È un sabato mattina caldo e soleggiato, di quelli che l’autunno cagliaritano regala anche a novembre inoltrato e che Peter Ositandinma ha imparato a conoscere nei tre anni trascorsi in Sardegna in attesa dell’esito della sua domanda d’asilo.
Il ventiseienne nigeriano passerà anche questo fine settimana sui libri, come sempre da quando, un mese fa, l’Università di Cagliari ha riconosciuto il suo titolo di studio permettendogli di iscriversi al corso di laurea in ingegneria informatica.
“È un privilegio”, dice, sguardo rivolto verso il mare, ben visibile dall’entrata della biblioteca in cima a una collina del parco di Monte Claro. “Se mi fossi arreso sarei morto annegato insieme a tutti i profughi su quel gommone, e invece ho trovato il coraggio di salvare le loro vite e la mia. E guarda dove sono adesso!”.
Il coraggio di salvare quelle vite, in realtà, è costato molto caro a Peter: sei mesi di carcere nel penitenziario sardo di Uta, da cui è uscito soltanto dopo essere comparso per quattro volte davanti a un giudice. La prima era troppo intimidito per riuscire a parlare. Era sbarcato soltanto da qualche giorno, trascorso in ospedale per via di quella ferita d’arma da fuoco alla gamba che si era ricucito da solo, a Zawara, in Libia, prima di imbarcarsi. Come ago aveva usato una spilla da balia attaccata a un filo di cotone estratto da una cucitura della sua t-shirt. I trafficanti gli avevano sparato e lui non sapeva come fare per tenere chiusa la carne lacerata, con il proiettile ancora piantato dentro.
Eroe per necessità
“Mi faceva malissimo la gamba quando siamo rimasti soli in alto mare, dopo che il passeur è salito su un altra barca,” ricorda. “Il motore si è bloccato subito ed eravamo disperati perché nessuno di noi capiva nulla di navigazione e sicuramente nessuno sapeva nuotare”. C’erano anche delle donne incinta, ricorda Peter. Le stesse che, già mamme, si sarebbero poi presentate davanti al giudice a Cagliari per testimoniare che no, Peter non era un trafficante, ma l’eroe che le aveva salvate da morte certa.
“Ci ho messo cinque ore a capire come far ripartire quell’aggeggio, cinque, mentre morivo dal dolore! Gli altri mi dicevano di lasciar perdere ma che alternativa avevamo? In Nigeria studiavo ingegneria elettronica, ho cercato di applicare le mie conoscenze”. Alla fine quelle conoscenze servirono a riavviare il motore e il gommone ripartì in direzione del sole, quella giusta, secondo Peter, per arrivare in Europa.
Soltanto la terza nave incrociata dall’imbarcazione, ormai semi-sgonfia, rispose alle grida d’aiuto di Peter e degli altri passeggeri che, una volta soccorsi, furono trasportati al porto di Cagliari.
“Ho passato tre giorni in ospedale, poi mi hanno riportato al centro di accoglienza”. Nel Cas di Villacidro, piccolo comune del medio Campidano, ad attendere Peter c’erano degli agenti di polizia.
“Mi hanno detto: raccogli tutte le tue cose!” Peter non riesce a trattenere una risata. “Gli ho risposto: quali cose? Io non avevo niente. Solo i jeans che mi aveva dato la Croce Rossa al porto e il sapone per lavarmi. Mi hanno detto: metti tutto in una borsa. Ma io non l’avevo una borsa, allora mi hanno dato una busta”.
Una vita in fuga
Anche in carcere Peter continuò a ricevere assistenza medica. A tre anni di distanza, le sue cicatrici sono ancora ben visibili. In realtà il giovane era rimasto ferito alla stessa gamba anche prima di intraprendere il viaggio che lo portò in Libia attraverso il Niger. Lavorava a Maiduguri, capitale del travagliato stato del Borno, quando rimase coinvolto in un attentato del gruppo terrorista islamico Boko Haram. In quel periodo i terroristi rapivano bambine e ragazze, più facili da imbottire di esplosivi sotto le tuniche senza destare sospetti, e le facevano saltare in aria nei mercati. Suo zio lo trasportò all’ospedale di Potiskum, nel vicino stato di Yobe, ma anche li un attentato suicida costrinse chi poteva alla fuga. Peter, figlio di un cristiano di etnia Igbo originario dell’Est, morto quando lui aveva appena un anno, era terrorizzato.
“In Nigeria appartenere al gruppo etnico degli Igbo è terribile”, spiega. “A un certo punto è diventato insostenibile. All’inizio ci attaccavano con i fucili, i coltelli e le frecce. Poi sono passati alle bombe”.
Così dopo essere fuggito da Potiskum, Peter si rifugiò a Sokoto, nel Nord-Ovest del paese. Quì cercò di curarsi al meglio le ferite e recuperare le forze prima di poter passare il confine con il Niger. “A Sokoto era come se mi fossi stancato di vivere. Era troppo. Poi ho trovato la forza di fuggire”.
Non è un paese in guerra la Nigeria, e i per i profughi come Peter l’ottenimento della protezione umanitaria in Europa non è scontato né facile. Eppure la sua breve storia, così come quella di tanti suoi connazionali, è costellata di violenze, morte e terrore. Peter non ricorda neanche il volto di suo padre, un ex militare che aveva combattuto nella guerra civile e si era poi stabilito al Nord, creando un’attività commerciale come panettiere e sposando una donna musulmana originaria del Camerun. Il conflitto aveva distrutto quella regione e le opportunità economiche, nella fase di ricostruzione, erano maggiori che altrove. I parenti della madre di Peter, però, non accettarono di buon grado che la donna avesse sposato un cristiano.
“Mia madre è morta che avevo cinque anni ma io mi ricordo bene di aver trascorso quel tempo in fuga costante. Ci attaccavano, uccidevano le persone, distruggevano le nostre case e proprietà”.
Appena finita la scuola, Peter decise di iscriversi all’università a Enugu, al Sud, dove gli Igbo sono la maggioranza. Suo padre era originario di questa regione, l’ex Biafra, la cui secessione era sfociata nella sanguinosa guerra civile terminata nel 1970.
Le attività economiche da cui Peter traeva sostentamento, però, erano a Nord. Così alternava periodi di studio a mesi di lavoro fra Maiduguri e Potiskum. Fu durante una di queste “pause” di lavoro che rimase ferito nell’ondata di attentati.
“Voi sentite parlare di Boko Haram,” dice. “Ma questo è un fenomeno relativamente recente. Prima di Boko Haram c’erano altri terroristi. Da quelle parti è sempre stato così”.
La prigionia in Libia
Vent’anni di vita passati a scappare dalle violenze settarie nel suo paese, seguiti dalla prigionia e le torture in Libia, hanno fatto sì che Peter non sapesse cosa significasse vivere in pace e sicurezza fino al suo arrivo in Italia.
“Quando mi hanno messo in prigione qui io mi sono sentito per la prima volta al sicuro”, racconta. “Non mi sembrava vero di poter bere del latte ogni mattina e mangiare tutti i giorni”.
Gli dicevano che rischiava di passare 15 anni dietro le sbarre ma a lui non importava. “Pensavano di spaventarmi ma non capivano che per me la certezza di restare in vita per altri 15 anni era già tanto!”.
In carcere Peter chiese dei libri per studiare l’italiano. Nel giro di qualche mese era già in grado di comunicare con gli altri detenuti. Ancora stenta a credere che la prigione avesse una biblioteca, una televisione, un campetto di calcio.
La detenzione che lui conosceva era ben diversa. In Libia, si era stabilito a Ghadames, dove riuscì a lavorare come elettricista finché le violenze armate lo costrinsero a fuggire a Tripoli. Quì lo rapinarono e lo imprigionarono, uccidendo i suoi amici davanti ai suoi occhi.
“Per loro è un business”, racconta. “Prendono noi neri, ci rinchiudono e ci costringono a chiamare le nostre famiglie per il riscatto. Se nessuno paga tu vieni ucciso”. A volte, quando un riscatto veniva pagato, i carcerieri andavano a liberare l’ostaggio e chiamavano il suo nome. Se nessuno rispondeva, qualcun altro si faceva avanti. Altre volte, quando i prigionieri erano costretti ai lavori forzati, qualcuno riusciva a scappare. Così fece anche Peter, che fuggì a Zawara insieme a un gruppo di connazionali.
“Da lì volevamo tornare a casa, ma chi era partito non aveva più dato notizie. Sicuramente erano tutti morti nel deserto e noi avevamo paura di fare la stessa fine”.
Così furono rapiti di nuovo. Molti non sopravvissero alla detenzione. “Ci torturavano. Ci bruciavano la pelle con un accendino e della plastica rovente. A volte arrivavano con una pistola, la puntavano contro qualcuno e gli facevano saltare il cervello. Ci dicevano: dovete andare in Italia! Dovete pagare! Un giorno mi hanno messo sul gommone, anche se non avevo pagato. Non sapevo neanche cosa mi stesse capitando”.
Ha passato due anni in Libia, Peter, i peggiori della sua vita.
Il sogno di una vita normale
L’avvocato, racconta, si copriva gli occhi quando lui e un altro migrante detenuto a Uta, con le natiche completamente scorticate, gli mostravano le ferite.
Il giudice che dispose la sua liberazione pronunciò una frase che Peter ricorda bene: “Disse: io non parlo inglese ma una cosa la so dire: you are not convicted, non sei condannato. Tutti si misero a ridere”.
Tre mesi dopo essere uscito di prigione Peter passò l’esame di italiano che gli permise di iscriversi in terza media. Iniziò poi a frequentare i serali di un istituto professionale. “È lì che un insegnante mi ha parlato della possibilità di far riconoscere il mio titolo di studio nigeriano per iscrivermi all’università in Europa”.
Peter è uno fra i 12 rifugiati e richiedenti asilo ad aver ottenuto a luglio, primi in Italia, il “passaporto europeo per le qualifiche dei rifugiati”.
Per lui è stato il coronamento di un sogno, insieme a quello, già realizzato, di andare a vivere con la sua fidanzata, una coetanea originaria dell’Ucraina, che insegna arte ai bambini. “Lei mi ha amato dall’inizio per quello che sono”, dice. “E io voglio sposarla appena potrò”.
Per il momento spera in un esito positivo della sua richiesta d’asilo e, occasionalmente, lavora come mediatore culturale in tribunale.
“Per lo stesso giudice che ha deciso sul mio caso”, sorride. “Anche lui mi chiede: e allora? Te li hanno dati questi documenti?”.
Foto di copertina: Peter Ositandinma, 26 anni, studente di ingegneria informatica all’Università di Cagliari. È fra i primi richiedenti asilo a ottenere un certificato per studiare in Europa (fotografia di Tiziana Cauli come tutte le immagini in questo articolo)