Wasim fa le scale a fatica, e solo da pochi giorni ha cominciato ad appoggiare per terra il piede che si è ferito durante il terremoto del 6 febbraio. Insieme alla famiglia ha lasciato Maraş e ora si trova a Kilis, nella struttura dell’associazione non profit Amal for Education, che opera in città da anni, e dopo il sisma ha messo a disposizione alcune stanze per l’accoglienza di famiglie sfollate con bisogni prioritari.
“Quella notte ci siamo svegliati all’improvviso perché abbiamo sentito che tutto intorno si muoveva – ricorda – erano poco più delle quattro, ma all’inizio non ci siamo allarmati perché da queste parti i terremoti sono frequenti, non era la prima volta che sentivamo una scossa. Poi ci siamo resi conto che tutta la casa stava oscillando, anche il tetto, e così siamo scesi al piano terra per uscire fuori, ma la porta, in ferro, si era bloccata perché il muro aveva cominciato a crollare e la schiacciava dall’alto. Ho cercato in tutti i modi di aprirla, e alla fine si è staccata ed è caduta, colpendomi anche il piede. Mi sono ferito così, ma almeno siamo riusciti a metterci in salvo all’aperto. Mentre correvamo per strada, tanti edifici alle nostre spalle venivano giù. Ci siamo radunati in una piazza con altre persone, siamo rimasti lì un paio di giorni e poi abbiamo deciso di venire a Kilis, dato che qui ci sono i miei genitori e la situazione della città non è disastrosa come quella di Maraş.”
Wasim è uno dei tanti cittadini siriani che negli anni ha ricostruito la sua vita in Turchia. Partito da Idlib otto anni fa, ha vissuto quattro anni a Istanbul per poi trasferirsi a Maraş, dove ha trovato lavoro in una fabbrica di tessuti. Ora pensa di tornare, appena le condizioni di salute glielo consentiranno, per riprendere a lavorare, dato che la sua fabbrica riapre perché fortunatamente non è crollata.
“Mia moglie sta per partorire – spiega – quindi nei prossimi mesi lei resterà a vivere a Kilis con i miei genitori, mentre io ricomincerò a lavorare, e continuerò le cure mediche al piede, che qui ho dovuto sospendere.”
Secondo i dati dell’Unhcr, sono oltre tre milioni e mezzo i siriani che dal 2011 a oggi si sono trasferiti in Turchia, e la metà di loro vive nelle province interessate dal sisma.
In quella di Kilis in particolare, un abitante su due è un cittadino siriano, mentre a Gaziantep, Sanliurfa and Hatay il rapporto è di uno ogni quattro o cinque.
“Ho abitato a Kilis con la mia famiglia fino al 2018 – racconta Fatma, 13 anni – da allora vivevo a Izmir. Poco prima del terremoto eravamo tornati qui per una visita ai nonni, e ora siamo rimasti per stargli vicino nell’emergenza. In pratica è stata una casualità, ma ci dà l’opportunità di aiutare chi è in difficoltà e di restare vicini.”
Oggi Fatma è impegnata nella preparazione dei pasti per gli sfollati che tutti i giorni l’organizzazione Amal provvede a cucinare e distribuire a circa un migliaio di persone, che qui vengono a registrarsi uno per uno. “Data l’emergenza abbiamo riadattato le nostre normali attività di istruzione e formazione ai bisogni essenziali di questo momento – spiega Isabella Chiari, fondatrice di Amal for Education e docente di Linguistica all’Università La Sapienza di Roma – attualmente prepariamo i pasti per chi ne ha bisogno, ma stiamo già studiando nuove forme di aiuto per chi gradualmente fa ritorno nelle proprie case, dove c’è la possibilità, e magari potrà ricominciare a cucinare, e quindi avrà nuovi bisogni. Insomma, adattiamo il nostro supporto a ciò che serve alle persone.”
Nel 2014 Amal for Education ha aperto un community centre a Kilis, Bait al Amal, la casa della speranza, pensato come un punto di assistenza, incontro e servizi culturali e sociali per i rifugiati siriani, ma anche per la locale comunità turca coinvolta in progetti di inclusione. Oggi la palestra è stata temporaneamente riadattata a cucina.
“In città sono state allestite diverse tendopoli, anche per le persone arrivate da altre zone, come Maraş – spiega Isabella Chiari – uno si trova dentro lo stadio, un altro nella sede del Direttorato dello sport e della gioventù. Quello allestito in piazza della Repubblica è già stato chiuso. Tra le famiglie del posto molte sono già tornate a casa, se hanno avuto la certificazione di agibilità, anche se all’inizio avevano paura, perché un terremoto di questa portata lascia traumi profondi. E quindi nelle tende c’è spazio per chi arriva da fuori, siriani soprattutto, che qui hanno parenti e conoscenti. Il piano a lungo termine è quello di ospitarli nei dormitori per gli studenti universitari, almeno fino all’estate e alla ripresa delle lezioni del prossimo anno accademico. La tendopoli non può essere una soluzione duratura, perché ora non c’è il riscaldamento, e quando le temperature si alzeranno saranno comunque luoghi invivibili.”
Gli spostamenti, non solo dei turchi che hanno parenti, conoscenti o una seconda casa altrove, ma anche dei rifugiati, sono stati possibili grazie ad alcuni provvedimenti che li hanno svincolati dal luogo di residenza, seppure per un tempo limitato legato all’emergenza del terremoto.
Il 7 febbraio il Ministero dell’Interno turco ha emanato una direttiva che consente ai cittadini stranieri residenti nelle dieci province interessate dal sisma, di recarsi in altre città o province del paese, fatta eccezione per Istanbul, per un massimo di 90 giorni. Ma siccome in molti si erano già spostati verso la metropoli, la Direzione generale per la gestione dell’immigrazione ha concesso a queste famiglie di risiedervi per 60 giorni. Il 13 febbraio è stato poi emesso un secondo provvedimento che concede a chi ha una protezione internazionale o temporanea, ed è registrato in una delle cinque province più danneggiate, Kahramanmaraş, Hatay, Gaziantep, Adiyaman e Malatya, di recarsi altrove senza alcuna autorizzazione per 60 giorni. Chi proviene delle altre cinque province terremotate (Adana, Osmaniye, Sanliurfa, Kilis e Diyarbakir), deve invece richiedere un permesso di viaggio prima di partire.
Fra queste, colpite ma non in modo estremamente drammatico, Kilis è stata una delle principali mete, più che un punto di partenza.
Situata al confine con la Siria, lungo la strada che da Aleppo porta a Gaziantep, la città è stata il primo approdo per molti dei siriani che dall’inizio della guerra, nel 2011, hanno lasciato il paese. Fra il 2011 e il 2015, secondo uno studio pubblicato nel 2022, condotto dal Dipartimento di Lingua turca della Facoltà di Arte e Scienze della locale università, Kilis ha triplicato i suoi abitanti, passando dai circa 100 mila prima della guerra in Siria ai 300 mila di quattro anni dopo. Ancora oggi, nonostante i movimenti demografici della popolazione rifugiata, che spesso ha trovato lavoro e soluzioni abitative in altre province della Turchia, è rimasta un’area urbana dove la popolazione turca è numericamente inferiore a quella siriana, e dove si è creato un modello di convivenza e integrazione unico nell’area. Dopo il 6 febbraio, la popolazione qui è cresciuta di un ulteriore 27%.
Non è un caso, dunque, che Kilis sia stata una delle città che ha saputo rispondere meglio all’emergenza, avendo accumulato negli anni una lunga esperienza di accoglienza, cominciata con l’allestimento dei primi campi profughi e andata avanti con il superamento di tende e container.
“Questo spostamento da città a città sta cambiando nuovamente la demografia di molte aree – dice Isabella Chiari – svuotandone alcune e incrementando la popolazione di altre. E coinvolge migliaia di persone. Per tutte le famiglie, turche e siriane, è difficile ricostruire un percorso di vita, anche perché in tanti hanno perso il lavoro, e spostarsi vuol dire ricominciare da capo. Ma per la comunità siriana in particolare significa ritrovarsi in condizioni simili a quelle della guerra, con le difficoltà di integrazione in Turchia; e per loro c’è anche un ulteriore problema, quello linguistico, che spesso pregiudica l’accesso alle informazioni, alle fonti affidabili per conoscere quali siano le opportunità abitative, o di aiuti economici, o altro. In una zona del paese penalizzata più di altre dalla crisi economica preesistente, dove anche i turchi sono svantaggiati, seppure in modo diverso, e ci sono stratificazioni di fragilità che si sovrappongono, per entrambe le comunità.
Immagine di copertina di Ilaria Romano