A pochi chilometri dalla cittadina di Amuda, nel distretto di Qamshili della Siria autonoma del Nord Est, sorge un villaggio rurale come tanti ce ne sono da queste parti, in mezzo a campi di grano che si estendono a perdita d’occhio. Poche case rivestite di paglia e fango, con galline, tacchini e qualche pavone nei cortili, i panni stesi al sole, le strade sterrate. È qui che sorge la Casa degli Yazidi, un’organizzazione creata inizialmente per diffondere la cultura e il credo yazida, diventata poi anche un centro di ricerca delle donne rapite dall’Isis e di sostegno alle vittime di violenza ritrovate, alle loro famiglie e a tutti gli sfollati che fra il 2014 e il 2019 sono stati costretti a fuggire, prima dallo Stato Islamico e poi dall’occupazione turca dell’area fra Al Bab e Ras Al-Ayn.
Nel giardino della Casa c’è una riproduzione in miniatura della tomba di Sheikh Adi, figura sacra agli yazidi. L’originale si trova nel tempio di Lalish, nel Kurdistan iracheno, con i suoi caratteristici tetti a forma di cono. All’interno il comitato dirigente accoglie i visitatori in una grande sala con una stufa a legna al centro, pareti dipinte di giallo e di verde e il simbolo del pavone che campeggia in alto.
“La situazione degli yazidi è migliorata molto da quando l’Amministrazione autonoma della Siria ha sottoscritto il contratto sociale dove anche i nostri diritti sono stati messi nero su bianco – spiega Ismaeal Dalaf, uno dei responsabili dell’organizzazione – tuttavia il tasso di emigrazione resta alto. Il fenomeno è cominciato con la guerra civile, è cresciuto con le persecuzioni che abbiamo subito dallo Stato Islamico ma è continuato anche in seguito, con gli attacchi dei turchi, la crisi economica che colpisce tutta l’area, la sensazione di insicurezza che ormai si è insinuata nella testa delle persone”.
Ismaeal racconta anche che il fenomeno migratorio riguarda le donne rapite dai miliziani dell’Isis a seguito del genocidio degli Yazidi avvenuto a Shingal, nel nord dell’Iraq. In molti casi, dopo aver subito il lavaggio del cervello, alcune di loro hanno cominciato a temere di essere riconosciute e riportate dalle famiglie d’origine, e così avrebbero scelto, o sarebbero state indotte a scegliere di lasciare il paese alla volta della Turchia.
“Anche nei campi di detenzione come al Hawl o al Roj dove si trovano tutt’ora le mogli di miliziani locali e stranieri – racconta – ci sono stati dei casi di riconoscimento di donne scomparse anni prima, delle quali si erano completamente perse le tracce. Molte di loro erano sotto choc quando sono state prelevate, avevano cambiato vita, fede religiosa, abitudini. Non è stato facile lavorare per il loro reinserimento”.
A partire, questa volta verso l’Europa, sono soprattutto le donne che, durante la segregazione imposta dallo Stato Islamico, hanno avuto dei figli. “La comunità yazidi non li accetta, perché sono nati da violenze e nessuno vuole in casa i figli del nemico – dice Ismaeal – il genocidio subito è ancora troppo vivido nella memoria. Ma d’altro canto i bambini non hanno nessuna colpa, e le madri difficilmente vogliono separarsene per tornare nella comunità di origine. Così, grazie al lavoro di alcune organizzazioni internazionali, sono state ricollocate in Germania, dove il proprio passato può restare riservato”.
Un popolo perseguitato
Nel corso della storia gli yazidi sono stati perseguitati più volte: alla fine dell’Ottocento le truppe ottomane entrarono nella valle di Lalish uccidendo migliaia di abitanti per poi distruggere il mausoleo di Sheik Adi. Questo popolo fu perseguitato anche durante il regno di Faysal II e dopo l’instaurazione della repubblica d’Iraq, con il primo presidente del Ba’th Ahmed Hasan al-Bakr. Anche durante il governo di Saddam Hussein furono discriminati e costretti a trasferirsi dalla piana di Ninive alle montagne al confine con la Siria, nel Jebel Sinjar. Solo nel 2003 con la caduta del regime iracheno a seguito dell’invasione americana, i curdi chiesero che gli yazidi fossero riconosciuti come parte integrante del proprio popolo.
Il genocidio di Sinjar del 2014
Nell’agosto del 2014, i combattenti dello Stato Islamico attaccano i territori di Shingal o Sinjar, Tal Afar e la piana di Ninive. A Sinjar, dove vive la più numerosa comunità yazidi del mondo, l’Isis incontra pochissima resistenza e compie quello che le Nazioni Unite, l’Unione Europea, il Consiglio d’Europa e diverse Corti nazionali in Ue riconosceranno poi come genocidio.
Secondo un rapporto dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, fra le 2.000 e le 5.500 persone sono state uccise, mentre circa 6.400 fra donne e bambini sono stati rapiti e ridotti in schiavitù; coloro che hanno lasciato la propria terra sono stati fra i 350.000 e i 450.000. La prima e più vicina destinazione per gli sfollati è stata la provincia di Duhok, nel Kurdistan iracheno, dove ancora oggi sono presenti dei campi che ospitano famiglie di yazidi, mentre altri sono emigrati in Turchia.
Centinaia di sopravvissuti alla prigionia durante il periodo dell’Isis sono stati ricollocati in Germania, Paesi Bassi, Australia, Stati Uniti e Canada.
Attualmente si calcola che almeno 203.330 persone non abbiano mai fatto ritorno a casa, e vivano ancora nelle province di Duhok (64%) e Ninive (32%).
Ad agosto del 2023, 126.186 yazidi erano invece rientrati a Sinjar con il supporto del Ministero iracheno delle migrazioni, e altri 595 sono tornati con l’aiuto di programmi per i rientri volontari dell’Oim.
Accordi per Sinjar
Nel 2020 il governo federale di Iraq e il governo regionale del Kurdistan iracheno hanno siglato l’Accordo di Sinjar per facilitare il rientro degli sfollati. Tuttavia, le divergenze politiche fra le due istituzioni hanno impedito una fluida allocazione delle risorse e ostacolato la nascita di un coordinamento condiviso. Prima della guerra all’Isis l’economia dell’area si basava sull’agricoltura, l’industria e il commercio, ma l’80% delle infrastrutture è stato distrutto. Chi sceglie di tornare resta in condizioni precarie, in assenza di servizi minimi, spesso senza casa o con le abitazioni fortemente danneggiate, e privo di prospettive occupazionali. Pertanto, soprattutto i giovani, guardano all’emigrazione come all’unica possibilità di costruirsi un futuro, anche dopo essere tornati a casa.
Da sfollati interni a emigrati
Dai dati raccolti attraverso i registri della polizia di frontiera, lo scorso anno fra maggio e novembre 598 yazidi hanno attraversato il confine con la Turchia al varco di Ibrahim Khaleel, con l’idea di andare in Europa, seguendo le stesse sorti degli altri iracheni, curdi, siriani che si incamminano lungo la rotta balcanica o tentano di attraversare il Mediterraneo orientale.
Nello stesso periodo del 2022, le partenze dall’Iraq per gli yazidi erano state di 4.631. Il Displacement Tracking Matrix dell’Oim ha mostrato che questa popolazione rischi più di altre di subire arresti ai confini della Turchia con la Grecia e con la Bulgaria, con un conseguente divieto di rientro in territorio turco di almeno cinque anni.
Gli yazidi siriani di Afrin
La regione di Afrin, nell’area della Siria a maggioranza curda, è stata occupata dalla Turchia nel 2018 a seguito dell’operazione militare denominata Olive Branch contro lo Ypg, le unità curde di protezione del popolo, con il pretesto di garantire la sicurezza nazionale contro il terrorismo.
Prima dell’attacco turco, ad Afrin c’erano 58 insediamenti yazidi, per un totale di circa 60 mila abitanti, che dopo l’occupazione si sono ritrovati nuovamente ad essere vittime di discriminazione e forzati a non praticare più il proprio credo.
Un Rapporto rilasciato dall’Ufficio di coordinamento degli Affari umanitari delle Nazioni Unite ha rilevato gravi violazioni dei diritti umani nella regione, attraverso interviste raccolte fra 40 persone tra marzo e maggio dello scorso anno, all’indomani del terremoto. Le testimonianze hanno indicato che diverse divisioni dell’Esercito nazionale siriano, sostenuto dalla Turchia, avrebbero compiuto maltrattamenti ai danni della popolazione, e sequestrato diverse proprietà private negando l’accesso ai legittimi proprietari. Uno degli illeciti più contestati ai residenti, in prevalenza yazidi, è di collaborare con le autorità della Siria autonoma del Nord Est. Nel documento si parla anche delle confische delle proprietà degli yazidi, ai quali sono stati espropriati case, negozi e terreni, poi utilizzati per ospitare le famiglie dei combattenti o gli sfollati interni provenienti da altre zone del Paese. Il terremoto del 2023 ha ulteriormente peggiorato la situazione dell’area, e dal 2018 a oggi si stima che il 90% della popolazione yazidi abbia lasciato quella zona del Rojava.
Dalla Turchia all’Europa
Gli yazidi fuggiti in Turchia affrontano problemi legati alla difficoltà di ottenere i documenti, non hanno accesso ai servizi di base, e spesso non riescono a ottenere un permesso di lavoro. La maggior parte di loro decide di proseguire il viaggio verso l’Europa, in particolare verso la Germania e i Paesi Bassi.
I punti di transito via terra verso la Bulgaria sono le province di Edirne e Kirklareli, mentre Izmir raccoglie coloro che seguono la rotta del Mediterraneo orientale.
Gli yazidi che entrano in Grecia vengono registrati e poi collocati nei centri di accoglienza di Serres e Cleidi, dove possono presentare la domanda di asilo. Il primo paese di destinazione in Europa è la Germania: secondo l’Ufficio federale tedesco per la migrazione, nel 2022 l’Iraq è stato il quarto paese di provenienza dei richiedenti asilo, e fra le oltre 15 mila domande presentate, più di 3.600 sono state inoltrate da yazidi, circa il 24%.
Nello stesso anno, su oltre 22 mila domande di cittadini iracheni esaminate, il 53,9% sono state rigettate; fra quelle degli yazidi solo la metà delle 4.706 domande vagliate è stata accolta.
All’inizio del 2023 il Governo tedesco ha ufficialmente riconosciuto che la persecuzione degli yazidi perpetrata dall’Isis fu genocidio; tuttavia, secondo un rapporto pubblicato dal quotidiano locale Neue Osnabrücker Zeitung, i rifugiati yazidi provenienti dall’Iraq ricevono ancora scarsa protezione in Germania, e a confermarlo ci sarebbero anche gli ultimi accordi per i rimpatri siglati con il Governo iracheno e le nuove misure che accorciano i tempi d’esame delle domande d’asilo da due anni a tre-sei mesi, come previsto dalla nuova legge sull’immigrazione.
La posizione dell’Italia
Nel 2019 la Commissione Affari esteri e comunitari della Camera ha approvato una risoluzione che impegnasse il governo ad assumere iniziative per sensibilizzare la comunità internazionale e valutare le modalità di riconoscimento del genocidio degli yazidi. Nel 2023, il 12 luglio, il senatore di Alleanza Verdi Sinistra Tino Magni ha presentato un’interrogazione parlamentare al Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale per chiarire quali iniziative intendesse assumere a riguardo il Governo italiano. Il 23 ottobre scorso è arrivata la risposta del Governo che ha dichiarato che continuerà a fornire assistenza alla comunità yezida, sostenendo “in tutte le sedi iniziative volte a rafforzare il sistema di perseguimento dei responsabili di violazioni del diritto internazionale umanitario”. Ma non c’è stato nessun pronunciamento esplicito in merito al riconoscimento del genocidio.
Immagine di copertina di Ilaria Romano