Un’enorme chiave in ferro battuto torreggia sopra un arco nero. Tutto intorno la barriera di separazione tra Israele e Territori palestinesi, il famoso muro di cemento che molti street artist – da Jorit a Banksy – hanno cercato di rendere meno triste con i loro graffiti. Si presenta così l’ingresso dell’Aida Camp, un campo profughi palestinese a metà strada tra Betlemme e Gerusalemme.
Quello dell’Aida è uno dei 58 campi profughi per palestinesi distribuiti tra Libano, Giordania, Siria e Territori palestinesi. Forse uno dei più noti per l’alto tasso di vulnerabilità dei suoi 5,498 residenti registrati. Infatti, due importanti colonie israeliane – Har Homa e Gilo, illegali in termini di diritto internazionale – si affacciano prepotentemente al di là del muro, una presenza costante che i rifugiati considerano un affronto ai propri diritti.
“Quasi la metà della nostra popolazione è composta da rifugiati. Israele deve assumersi la responsabilità del loro diritto di ritorno”, spiega dalla sua scrivania a Ramallah Mohamad Elayan, un senior manager del dipartimento di affari dei rifugiati presso l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp).
Oggi i rifugiati palestinesi sono oltre 5 milioni secondo dati Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, aggiornati al 2017. Circa 2 milioni di essi vivono in Cisgiordania e Gaza. Sono i discendenti dei circa 700.000 evacuati o fuggiti durante la prima guerra arabo-israeliana nel 1948, ma anche della guerra dei Sei Giorni del 1967 e l’attuale guerra in Siria, che hanno entrambe creato nuove ondate di profughi palestinesi. Durante l’esodo di massa, molti di loro hanno portato con sé la chiave della propria casa, certi si trattasse di una soluzione temporanea. Decenni dopo, a nessuno di loro è stato garantito il “diritto di ritorno”, tutt’oggi una delle principali richieste dell’Olp ed uno degli argomenti più discussi durante i negoziati di pace.
La chiave originale della propria casa, oggi demolita o sotto occupazione israeliana, viene tramandata di generazione in generazione. Per questo i residenti dell’Aida hanno scelto una grande chiave come simbolo del campo – adesso anche emblema generale del diritto di ritorno – per ricordare quotidianamente a loro stessi e alle future generazioni che un giorno ritorneranno. Formando un gruppo a sé stante di rifugiati, tanto da avere una propria agenzia Onu, dislocati internamente da un conflitto lungo decenni che non crea più un’effettiva emergenza, molti tendono a dimenticare che i palestinesi sono uno dei gruppi rifugiati più numeroso al mondo.
“Le condizioni sono peggiorate dalla Seconda Intifada”
Ai piedi della grande chiave all’ingresso del campo si erge un edificio a tre piani, sulla cui porta principale è raffigurata ancora una volta una chiave. Sventolanti bandiere palestinesi sono appese alle finestre, che danno su una strada poco trafficata. L’edificio è il Lajee Center, il centro rifugiati dove i bambini residenti all’interno del campo svolgono attività estive e, durante l’anno scolastico, nelle ore pomeridiane. “Il campo è stato fondato nel 1950, dopo che più di 500 case in 35 villaggi diversi nell’area che va da Gerusalemme ad Hebron sono state distrutte e i terreni consegnati agli israeliani”, spiega Mohammad Alazza, responsabile delle relazioni con i media del Lajee Center, con aria di chi ha ormai imparato il copione di presentazione del campo a memoria. “L’agenzia Unrwa ha affittato delle terre vuote da adibire a campi profughi, tra cui quella su cui ci troviamo adesso, una zona di circa 0,71km. All’inizio i residenti di Aida erano poco più di 1000 e vivevano in tende durante i primi sette anni della fondazione del campo.” Alazza racconta che, una volta costruite le prime vere case in cemento, quando ormai si era capito che non si sarebbe trattato di una soluzione temporanea, fino a 7 persone venivano ospitate in stanze di 3mx3. Molti di loro cominciarono a distruggere le stanze, in segno di ribellione e disperazione per le condizioni precarie e insostenibili. “Da allora le condizioni sono sempre peggiorate: la popolazione è aumentata e, dopo la costruzione del muro, gli spazi si sono ridotti. L’acqua arriva a mancare anche per 2-3 settimane di fila, fino a un massimo di 72 giorni come un paio d’anni fa. Dalla Seconda Intifada sono inoltre vertiginosamente aumentati gli scontri quotidiani con le forze di sicurezza israeliane all’interno del campo”, continua Alazza indicando delle poco distanti torrette militari al di sopra dei checkpoint da e per Gerusalemme, da dove i residenti del campo vengono tenuti sotto stretto controllo.
Questa costante presenza militare influisce negativamente sulle giovani generazioni, che crescono con un risentimento e voglia di vendetta nei confronti degli israeliani. Le scuole all’interno del campo provano a tenere i giovani lontano dai guai e a combattere l’atavico nemico attraverso l’istruzione. I bambini dell’Aida frequentano due scuole Unrwa, una all’interno del campo, l’altra al di fuori, e un piccolo asilo pubblico a pochi passi dal Lajee Center. L’insieme delle scuole serve un totale di circa 1,600 alunni. I frequenti scontri con le forze armate lasciano bombolette lacrimogene e proiettili nei cortili delle scuole, dove vengono continuamente esposti alla vista dei bambini prima dell’ingresso in classe. Nonostante i conflitti, la sicurezza delle aule ha sempre rappresentato un punto di riferimento per le seconde e terze generazioni di profughi.
Ma da quando l’amministrazione Trump ha deciso di tagliare totalmente i fondi Usa destinati all’agenzia Unrwa – già ridotti dalla stessa amministrazione a 65 milioni rispetto ai 350 del 2017 – il futuro dell’istruzione dei bambini rifugiati è appeso ad un filo. Le 711 scuole Unrwa in tutto il Medio Oriente impiegano uno staff di almeno 20.000 persone per istruire e formare i 525.000 bambini palestinesi che attualmente frequentano i corsi, dall’asilo alle preparatorie per il liceo. Le 61 scuole Unrwa dei Territori palestinesi che si occupano di oltre 300.000 di loro, sono adesso ad alto rischio chiusura.
“L’istruzione è l’arma più potente per il popolo palestinese. Tutti coloro che non potranno più andare nelle scuole Unrwa finiranno per strada, creando una difficile e pericolosa situazione che avrà una ripercussione sulla sicurezza nazionale. Questo perché gli studenti disperati sono da sempre, e da adesso lo saranno ancora di più, facile preda dei gruppi terroristici e di atti di violenza a danno della pace” spiega Kanaan King Aljamal, direttore degli Unrwa files presso l’Olp. “Le ambizioni degli studenti dell’Aida Camp che, come nel resto dei campi rifugiati in Cisgiordania, lavorano sodo per riscattare la loro condizione già segnata alla nascita, saranno stroncate e creeranno un clima tossico di frustrazione e tensione”. Aljamal spiega che molti di loro dovranno presto trovare delle alternative per continuare la propria istruzione – come le scuole pubbliche – ma ciò non sarà facile perché il processo di ammissione, soprattutto ad anno scolastico cominciato, non è per nulla semplice e non c’è posto per accomodare tutte le richieste. “Molti di questi studenti perderebbero la bussola. Molti vanno alle scuole Unrwa convinti che questo sia il modo migliore per costruirsi un futuro al di fuori dei campi profughi e aiutare le loro famiglie. Chiudere le scuole Unrwa significa non dare loro dei piani di vita certi e accrescere i loro sentimenti di vendetta nei confronti degli occupanti israeliani” conclude Aljamal.
Le attività dei centri sociali come alternativa alle scuole Unrwa
I centri sociali come il Lajee si preparano in vista di un’eventuale chiusura delle scuole Unrwa come possibile alternativa per sottrarre i bambini dai pericoli della strada. “Già da tempo ci occupiamo di attività educative presso il nostro centro, anche se non con classi formali. Offriamo lezioni di musica, danza ed ecologia come attività pomeridiane, e dei campi estivi con gite fuori porta ed attività ludiche” spiega Alazza. Ma riconosce anche che simili alternative non saranno sostenibili nel lungo termine. Rappresentano solo un palliativo in vista di un’eventuale prima emergenza. Bisognerà trovare soluzioni più durature per educare le future generazioni a non riscattarsi tramite atti di odio e terrorismo.
Alazza ha cominciato a frequentare il Lajee Center all’età di 10 anni. Non ha mai lasciato Aida, nonostante ne abbia avuto più volte occasione. “Voglio assicurarmi che i bambini residenti qui possano avere un futuro, per loro e per le loro famiglie, al di fuori di queste mura con filo spinato e videocamere di sorveglianza” spiega con un sorriso amaro.
Nel frattempo, Kifah Ajarma ripone dei libri su una delle mensole di una grande stanza all’interno del Lajee Center. I locali del centro ospitano una biblioteca per i bambini e delle stanze per attività di svago e seminari educativi, ma anche uffici per il personale. “Abbiamo appena finito una lezione di storytelling” spiega Ajarma con occhi carichi di entusiasmo. Come coordinatrice delle attività pomeridiane, spiega che il workshop da lei ideato e organizzato per bambini di età compresa tra i 6 e i 12 anni è uno dei corsi più gettonati del centro. “I bambini scelgono un libro diverso ogni giorno, diventando i protagonisti delle storie che leggono, e possono pian piano cambiarle e fonderle con le loro trame, diventando autori delle proprie narrative. E’ un modo per dar loro il potere di decidere lo sviluppo degli eventi, a differenza di ciò che succede nella loro realtà”.
“Nel 2016 – interviene ancora Alazza – il Lajee Center è stato vittima di un’incursione militare. Sono stati sottratti computer e altro materiale didattico, come forma di intimidazione psicologica per scoraggiare i bambini e le loro famiglie dal frequentare i centri sociali, spesso considerati luoghi di indottrinamento all’odio nei confronti degli israeliani”. Nonostante questo, i più piccoli residenti dell’Aida continuano a partecipare alle attività offerte al Lajee. “I bambini sono talmente abituati alla violenza che non fanno più neanche domande. Per loro è quotidiana normalità vedere feriti, sentire spari e testimoniare la morte dei propri familiari. Gli insegnanti volontari del centro hanno anche ricevuto un training di una Ong danese per gestire ansia e stress post-traumatico, ma raramente i bambini usufruiscono del servizio presso il Lajee” conclude Ajarma.
Mentre l’ultima settimana di Agosto le lezioni nelle scuole Unrwa sono riprese normalmente e i centri come il Lajee continuano a resistere nonostante le intimidazioni e le risorse limitate, ogni giorno il futuro educativo di molti giovani palestinesi, già profughi alla nascita, diventa sempre più incerto.
In copertina: una piccola area ricreativa che i residenti di Aida sono riusciti a ritagliare per i bambini del campo profughi (fotografia di Stefania D’Ignoti, come tutte le immagini di questo articolo)