Tozeur sorge in mezzo a una distesa di sabbia, benché la città sia stata edificata fra due bacini, il grande lago salato Chott el Djerid a sud e il più piccolo Chott el Gharsa a nord. D’estate, con temperature che raggiungono i 50° e piogge quasi inesistenti, tutta l’area è completamente a secco.
Avvicinandosi al confine con l’Algeria, che da Tozeur dista circa sessanta chilometri, si incontra Nefta, ultima cittadina prima della frontiera di Hazoua. Qui la vegetazione si fa sempre più rada, fino ad aprire la strada a quella che i tunisini chiamano la porta del Sahara, l’inizio del grande deserto.
Le rotta algerina
Fino a pochi mesi fa questa rotta era relativamente poco battuta dai migranti, e chi oltrepassava il confine algerino solitamente arrivava dai paesi della zona ovest della fascia subsahariana, come Burkina Faso, Mali, Niger, mentre oggi sono sempre più numerose le persone provenienti da Sudan, Etiopia, Somalia, Chad, che hanno prima attraversato la Libia e poi si sono dirette in Algeria.
“Le rotte cambiano in base alle crisi che avvengono nei paesi d’origine, e alle informazioni raccolte lungo il percorso sulle maggiori o minori possibilità di varcare una frontiera – spiega Samir Lahzami, avvocato della Lega dei diritti umani di Tozeur e Nefta – di certo nel nostro paese c’è una maggiore attenzione, e quindi più controlli, al confine con la Libia, anche perché si tratta di una zona costiera, dove si organizzano le partenze via mare, e avvengono purtroppo anche molti naufragi. Da queste parti ci sono meno probabilità di essere fermati, respinti, ma pure di essere soccorsi. In Tunisia non abbiamo un sistema di accoglienza strutturato, e compiere un viaggio così lungo nel deserto aumenta la vulnerabilità dei migranti, perché mette alla prova la loro sopravvivenza fisica, oltre ad esporli all’azione indisturbata di predoni e sfruttatori.”
Lahzami fa parte di una rete creata dalla società civile per aiutare i migranti subsahariani che spesso arrivano a Nefta in condizioni di salute molto precarie, o che sono stati derubati lungo la strada. “Ci sono persone che non hanno nulla più dei vestiti che indossano – spiega – e che quando gli viene rubato il telefono perdono anche l’ultima possibilità di restare in contatto con la famiglia. È allora che diventano completamente invisibili e soli.”
Le oasi
L’unica speranza di sopravvivenza, in un viaggio che si percorre a piedi nella sabbia, è raggiungere un’oasi in cui trovare un po’ di ristoro, e aspettare l’imbrunire per proseguire il viaggio. Nell’area di Nefta ce ne sono alcune molto estese e fitte, dove le palme consentono di avere ombra, e datteri per sfamarsi, finché qualche volontario non arriva a portare acqua e cibo. Chi approda qui è appena entrato in Tunisia, e si prepara a continuare il viaggio verso la costa, attraversando il paese da ovest a est, passando per Gafsa, verso Sfax. Sulla strada si incontrano giovani soli, o in piccoli gruppi, che si trascinano sotto il sole fino all’oasi successiva. Se qualche auto si ferma e offre dell’acqua, alcuni corrono a prenderla, mentre altri, in particolare le donne, si allontanano spaventate e spariscono nella vegetazione. Bisogna percorrere centinaia di metri a piedi fra le palme per trovare alcuni gruppi di persone accampate per terra.
Khalid e la paura del mare
Khalid è qui da tre giorni, e siede su una cassetta di plastica verde, di quelle che si usano per la frutta. È con altri due connazionali, e uno di loro ha appena tolto le scarpe distrutte svelando lacerazioni e vesciche ai piedi.
“Sono partito dal Sudan circa due mesi fa, dopo che è cominciata la guerra tra l’esercito e le Forze di supporto rapido. In questo periodo ho attraversato quattro paesi: Ciad, Niger, Algeria e ora Tunisia. Sono rimasto al confine per tre settimane prima di riuscire a oltrepassare quest’ultima frontiera, più volte ho pensato di morire, perché non avevo né acqua né cibo, e il caldo era molto forte. In Algeria sono stato anche derubato, hanno preso gli ultimi soldi che mi erano rimasti e il telefono, quindi non ho più notizie della mia famiglia, non posso più mettermi in contatto con loro, non sanno che sono ancora vivo, e io non lo so di loro, in mezzo al conflitto.”
Khalid racconta di aver paura del mare, per questo preferirebbe chiedere la protezione umanitaria in Tunisia. “Vengo da un paese in guerra – dice – dovrebbe essere un mio diritto scappare per salvarmi la vita e trovare aiuto, non dover annegare. Quindi aspetterò di avere i documenti per partire regolarmente, anche se ora non saprei dove andare.”
Asha, la mamma bambina
Più in fondo c’è un altro gruppo di una decina di ragazzi. Con loro c’è anche un bambino che ha appena imparato a camminare e accenna qualche passo su un grande e logoro telo disteso in mezzo alla terra. Ha addosso solo una maglietta, e sulla pelle e fra i capelli i segni di una forte dermatite. Poco più in là, sotto una tenda, c’è sua madre Asha che allatta il figlio più piccolo, nato un mese fa. Ha 17 anni e arriva dalla Somalia. Ha attraversato Etiopia, Sudan, Libia, Algeria, ed è arrivata a Nefta da due giorni. La gravidanza l’ha trascorsa quasi tutta in Libia, dove ha anche partorito in condizioni estreme.
“Sono stata quattro mesi in un centro di detenzione – ricorda – era una sala enorme dove eravamo tutte donne, con le grate alle finestre e le guardie fuori dalla porta. Per tutto quel periodo non ho mai visto la luce del sole. Ci davano da mangiare una volta al giorno e ci passavano il cibo dalla finestra, non ho mai guardato in faccia chi ce lo portava. Lì dentro era l’inferno: c’erano persone ammalate, cominciavano ad avere la dissenteria, poi la febbre. Due donne sono morte lì dentro, e i corpi sono rimasti per terra per giorni, prima che li portassero via. Poi sono stata venduta a una famiglia, mi hanno fatta uscire di prigione e sono stata portata in una casa dove mi facevano fare le pulizie, ma mi stancavo subito, ero già al sesto mese, e allora mi picchiavano. Sono rimasta lì quasi trenta giorni, poi sono stata venduta ancora a un uomo, che mi ha portata a casa sua. Quando è arrivato il momento del parto ha chiamato una donna anziana che mi ha aiutato, ma dopo due giorni mi hanno cacciato perché non riuscivo a fare nulla. Ho implorato quella donna di aiutarmi a trovare un altro posto, e allora mi ha portato davanti alla sede dell’Unhcr. Lì sono stata registrata, mi hanno dato un documento, qualcosa da mangiare, ma poi nient’altro. Sono rimasta accampata davanti al loro cancello con i bambini per quasi un altro mese, poi ho conosciuto delle persone per continuare il viaggio. Nel frattempo, ho perso le tracce di mio marito, non so se lui sia ancora in Libia.”
I volontari delle oasi
Asha smette di raccontare e comincia a piangere, poi si ricompone per far bere al figlio maggiore uno dei succhi di frutta che ha portato Moshen, uno studente di Nefta che insieme ad altri coetanei raccoglie beni di prima necessità e li distribuisce ogni giorno ai migranti delle oasi.
“Questi aiuti potrebbero costarci l’arresto – spiega – ma oggi porteremo comunque Asha in ospedale in auto, perché ogni notte che trascorre qui rischia di essere violentata. Se arriva in una struttura sanitaria con due bambini piccoli, e minorenne lei stessa, verrà collocata in una casa per donne, e i figli saranno visitati, potrà sfamarli e accudirli meglio. Purtroppo qui non arrivano solo i volontari, ma anche persone con cattive intenzioni che spesso assaltano i migranti nel sonno, per rubargli quel poco che gli è rimasto, e una ragazza così giovane, con due figli da proteggere, è completamente indifesa. Finora non ci hanno creato problemi, diciamo che anche le forze di polizia sanno quello che facciamo ma spesso chiudono un occhio, perché è un lavoro che non fa nessun altro. A parte i dottori di Medici senza Frontiere che ogni tanto vengono qui.”
Ali, anche lui sudanese, invece ha deciso che stanotte si rimetterà in cammino, perché vuole arrivare a Gafsa e poi a Sfax il prima possibile. “Ho già perso troppo tempo – dice – aspetto solo che il sole tramonti perché altrimenti la strada è troppo faticosa.”
“Purtroppo, dopo quanto accaduto a Sfax con gli scontri di strada fra migranti e bande locali delle periferie, e poi gli allontanamenti più o meno forzati – spiega Samir Lahzami – i bus di linea non fanno più salire i cittadini subsahariani, perché gli autisti hanno paura di essere accusati di favoreggiamento. E così i migranti sono costretti a fare altri 300 chilometri a piedi fino alla costa. Tappa dopo tappa, da un’oasi all’altra, e poi da un centro abitato al successivo. Chi può permettersi di pagare, da qualche parte troverà un passeur disposto a caricarlo in auto, chi non ha nulla andrà avanti un passo alla volta. Il problema è che senza risorse la vulnerabilità aumenta, e per disperazione si accettano anche cose orribili, come la vendita degli organi, ad esempio. Recentemente è stata fermata una rete criminale dedita a questi traffici. Ecco perché occorre vigilare, soprattutto dove è più buio.”
La foto di copertina è di Ilaria Romano