Sono le 11.30 e fervono i preparativi per il pranzo. Nel piccolo e luminoso locale nel centro di Varsavia ci si alterna fra i compiti in cucina e quelli in sala. Il polacco Krzysiek è ai fornelli; Sultan, afghano, sistema i tavoli; e Liza, che viene dal Daghestan, scrive il menù del giorno sulla lavagna. In un paese etnicamente molto omogeneo come la Polonia, dove meno del due per cento degli abitanti è nato all’estero, lo staff del ristorante Kuchnia Konfliktu spicca per la sua diversità. In uno degli stati europei in cui, negli ultimi anni, l’opposizione del governo PiS alla redistribuzione dei profughi è stata tra le più dure, questa impresa sociale è nata nel 2016 per aiutare i rifugiati e i migranti già presenti.
Secondo i dati Unhcr, nel 2017 la Polonia ha ricevuto 5.045 richieste di protezione internazionale e, complessivamente, accoglie poco più di 12 mila rifugiati, dato che le vale uno dei rapporti per mille abitanti più basso di tutta l’Unione Europea, dietro alle sole Repubblica Ceca e Slovacchia: 0,31. Ma per chi ha trovato asilo politico qui la vita non è facile. A spiegarlo è Jarmiła Rybicka, responsabile e anima di Kuchnia Konfliktu. “I rifugiati e, più in generale, gli stranieri sono vittime di discriminazione, soprattutto per casa e lavoro. Spesso viene chiesta loro una doppia caparra per l’affitto. Fino a qualche anno fa, inoltre, i richiedenti asilo non potevano lavorare fino a che non avevano ottenuto risposta alla loro domanda. Ora invece possono farlo dopo i primi sei mesi”.
La difficoltà principale è che il paese è privo di un vero e proprio sistema di integrazione. “I richiedenti asilo”, prosegue Jarmiła, “vengono lasciati nei centri governativi in attesa che venga esaminata la loro domanda per lunghi periodi, anche tre anni. Ricevono dei fondi pubblici, ma sono cifre modeste. In realtà, queste sono persone che hanno bisogno non di aiuto, ma di spazio per esprimere il loro potenziale”.
Kuchnia Konfliktu è nata da questa convinzione. Tutto è cominciato due anni fa con un crowdfunding da 5 mila euro che ha consentito l’acquisto di un furgone alimentare con cui preparare cibi etnici per le strade della capitale. “Anche grazie al sostegno di alcuni artisti, che hanno messo a disposizione le loro opere per finanziarci, non è stato difficile. L’idea del cibo è piaciuta subito”, ricorda Jarmiła. Per il suo esordio, l’organizzazione ha scelto di posizionarsi lungo le rive del fiume Vistola, molto affollate durante la bella stagione, per intercettare un pubblico ampio e popolare. Il personale di Kuchnia Konfliktu si è ritrovato a proporre a giovani polacchi ubriachi cibi che non avevano mai mangiato prima ma che, complice il tasso alcolico, sembravano apprezzare.
“È stato un modo per bucare la nostra bolla, fatta di persone favorevoli a migranti e rifugiati. Sono consapevole che siamo una piccola nicchia all’interno di Varsavia che, a sua volta, è una nicchia all’interno del paese. Ma, attraverso lo strumento del cibo, vogliamo provare a uscirne. Vogliamo raggiungere chi sta nel mezzo, persone che non sono razziste, ma nemmeno informate o impegnate. È a loro che vogliamo parlare”. E così, dopo un altro anno di lavoro in strada, è arrivato il momento di aprire un vero e proprio locale, che è stato inaugurato lo scorso febbraio.
“I clienti ci sono e le cose funzionano”, dice ancora la responsabile. “I contratti non sono ancora a tempo indeterminato perché al momento non ce lo possiamo permettere, e gli orari non sono tutti a tempo pieno, ma oggi qui lavorano fra le otto e le dieci persone”. Sultan c’è fin dal primo giorno e si racconta volentieri, grazie alla traduzione della volontaria Kasia. “Sono afgano. Nel 1987 mi sono trasferito in Ucraina per studiare e lì mi son fermato. Mi son sposato e ho avuto due bambini. Vivevamo a Donetsk”. Circa quattro anni fa, a causa del conflitto nel Donbass, la famiglia sceglie di fuggire in Polonia per la vicinanza culturale e linguistica. Dopo un periodo in un centro d’accoglienza, si trasferiscono nella capitale, ottengono la protezione internazionale grazie al sostegno legale di un’Ong e a Sultan viene proposto di fare una prova con Kuchnia Konfliktu. “Non credevo di trovare un lavoro così, ma ho pensato che ce l’avrei potuta fare”, ricorda sorridendo sotto i folti baffi. “Il mio piatto preferito è afgano e si cucina con riso pilaf, uvetta, carote e cipolle, ma sono molto felice quando le persone si complimentano per qualsiasi delle nostre portate”. Grazie al sostegno dell’organizzazione, sta studiando il polacco, ha trovato una casa e tutto sembra andare nel verso giusto. Anche il tema della discriminazione non sembra preoccuparlo. “Ho sentito di episodi da persone che conosco e, a volte, c’è qualche ubriaco che dà fastidio, ma personalmente non l’ho mai sperimentata”, dice con tono pacato.
Sultan può ritenersi fortunato. In Polonia, xenofobia e attacchi razzisti sono in crescita. A denunciarlo è Anna Tatar, dell’associazione Nigdy Wiecej. “Dalle elezioni del 2015 [vinte dal partito sovranista Diritto e Giustizia, PiS], la situazione è andata peggiorando. Durante la campagna elettorale, il tema immigrazione e la figura del rifugiato musulmano sono stati molto strumentalizzati dai politici, con conseguenze che viviamo ancora oggi. I media hanno creato un’atmosfera xenofoba, una vera e propria isteria che ha portato all’aumento delle aggressioni, sia verbali sia fisiche”. Secondo Nigdy Wiecej, che effettua un monitoraggio giornalistico di questo tipo di episodi, nel 2018 se ne contano fra 30 e 40 ogni mese. “Il nostro lavoro non ha una valenza statistica perché riporta solo gli attacchi di cui veniamo a conoscenza attraverso i media, ma rivela comunque la scala del problema”, continua Anna. “Questo tipo di aggressioni non è un problema nuovo in Polonia, ma con l’arrivo di PiS al governo è cambiata l’attitudine della società e delle istituzioni verso i discorsi e i crimini d’odio. Chi li compie si sente al sicuro, siano essi individui o organizzazioni di estrema destra. Solo il 20 per cento dei responsabili viene processato. C’è impunità e, oggi, chiunque viene visto come diverso può essere attaccato più facilmente: stranieri, musulmani, ucraini, ma anche ebrei e membri della comunità Lgbt”.
Kuchnia Konfliktu si è ritrovata a operare in questo clima. “Quando abbiamo iniziato con il nostro furgone nel 2016, tutti ci dicevano di stare attenti, ma i rifugiati erano molto tranquilli e non è successo nulla”, ricorda Jarmiła. “L’anno successivo, invece, abbiamo subito degli atti di discriminazione – episodi minori, ma i lavoratori non si sentivano più sicuri”. Anna aggiunge: “l’opinione pubblica non era contraria all’accoglienza dei rifugiati, ma la propaganda politica amplificata dai media, soprattutto pubblici, ha creato un circolo vizioso”. Il risultato è che sempre meno persone sono ben disposte nei confronti di migranti e richiedenti asilo, finendo per sostenere le posizioni del governo che ha rifiutato il programma di ricollocamento della Commissione europea.
Eppure la Polonia avrebbe un gran bisogno di lavoratori stranieri. Ad ammetterlo, a luglio, è stato il primo ministro Mateusz Morawiecki. In un’intervista al settimanale Sieci, il nuovo capo del governo, subentrato a fine 2017 alla compagna di partito Szydło, ha spiegato che, per mantenere la sua sostenuta crescita economica, a Varsavia serve manodopera immigrata. E coniugare queste necessità economiche con la retorica adottata in questi anni di governo potrebbe essere un problema per l’esecutivo targato PiS.
Kuchnia Konfliktu, invece, problemi di questo tipo non ne ha. Anzi. Le richieste per lavorare al ristorante sono fin troppe. “Il personale non lo cerchiamo neanche più”, scherza Jarmiła: il progetto si è fatto conoscere e sono gli stessi migranti a farsi avanti, di loro iniziativa o tramite altre organizzazioni. “Col tempo, vedo queste persone diventare sempre più sicure di loro stesse, coltivare passioni e sviluppare sogni. Sono i piccoli cambiamenti che vedo in loro ogni giorno a darmi energia”, confida. “Sono molto felice anche quando qualcuno trova la sua strada diventando autonomo. Ricordo un ragazzo afgano che all’inizio voleva che lo accompagnassi persino ai colloqui di lavoro e ora è un traduttore indipendente con una casa tutta sua”.
Ma il successo di cui Jarmiła va più orgogliosa è una questione economico-burocratica che potrebbe risultare decisiva per il futuro di Kuchnia Konfliktu. “In Polonia, l’impresa sociale come forma giuridica non esiste, e quindi affittiamo dei locali del comune a prezzi di mercato. Ma così diventa impossibile essere sostenibili. Per lungo tempo abbiamo fatto pressione affinché ci venisse offerto un canone sociale e ora, finalmente, dopo che parecchi media si sono occupati della vicenda, siamo riusciti a ottenerlo. È una splendida notizia perché ci garantisce di pensare sul lungo periodo. Senza contare che questo tipo di affitto potrà essere usato anche per altre attività. Per esempio, sto aiutando un’associazione che si occupa di persone con la sindrome di Asperger a fare lo stesso tipo di domanda, e sono sicura che riusciranno anche loro ad avere un affitto sociale”.