Abdel Latif è morto a soli 26 anni, lo scorso 28 novembre alle 4.00 del mattino nel reparto psichiatrico dell’ospedale San Camillo, dove sarebbe rimasto legato su un lettino di contenzione per tre giorni.
Una morte che ricorda la triste fine di Francesco Mastrogiovanni, il maestro morto dopo ottantasette ore di contenimento ininterrotto nell’ospedale di Vallo della Lucania, raccontato nel crudo e bellissimo film-documentario 87 ore. Morte che portò alla condanna di medici ed infermieri che si erano alternati in quelle lunghe e tragiche 87 ore e che, a giudizio della Corte di Cassazione, avevano illegittimamente applicato la contenzione senza avere la premura di annotare nella cartella clinica “ogni dato obiettivo relativo al decorso della patologia, tutte le attività diagnostico terapeutiche ed assistenziali praticate, perché l’omessa annotazione dà «luogo ad una falsa rappresentazione di una realtà giuridicamente rilevante»”.
Sul letto di morte Abdel è arrivato dopo un calvario che quotidianamente vivono tanti altri ragazzi tunisini, secondo un copione ormai tristemente noto: giunto a fine settembre in Italia, viene dapprima trattenuto su una nave per espletare la quarantena senza aver accesso alla richiesta di protezione internazionale e, infine, trasferito presso il CPR di Roma Ponte Galeria, il 13 ottobre scorso, con un certificato di idoneità alla vita ristretta rilasciato dalle autorità mediche siciliane.
Già il mancato accesso alla formalizzazione della domanda di protezione internazionale e l’ingresso in CPR senza una nuova visita per l’idoneità gettano grandi ombre su questa storia.
Così come non è dato comprendere perché la notizia sia trapelata soltanto il 3 dicembre, grazie alla Campagna LasciateCIEntrare, in seguito alla segnalazione del deputato tunisino Majdi Kerbai. Quest’ultimo era stato contattato, venerdì scorso, dai familiari del ragazzo che hanno affermato di aver ricevuto comunicazione dal consolato tunisino in Italia del decesso di Abdel per “cause naturali”.
Anche questo aspetto desta non poca preoccupazione. La morte di una persona privata della propria libertà personale necessita di ben altra trasparenza non certo del silenzio istituzionale.
In ogni caso, sabato 4 dicembre, il Garante regionale, Stefano Anastasia ed il Consigliere regionale, Alessandro Capriccioli, hanno effettuano una visita nel CPR di Ponte Galeria per raccogliere maggiori informazioni sulla situazione di Abdel Latif.
Dalla documentazione esaminata emerge come, nei primi giorni di trattenimento, il ragazzo non avesse alcun disturbo né fisico né mentale. D’altronde gli stessi amici e familiari sostengono che Abdel godesse di ottima salute.
Nei giorni successivi, tuttavia, sembra che il ragazzo avesse manifestato una forma di disagio psichico durante i colloqui con la psicologa del CPR, tanto da portare quest’ultima a richiedere una visita da parte dello psichiatra, che ha poi prescritto una terapia farmacologica. Terapia che sembra essersi rivelata non idoenea tanto da comportare una nuova valutazione psichiatrica ed il successivo ricovero in un ambiente ospedaliero. Infatti, il 23 novembre Abdel viene portato al pronto soccorso dell’ospedale Grassi di Ostia e, poi, trasferito al Servizio psichiatrico di diagnosi e cura dell’Ospedale San Camillo di Roma, dove muore dopo tre giorni di contenzione.
Com’è possibile che un ragazzo giunto in salute nel CPR esca dallo stesso, dopo circa un mese e dieci giorni di trattenimento, per essere ricoverato in un reparto psichiatrico?
Com’è possibile che le condizioni mentali di Abdel siano peggiorate così tanto in così pochi giorni?
Il giudice della convalida e della proroga del trattenimento in CPR era a conoscenza dell’evoluzione dello stato di salute di Abdel? E, in ogni caso, perché è stato convalidato il trattenimento in assenza del certificato di idoneità rilasciato dalla ASL territorialmente competente, come espressamente richiede l’art.3 del Regolamento Unico CIE?
Perché i familiari non sono stati avvisati del fatto che era stato trasferito in ospedale? E com’è possibile che il consolato tunisino si sia affrettato a comunicare ai parenti che si sia trattata di una “morte naturale”? Cos’è realmente accaduto nel reparto psichiatrico del San Camillo?
I parenti di Abdel, oggi, chiedono di dare risposta a queste domande.
Questo giovedì, a Tunisi, si svolgerà una manifestazione davanti all’ambasciata italiana per pretendere verità sulla morte di Abdel ma anche per denunciare le condizioni di trattenimento nei CPR dei cittadini tunisini.
Sappiamo, infatti, che negli ultimi mesi i tunisini sono oggetto, nel nostro Paese, di vere e proprie retate: posti in isolamento nelle navi quarantena, vengono trasferiti nei CPR spesso senza possibilità di richiedere asilo e rimpatriati dopo pochissimi giorni.
Come testimoniato nel Rapporto Buchi Neri, nei CPR entrano anche 20 cittadini tunisini in un solo giorno. I tunisini rappresentano rispettivamente il 61,9% e il 59,8% dei transitati nei CPR nei primi mesi del 2021 e nel corso dell’intero 2020.
Nel Centro di Ponte Galeria, dal 1° gennaio al 30 giugno 2021 sono transitate 363 persone, di cui ben 297 erano tunisini ossia l’81,82% del totale.
Sono evidenti, dunque, gli effetti degli accordi di riammissione tra Italia e Tunisia: la celerità con cui vengono effettuati questi rimpatri collettivi comporta delle gravissime violazione dei diritti dei cittadini tunisini.
In questo girone infernale è finito Abdel Latif, che è la settima persona -negli ultimi 2 anni- a morire mentre si trovava all’interno di un CPR. Morti che non sempre hanno avuto giustizia, anche a causa delle difficoltà nel ricostruire quanto succede in quei luoghi opachi che sono i Centri di Permanenza per i Rimpatri.
Per questo desta non poca preoccupazione il fatto che il deputato Majdi Karbai abbia denunciato, nella giornata di ieri, il rimpatrio dei cittadini tunisini che potrebbero essere stati testimoni di quanto accaduto ad Abdel tra le mura del CPR di Ponte Galeria.
Un fatto che, se accertato, sarebbe di una gravità inaudita e che dovrebbe essere oggetto di una immediata indagine da parte delle autorità competenti.
L’unica cosa certa è che la morte di Abdel non può lasciarci indifferenti.
È l’ennesima dimostrazione di quanto brutale sia il sistema della detenzione amministrativa nel nostro Paese.
Non possiamo accettare che un ragazzo di 26 anni muoia in questo modo e che, ogni giorno, tanti altri ragazzi rischino di fare la stessa fine.