La situazione sul confine ungherese è sempre più problematica, con la continua introduzione di norme, barriere e strumenti finalizzati a bloccare i migranti e rendere sempre più difficile fare richiesta di asilo. La normativa ungherese, ostacolando di fatto l’accesso alla richiesta di protezione, prevede il respingimento extragiudiziale fuori dal confine meridionale di ogni migrante rintracciato in soggiorno irregolare. Nonostante questo, durante i nostri sopralluoghi ci è stato ripetutamente raccontato di tanti tentativi di attraversare la frontiera in maniera “irregolare”, spesso senza successo. Si prova e si riprova, anche decine di volte, o si ha in mente di farlo.
Chi riesce a entrare in Ungheria o in Croazia viene subito e automaticamente respinto in Serbia, secondo un modello crescente e sistematico di violenza nei confronti dei richiedenti asilo. Le polizie ungherese e croata non esitano a reprimere con ogni mezzo i tentativi di passaggio alla frontiera, anche attraverso l’uso della violenza, ad esempio sguinzagliando cani addestrati. Nonostante le denunce contro gli abusi subiti dai migranti al confine, finora solo un membro della polizia e un membro dell’esercito sono stati condannati, subendo soltanto sanzioni amministrative. Si direbbe che per difendere principi fondamentali per gli stati, come il diritto di controllare i propri confini, si sia disposti ad arrivare anche a pratiche estreme.
I dati dell’Hungarian Helsinki Committee (Hhc) ci dicono che dal gennaio all’ottobre 2017 sono 9284 i casi in cui l’accesso al territorio ungherese è stato bloccato in frontiera; 7729 le volte in cui le persone sono state scortate al di là della frontiera; 1507 i migranti “irregolari” arrestati. Chi è riuscito ad arrivare fino a Budapest o ha provato a entrare con il treno nascondendosi nei container, ogni volta è stato catturato, picchiato e riportato indietro oppure obbligato a tornare indietro “autonomamente”.
La riammissione in Serbia di persone in stato di soggiorno irregolare in Ungheria è regolata dall’accordo bilaterale tra la Comunità europea e la Serbia per la riammissione di persone in condizione di soggiorno irregolare, entrato in vigore nel gennaio 2008 e implementato dal Protocollo concordato tra Ungheria e Serbia nel dicembre 2009. In ogni caso, i respingimenti di massa verso la Serbia sono da ritenersi violazioni del divieto di realizzare espulsioni collettive, del diritto di richiedere asilo e, in definitiva, se manca una valutazione del caso individuale, del principio di non-refoulement.
Le zone di pre-transito e le liste d’attesa
Nella primavera 2016, dinanzi ai cancelli che separano Ungheria e Serbia, su territorio serbo, sono nate due tendopoli, le cosiddette “pre-transit zones” dei valichi di frontiera di Röszke e Tompa, dove vivevano, in condizioni terribili, persone partite troppo tardi dai loro paesi proprio mentre le politiche europee diventavano sempre più restrittive. Qui, le persone aspettavano nella speranza di entrare nelle zone di transito ungheresi e di accedere alla procedura di asilo in maniera regolare. Attualmente le tendopoli sono spopolate. I richiedenti asilo si recano nelle zone di pre-transito soltanto quando sono in grado di entrare nella zona di transito in Ungheria in base al sistema di lista d’attesa.
Il flusso migratorio dalla Serbia all’Ungheria è infatti gestito attraverso una lista d’attesa, compilata in maniera informale e non esattamente trasparente, con i nomi di coloro che aspettano di essere ammessi nelle zone di transito ungheresi – una pratica che secondo le nostri fonti sul posto ha creato una fortissima corruzione. Si paga per comprare i posti che vengono preventivamente lasciati liberi nella lista proprio a questo fine. In pratica, le autorità ungheresi selezionano i prescelti dalla lista dei richiedenti asilo presenti oltre frontiera e ne comunicano i nomi prima del transito.
Benché priva di qualsiasi ufficialità, la lista di attesa per l’ammissione in Ungheria determina di fatto per quanto tempo le persone dovranno aspettare in Serbia. Una sosta che è diventata molto più lunga – data la progressiva limitazione del numero di persone ammesse alle zone di transito – che può durare anche più di un anno, fino a diventare indefinita.
L’accesso alla procedura di asilo in Serbia
Lui, siriano, è in viaggio da due anni e due mesi. Insieme alla moglie incinta, attende a Subotica da 10 mesi. È transitato da Kos, Atene e Salonicco. Ha valutato di raggiungere Ancona ma poi ha cambiato idea perché “molto spesso le autorità italiane ti rintracciano nelle barche e ti fanno ritornare indietro”. Non sa ancora quale sarà la sua destinazione in Europa, potrebbe anche decidere di fermarsi in Ungheria. Non sa quando sarà il suo turno, pensa forse tra un paio di settimane. Era già stato a Sid, sul confine serbo-croato. Qui si procede per tentativi, si continua a muoversi.
Dopo la progressiva chiusura della rotta balcanica nel 2016, attualmente circa 4 mila persone sarebbero ufficialmente bloccate in Serbia, secondo i dati dell’Unhcr. Molti di loro arrivano da paesi come Iraq, Siria, Afghanistan e Pakistan, ma le stime di chi opera sul posto arrivano a toccare le 10 mila persone. Save the Children stima che circa il 46 per cento dei cittadini stranieri che attendono in Serbia siano minori e il 20 per cento di questi, soprattutto afghani, siano non accompagnati.
Per la Serbia gestire tutto questo rappresenta sicuramente una prova, ma questo paese non solleva problemi, non fa pressioni, si limita a usare i richiedenti protezione come merce di scambio per l’ingresso nell’Unione. Più di 25 milioni di euro sono stati destinati a progetti di aiuto umanitario da parte dell’Unione europea in Serbia e circa 80 milioni di euro di aiuti sono stati forniti dal 2015 da Commissione europea e Stati membri per assistere la Serbia nella gestione dei flussi migratori.
Mentre le richieste di asilo presentate e accettate in Serbia sono un numero decisamente esiguo, l’accesso alle procedure e alle informazioni legali su come ottenervi asilo resta problematico. Le persone sono in ogni caso molto consapevoli di quello che succede e di quello che li aspetta, soprattutto in merito alla nuova normativa ungherese. In Serbia sono riconosciuti come rifugiati solamente cittadini dell’ex Jugoslavia, mentre l’unica altra forma di protezione è quella temporanea. Nel mese di dicembre 2017, secondo i dati dell’Unhcr, 497 persone hanno registrato la loro volontà di avanzare richiesta di protezione internazionale.
La Serbia rimane comunque solo un luogo di transito. La stragrande maggioranza di coloro che hanno espresso l’intenzione di chiedere asilo non intende restare, poiché l’obiettivo finale è raggiungere altri paesi europei. Quindi non presentano domande di protezione in Serbia oppure abbandonano le procedure di asilo, restando bloccati in attesa di attraversare il confine.
I campi informali e non
La maggioranza di chi si trova in Serbia vive nei 18 centri governativi gestiti dal Commissariato per i rifugiati e le migrazioni, ovvero a Belgrado o nel nord del paese in condizioni precarie e informali. Nonostante la Serbia venga considerata dall’Ungheria un Paese terzo sicuro, proprio in quanto candidato all’ingresso nell’Unione, le condizioni in cui vivono oggi i richiedenti asilo, inclusi minori e persone vulnerabili, nei campi informali e non, sono di forte privazione e disagio.
A Subotica, su territorio serbo, a circa 10 chilometri dal confine, sorge uno “stop camp” istituito dal governo tedesco, dove soprattutto famiglie e minori non accompagnati attendono che la loro richiesta di asilo venga valutata dalle autorità ungheresi. È in buona sostanza un campo di transito prima di raggiungere il confine e di essere trasferiti in una delle zone di transito, o di prendere altre strade.
Le condizioni di vita nel campo, a uno sguardo esterno, non appaiono accettabili. Per quanto ci è stato riferito nel corso di tutti i nostri sopralluoghi, nessuno all’interno del campo avanza richiesta di asilo in Serbia. Il campo sembrerebbe ospitare un numero limitato di persone, soprattutto kurdi iracheni, afghani, siriani. È presente la Croce Rossa, che si occupa solo della distribuzione di cibo.
Si entra solo se registrati e, stando a quanto ci è stato riferito, la registrazione si può fare solo in alcune città, come Belgrado, Precevo o Sid, presso il Kommissariat, che nonostante sia presente all’interno del campo di Subotica non effettua registrazioni. Da questi luoghi si viene distribuiti nei centri presenti sul territorio.
Le persone presenti nei campi governativi sono tutte registrate, ma molto spesso il timore è che la registrazione possa poi comportare un rinvio in Serbia. A ciò si aggiungano i lunghi tempi di attesa, la detenzione e la non volontà di restare in Ungheria. Tuttavia, il principio è quello per cui senza registrazione non viene riconosciuto praticamente nessun diritto – semplicemente si diventa invisibili.
A volte la sfiducia nei confronti delle autorità è così forte che i migranti scelgono di evitare i centri ufficiali anche quando ci sono posti disponibili e sono già registrati. Molte persone che si trovano in Serbia, infatti, non sono alloggiate in strutture governative e da molto tempo dormono all’addiaccio, in luoghi come Sombor o Subotica. Vivere in centinaia, in uno spazio isolato, in tenda, senza acqua, luce, senza un riparo dal freddo, dal caldo o dalla pioggia, vuol dire subire un trattamento degradante e non rispettoso della dignità.
Altro luogo di transito è Sid, al confine con la Croazia, da cui passa oggi una rotta importante. Ci viene riferito che qualche centinaio di persone vive lì in condizioni di informalità; si tratta soprattutto di uomini soli, ma non mancano famiglie e minori non accompagnati.
I campi ufficiali presenti a Sid sono due. Uno ospita circa 700 persone e l’altro circa 400. Si noti che i campi nella zona meridionale del paese sono meno affollati poiché tutti e tutte vogliono stare nei pressi del confine, nella speranza di transitare. Se resti fuori dal campo per tre giorni viene eliminata la tua registrazione. Questo succede praticamente ogni volta che si tenta di attraversare il confine. Dopo essere state respinte in Serbia, le persone possono presentarsi in un centro di accoglienza diverso da quello in cui erano ospitate prima, ma non sempre troveranno accoglienza.
Le persone incontrate ci hanno descritto questo transito, questi tentativi, questo limbo come “the game”. Un gioco che rende il passaggio sempre più difficile e insidioso, un continuo ripassare dal via, in cui l’unica certezza è che continueranno a tentare.