi sono dei criminali”, scrive arrabbiato Jalal, ormai il 20 settembre, e al quarto giorno senza cibo. Ma più che di fame, stanno morendo di paura. Li convinco a inviare la loro posizione su WhatsApp, dopo molte esitazioni e timori lo fanno: perché solo così, forse, Msf Olanda potrebbe provare a raggiungerli da Tripoli e fare qualcosa.
Solo il 24 settembre sembra essere un giorno di calma, ma senza passaporti è rischioso allontanarsi: “Ci sono check-point e controlli ovunque, rischiamo solo di essere imprigionati, con un’accusa grave” [quella di aver tentato di lasciare illegalmente il paese]. La calma del resto dura poco: quelli fra il 27 settembre e il 6 ottobre saranno i giorni più difficili di battaglia: “Il fuoco, gli spari, i missili, sono sopra le nostre teste. Abbiamo bisogno del vostro aiuto”, scrive ancora Simo. Nel frattempo, mandano foto della città durante la battaglia: palazzi distrutti e in fiamme, corpi smembrati, mani e teste tagliate. Tutto l’orrore in cui sono intrappolati: e noi, così come le organizzazioni internazionali, impotenti, distanti. Ed è proprio il 6 ottobre la data in cui Operation Room dichiara la vittoria sul clan Dabashi, prendendo possesso della città e dichiarando la fuga dei membri del clan, con almeno 30 morti e 150 feriti, ma il numero potrebbe essere di gran lunga superiore.
Solo allora diversi migranti imprigionati – se ne scoprono a migliaia, fino a 9 mila – troveranno un poco di assistenza in diverse case e centri di detenzione informali: Jalal è fra quelli portati prima in un hangar gestito dall’Unhcr, e poi si reca a Tripoli. Simo invece prende la via del confine tunisino: “Siamo alla frontiera tra Libia e Tunisia, ma non ci hanno lasciato passare in Tunisia, stiamo dormendo qua fuori. Abbiamo pagato per riavere i nostri passaporti. Appena abbiamo dato soldi, ci siamo presi i passaporti e siamo potuti partire”. Ma dopo aver sostato alla frontiera sperando di entrare, Simo viene arrestato e portato in un centro di detenzione a Tripoli, da cui per un mese intero non si hanno più notizie. Jalal invece è fortunato ma solo per poco: “a me pure mi avevano preso insieme a un amico, ci hanno picchiato e preso duemila dinari, poi lasciati andare. Insomma, sorella, ho scoperto che la Libia è molto pericolosa, tutti gli stranieri sono in pericolo, dobbiamo parlare e cooperare perché si sappia di questi criminali”, mi scrive in un messaggio quando è ormai al sicuro a Tripoli.
La battaglia a Sabrata è finita, oggi la città sembra tornata alla calma. Ma presto una delle città vicine potrebbe essere di nuovo terreno di scontri. Sebbene in numeri diversi rispetto agli anni precedenti, le partenze continuano e le stragi del Mediterraneo pure: basta ricordare l’arrivo di 26 donne nigeriane morte, oltre ai 50 dispersi e cinque morti del salvataggio della nave Sea Watch 3 ostacolato dalla Guardia Costiera Libica, e il naufragio del 6 gennaio in cui sono morte almeno 64 persone.
Adesso Simo rischia, dal centro di detenzione dove si trova, di tornare in Marocco tramite i rimpatri organizzati dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni. Mentre Jalal, all’inizio di novembre, è tornato vicino Sabrata, a Surman, per ripartire da là, questa volta, verso l’Europa. Dopo un mese di attesa a Lampedusa, finalmente mi scrive che è arrivato in Germania.
In copertina: rifugiati, migranti e famiglie libiche di sfollati interni al punto di raccolta di Dahman in Libia il 6 ottobre 2016, dove le squadre dell’Unhcr hanno fornito urgente aiuto umanitario a circa 10 mila rifugiati e migranti rimasti bloccati dai combattimenti a Sabrata e dintorni (foto: Unhcr)