In quasi tutti i musei o le istituzioni culturali che ricordano, nell’Europa orientale, gli anni della Cortina di Ferro, c’è sempre la figura del cane. Il cane inteso come unità cinofila, legata alle polizie di frontiera. La narrazione è parte integrante della memoria, la memoria non sfugge alla politica. E anche al più superficiale degli osservatori, visitando questi luoghi, viene subito in mente il parallelismo con i nazisti, i cani, i campi, la caccia al ‘diverso’.
Proprio a certe latitudini, purtroppo, la cronaca sembra ricordarci come la storia si ripresenti, a volte, con gli stessi simboli. Il rapporto che raccoglie le storie del 2019 lungo la Balkan Route, a cura del Border Violence Monitoring Network, gruppo di osservazione che raccoglie i dati di organizzazioni della società civile (No Name Kitchen, Philoxenia, Are you Serious?, Collective Aid e Escuela con Alma) sul campo, è un elenco di fantasmi del passato. Solo che parlano di oggi.
I cani, appunto. Una testimonianza raccolta, rispetto a un episodio accaduto il 2 dicembre scorso, parla di come un gruppo in transito di migranti, intercettato dalla polizia croata, sia stato tenuto a lungo immobilizzato. Tutti stesi per terra, mentre gli agenti aizzavano i cani che tenevano al guinzaglio contro di loro. In Europa, nel 2020. La polizia di uno stato membro dell’Ue, in procedura premio per essere ammesso a pieno titolo nell’area Shengen.
Non un caso isolato, per altro. Sono almeno il 5% i casi di violenze subite e denunciate (quante non lo sono?) dai migranti in cui si segnala l’utilizzo di cani.
Questo metodo fa parte di una strategia globale che secondo Miroslav Ilic, di Medici Senza Frontiere, è “una politica volta a rendere i migranti fisicamente incapaci di attraversare il confine”. La European Border and Coastguard Agency, quindi Frontex, ha eseguito diversi programmi di formazione canina a Zagabria durante l’estate del 2019. L’ondata di gravi e brutali attacchi di cani che da allora si sono susseguiti sul confine con la Bosnia-Erzegovina pongono direttamente le responsabilità delle istituzioni europee su questo punto.
Secondo i dati delle organizzazioni, che rispetto alla metodologia di lavoro del rapporto “fanno leva sullo stretto contatto sociale che abbiamo come volontari indipendenti con rifugiati e migranti per monitorare i push-back nel Balcani occidentali” e si basano su “un quadro di riferimento per le interviste che fonde la raccolta di dati concreti come date, geolocalizzazioni, descrizioni degli agenti, foto degli infortuni/relazioni mediche alla raccolta delle storie”, questa è solo una delle forme di abuso che i migranti subiscono e che denunciano un elemento importante: le statistiche raccolte negli ultimi 12 mesi mostrano come il livello di violenza lungo la rotta balcanica sia sempre più istituzionalizzata.
Un esempio racconta di poliziotti croati alla stazione ferroviaria di Tovarnik che, trovando un gruppo di migranti nascosti in un vagone merci mentre perquisivano il treno, hanno tirato giù dal mezzo – tirando per i capelli – persone inermi coprendole di insulti. Tutti espulsi verso la Serbia, senza nessuna procedura di identificazione, senza nessuna attenzione a chi poteva e voleva chiedere la protezione internazionale o almeno l’assistenza medica. A dicembre, il 50% dei pushback diretti dalla Croazia ha comportato la cattura di gruppi che hanno tentato di salire a bordo o di utilizzare un mezzo di trasporto.
A questo si aggiungono le violazioni rispetto al diritto alle cure mediche, già note per una denuncia di Human Rights Watch a novembre. Negando tutte le accuse il ministero degli Interni croato – in una nota – ha fornito la sua interpretazione dell’applicazione della legge croata come umana e conforme al diritto internazionale. Solo che la caccia militarizzata a persone in movimento costringe la gente a camminare per settimane in zone remote della campagna, mettendole a rischio di ipotermia e di altri guai. Che poi, durante il respingimento, non vengono presi in cura.
Non è solo la Croazia, però, a essere oggetto delle denunce del rapporto. Anche la Bosnia-Erzegovina, che pur essendo il paese più debole politicamente è diventato un imbuto nel quale l’Ue scarica i migranti, non è esente da colpe. Dopo le pressioni internazionali, a cominciare da quelle del commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatovic, è stato chiuso il campo informale di Vucjak il 2 dicembre scorso. Gli autobus per il trasporto collettivo sono arrivati al campo per circa 600 persone, secondo fonti della polizia locale. Sebbene sia stato segnalato come un trasferimento volontario, secondo il rapporto non è stato così e inoltre viene denunciato come il sito – una ex base militare – scelto per il ricollocamento sia fortemente inquinato e ancora pieno di pallottole e ordigni.
Rispetto alla Serbia, il rapporto denuncia come gruppi in transito verso la Croazia hanno affrontato rischi estremi durante il mese di dicembre. La convergenza di condizioni meteorologiche più dure e la necessità di utilizzare metodi di trasporto nascosti ha causato diverse morti evitabili.
Un uomo palestinese di 35 anni, che sperava di attraversare il confine vicino a Šid, dalla Serbia alla Croazia, il 15 dicembre è morto fulminato dai cavi elettrici mentre, con altre tre persone, è salito su un vagone vicino alla stazione di Šid. Nel sovraffollato campeggio per famiglie della città di confine restano sua moglie e i suoi tre figli. Sei persone sono ancora disperse dopo che la barca che li trasportava si è rovesciata nel Danubio, mentre altri due cadaveri sono stati trovati morti nel fiume al confine tra Serbia e Croazia.
L’ultimo capitolo del rapporto è dedicato alla Grecia. Il governo greco sta pianificando un’implementazione della sicurezza nel nord-est del paese al fine di controllare il flusso di richiedenti asilo che attraversano il confine con la Turchia. Più di 400 guardie di frontiera sul fiume Evros saranno dispiegate entro marzo 2020. All’inizio di dicembre 2019, il Ministro della Protezione civile ellenica, Michalis Chrysochoidis, ha annunciato che il processo di reclutamento era già iniziato, mentre si trovava in visita alla città di Alexandroupoli. Le organizzazioni della società civile avvertono che i respingimenti illegali sono già un problema in questa regione e questa mossa – secondo loro – porterà ad un loro probabile aumento. E’ stata segnalata un’escalation del numero di controlli di polizia e di pattuglie notturne lungo l’Autostrada Egnatia, al fine di intercettare coloro che sono riusciti ad attraversare con successo il fiume Evros, in viaggio verso Salonicco. Coloro che saranno intercettati e arrestati saranno trattenuti in quattro centri pre-partenza precedentemente chiusi, uno nella zona di Salonicco e tre nella Macedonia orientale e in Tracia.
In concomitanza con queste misure, il governo greco sta decidendo se estendere la recinzione di filo spinato presso la città di Orestiada lungo il fiume Evros, fino a 230 chilometri.
La recinzione a Orestiada è considerata un metodo efficace per dissuadere e prevenire l’attraversamento dei confini da parte dei richiedenti asilo in questa regione, nonostante i costi finanziari e le difficoltà logistiche che presenterà. Le organizzazioni avevano già denunciato in precedenza la brutalità della polizia greca durante le retate sul fiume Evros.
In generale, il rapporto ha censito – nel solo mese di dicembre 2019 – i respingimenti illegali di 128 persone che portano il totale delle espulsioni collettive registrate nel corso del 2019 a 3.251.
A fronte di un aumento degli episodi di violenza diretta da parte delle forze dell’ordine locale, a fronte di un aumento delle violazioni dei diritti dei migranti e di un rafforzamento delle misure che – complici le condizioni climatiche – rendono il viaggio sempre più pericoloso e letale, nessun programma reale da parte dell’Unione europea e degli stati della regione è stato messo in atto. E tutto questo ci riguarda.
In copertina: Tra le tende del jungle camp di Vucjak dove vivono 600 persone. Foto di Eleonora Camilli