Un’ex base militare, a dieci minuti dal mare, trasformata in prigione. I detenuti sono divisi in enormi hangar, una volta usati come depositi. In uno stanno donne e bambini. Negli altri due stanno gli adulti: da una parte migranti dell’area subsaharina, dall’altra quelli del Corno d’Africa. Il primo è l’hangar dei pestaggi, il secondo quello “ufficiale”. A giugno 2019, la struttura conteneva 850 persone, una sopra l’altra. Fuori, un grande cortile nel quale si allunga un campo da calcio, perennemente popolato da bambini, poco oltre un container. Tutt’intorno una recinzione in muratura, color sabbia e bordata di blu. Ogni tanto c’è pure qualche disegno, persino uno schizzo di Spongebob. La interrompe un pesante cancello blu, dal quale si accede alla struttura. A pochi passi, svetta la raffineria di Zawiya, famosa per essere stata luogo di smistamento del gasolio di contrabbando fino almeno all’agosto del 2017. Qui dentro, al centro di detenzione di al-Nasr, comanda un uomo di nome Ossama: un libico basso di statura, stempiato, con i capelli corti e brizzolati. Il carceriere del centro di detenzione di Zawiya. Il suo nome completo, in Libia, lo conoscono tutti: Ossama Milad Rahuma, il cugino del guardacoste libico più noto in Italia, al Bija.
Questa fotografia emerge dall’incrocio di due fonti: l’ultima indagine sui trafficanti di esseri umani condotta dalla Procura di Agrigento con il supporto della Direzione distrettuale antimafia di Palermo e da un reportage di Euronews dello scorso giugno. La prima è basata sulle parole di cinque migranti, arrivati a Lampedusa a inizio luglio, tratti in salvo dal veliero Alex di Mediterranea che con le loro testimonianze hanno innescato l’indagine. Il risultato ottenuto, al momento, è la carcerazione di due ragazzi egiziani e uno guineano nati tra il 1993 e il 1997, accusati di aver fatto parte a vario titolo del gruppo di Ossama. Caporali, probabilmente, che aiutavano i secondini in cambio di un trattamento migliore. Almeno fino a quando uno dei tre, Suarez il guineano, ha litigato con il boss della struttura per i suoi metodi eccessivamente crudeli. Forse è stato questo uno dei motivi che li ha spinti a scappare.
I migranti sentiti dalle Procure siciliane non chiamano mai il centro con il nome al-Nasr, ma diversi dettagli fanno pensare che si tratti di quella struttura di Zawiya. D’altronde, l’altro centro della città libica, quello di Abu Issa, ha dimensioni molto più ridotte ed è solo per uomini. Un dettaglio però non torna tra la versione dei migranti e quella fornita alla cronista di Euronews Anelise Borges dai poliziotti libici: questi ultimi sostengono che in precedenza la struttura fosse una fabbrica di pneumatici e non una base. Un dato incontrovertibile riguarda però chi comanda a al-Nasr: Ossama. Il libico – di cui Avvenire ha anche pubblicato una foto – ha diversi fratelli (il minore è attivo al centro, si chiama Ahmed) e alcuni fedelissimi. Uno è un egiziano, Mohammed. È il più violento: un testimone racconta di averlo visto torturare fino alla morte un concittadino ghanese. Ha delle cicatrici in faccia, fino al collo. Suo fratello Mahmoud è uno degli arrestati che stava nell’hotspot di Messina. Un altro è un pakistano, di cui nessun testimone è stato in grado di ricordare il nome. Ad un certo punto, i migranti raccontano sia tornato nel suo Paese. Un fatto finora inedito nei racconti di chi è stato nei centri di detenzione. C’è poi un certo Papa Adjasko, sudanese alto e magro, che i migranti ricordano per le botte che rifilava ai detenuti. A questi si aggiunge un altro Mohammed, libico, un poliziotto libico stando alla divisa che porta sempre con sé. È lo stesso che accompagna la giornalista di Euronews all’interno del campo. La descrizione corrisponde alle parole dei migranti: “barba lunga e vestita in abiti militari, in quanto sulle spalline aveva una stella e tre barre”.
Il personaggio più controverso, però, è l’uomo che selezionava sulla spiaggia i migranti che potevano partire. I testimoni lo chiamano Abdou Rahmane, detto Bengi (fonetico). In realtà sembri si tratti di Abdelrahamen Milad detto al Bija, il capo della Guardia costiera di Zawiya, incaricato proprio di decidere quali barconi intercettare e quali no, secondo diverse inchieste del Panel di esperti sulla Libia delle Nazioni Unite. I guardacoste, sostengono ancora le indagini dell’Onu, fanno parte di un’associazione criminale al cui vertice – almeno fino al 2017 – c’era Mohammed Koshlaf, miliziano capo della brigata Shuhada al Nasr responsabile della sicurezza della raffineria di Zawiya, da sempre considerato il gestore del centro. Un altro particolare che risuona nell’indagine della Dda di Palermo e della Procura di Agrigento. In Italia il nome di Ossama invece non era mai stato legato al clan di Zawiya finora.
Nelle parole dei migranti ricorre spesso un ruolo di presunti operatori dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) in Libia. Il container all’interno del cortile, infatti, ha sulla parete il logo dell’agenzia dell’Onu. Sentito da Redattore sociale, il portavoce dell’agenzia Flavio Di Giacomo ha ricordato però che l’Oim non ha missioni permanenti dentro le strutture di detenzione libiche. La stessa procura ipotizza che sia “in disuso e utilizzato dalla criminalità locale”. Al suo interno i migranti ricordano che c’era spesso un sudanese, tale Yassine, che indossava la pettorina blu dell’Oim. Non risulta a Di Giacomo che nessun operatore dell’agenzia in Libia abbia questo nome. L’uomo è descritto come il collaboratore di Mohamed il libico, l’uomo in mimetica che guida i giornalisti di Euronews nel centro di Zawiya. Dentro quel container, raccontano i migranti, avvenivano alcuni dei pestaggi più feroci. Il riscatto per pagare la struttura e imbarcarsi – ricorda la migrante Evelyn Muftaa – è di 4.500 dinari libici, circa 3.150 euro.
I migranti sono arrivati a Zawiya dopo odissee di mesi. Ayaba Placide Cyriaque, camerunese, prima aveva provato a vivere in Nigeria. Poi in Niger e Algeria (dove è arrivato dopo un mese di viaggio). Da lì è poi rientrato in Niger dove per 32 euro un tizio, tale Mama Ibrahima detto Aladì, lo ha portato a Sebha, nella zona meridionale della Libia, dove viene prelevato da altre persone – qui i dettagli si fanno un po’ confusi – e portato in un carcere gestito da due libici e due nigeriani. I gestori di queste tratte sono sì “trafficanti”, ma è altrettanto evidente che con questo termine si definiscono in realtà categorie molto diverse: si vai dai criminali in cerca di finanze per l’acquisto di armi, alle vecchie guide turistiche rimaste senza lavoro, fino ai “passeur” che conducono chiunque voglia nel deserto a bordo di pick-up o “moto-ape”, come le definisce l’ordinanza della procure di Palermo e Agrigento. Le ultime due partecipano all’economia delle migrazioni di massa, pur senza avere la stessa responsabilità, anche dal punto di vista penale, delle organizzazioni a delinquere.
A Sebha, Cyriaque è finito in un carcere gestito da due libici e due nigeriani. Ritorna nei racconti dei migranti l’internazionalità delle cellule criminali che gestiscono i centri per migranti e ritornano soprattutto alcune nazioni d’origine dei carcerieri. Queste due caratteristiche lasciano ipotizzare che ci sia una sorta di regia nella gestione delle strutture, fatto mai comprovato in nessuna occasione.
L’ordinanza offre anche uno spaccato di chi sono gli “acquirenti” dei detenuti. A volte li indica come “liberatori” – perché i primi carcerieri avevano modi ancora più disumani; altre volte invece come semplici “clienti” di questo assurdo mercato degli esseri umani, di cui le gang criminali e le milizie sono i principali “fornitori”. Nulla che si potrà mai nemmeno vedere in Italia: le uniche tracce sono nei ricordi, indelebili, dei migranti. Cyriaque è venduto da Mohamed il libico a un connazionale, Shibakshi, che lo impiega come bracciante agricolo. Lo paga una miseria e lo tiene sotto costante sorveglianza armata. Almeno fino a quando non riesce ad andare da un terzo libico per imbarcarsi verso l’Italia.
Mohammed Rashid è un ragazzo ghanese. Racconta agli inquirenti di essere omosessuale e di aver lasciato il suo Paese a novembre 2017 dopo essere stato ingiustamente accusato di un reato, solo per fargli pagare il suo orientamento sessuale. Raggiunge Agadez, in Niger, dove lo acquista un trafficante ghanese: Kofi. Rashid lo paga 4.600 dinari per arrivare a Zawiya, dove poi lavora come muratore per il suo trafficante. Non è chiaro dal racconto del migrante, ma potrebbe essere che in questo modo stava estinguendo il debito contratto con Kofi. Ma è solo un’ipotesi. Il fatto certo è che dopo cinque mesi Rashid viene portato a Zuwara da Kofi, per un altro lavoro. A quel punto, però, il trafficante ghanese torna in patria: la spiegazione di Rashid è che il committente del lavoro che Kofi stava facendo, non pagava. A quel punto viene di nuovo venduto all’organizzazione di Ossama, fino al momento in cui non è stato riuscito a pagare la sua “liberazione”.
Un terzo migrante, Mekki Sedek Diallo, camerunese, quando arriva in Libia dall’Algeria, viene fermato “dai ribelli al regime” a Sabratha. La milizia armata – dalle parole del racconto impossibile distinguere anche solo lo schieramento a cui potrebbe appartenere – lo conduce “in un centro Oim” che fonetico suona “Gaiat”: una struttura che pare inesistente e che di certo non è sotto il controllo dell’agenzia delle Nazioni Unite. Qui la stessa “polizia libica” lo vende a un’altra cellula criminale: gli Asma Boys. Il loro nome ricorre nelle testimonianze raccolte in particolare tra il 2015 e il 2017 dall’associazione Medici per i diritti umani (Medu) con la loro clinica mobile. Spiega un investigatore italiano a Repubblica che gli Asma Boys non hanno una struttura piramidale, né un unico capo: sono una gang giovanile che assomiglia a una paranza camorrista. Pagano una forma di pizzo sul loro guadagno alle milizie in cambio di protezione. Guadagnano soprattutto rivendendo i migranti ad altre bande, come accade per ben due volte a Diallo. La prima volta viene venduto a due carcerieri, un guineano e un nigeriano, che lo tengono in prigione per mesi, fino all’arrivo di un certo Abdoulasile, libico, che lo “compra” per farlo lavorare come muratore, anche in questo caso sotto continua minaccia armata e sottopagato. Quando Diallo scappa lo intercettano ancora una volta gli Asma Boys che lo rivendono alla polizia. Da qui finisce al centro di Tajoura, famoso per essere stato bersaglio delle bombe gettate da Haftar sulla Tripolitania, proprio all’inizio di luglio. Per fortuna di Diallo era riuscito a evadere qualche mese prima, approfittando di un’alluvione. Quando è arrivato a Zawyia è finito in mano ai suoi ultimi carcerieri. In quella struttura accanto alla raffineria, circondata da un muro invalicabile, interrotto solo dal pesante cancello blu. La prigione di Ossama.
Immagine di copertina: la città di Zawya in un fermo immagine tratto dal reportage “Fuga dalla Libia” di Euronews.