Che cosa so, veramente, dei confini? Intendo: che cosa so io, cittadino europeo con passaporto riconosciuto da quasi tutti i Paesi del mondo. Io, sempre in movimento, Booking.com-dipendente, Ryanair-compulsivo. Io, che spesso neppure mi rendo conto di averlo oltrepassato, un confine. Perché spesso per me il confine neppure esiste. O, se esiste, è una semplice incombenza da sbrigare, una coda fastidiosa da smaltire. Per me, viaggiare attraverso l’Europa – specialmente nell’area Schengen – significa potermi muovere liberamente da un Paese all’altro senza alcun bisogno di mostrare un documento. Senza alcuna ansia di sottopormi a un controllo.
Ma tutto cambierebbe se io non fossi un cittadino europeo, e volessi attraversare – per i motivi più diversi – il Vecchio Continente. Se, per esempio, venissi dal Gambia, dal Mali, dal Sud Sudan, dall’Eritrea, dall’Afghanistan, non potrei scrivere ciò che ho appena scritto. Per me le frontiere esisterebbero: eccome. Quasi ovunque, per me le frontiere sarebbero alti muri, pesanti barriere, porte sbarrate. Limiti invalicabili. Tutto, insomma, tranne che liberi passaggi per attraversare spazio e tempo. Perché per me lo spazio sarebbe inaccessibile, e il tempo fermo, sospeso, negato. A me i confini mostrerebbero – ancora, sempre – tutta la loro durezza. Tutto il loro impietoso spettacolo.
Negli ultimi anni – ha scritto l’antropologo Nicholas De Genova – abbiamo assistito sempre di più non solo a un ritorno delle frontiere, ma anche a un nuovo, iper-mediatizzato, «spettacolo della frontiera» (The Borders of Europe. Autonomy of Migration, Tactics of Bordering, Duke University Press, Durham and London 2017, pp. 4-5). E non è stato per caso. Spettacolarizzare il confine è servito, durante la cosiddetta migrant (o refugee) crisis iniziata nel 2015, a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dall’oggetto della crisi – non i migranti in quanto tali, ma l’Unione Europea incapace di accoglierli – al controllo della crisi. Anzi, a riconfigurare ciò che era una chiara empasse di governo (e di governi) su scala europea in un’emergenza da fronteggiare, che richiedeva nuove (e urgenti) strategie di controllo dei confini. Controllo tecnologico, militare, legislativo non solo di valichi e luoghi, ma anche – e soprattutto – di corpi: tanti, indistinti, estranei. Nella gestione di questa crisi, i confini – le frontiere – non sono apparsi, così, solo funzionali, ma essenziali, perché promossi a elementi cruciali nelle tattiche di controllo, nello spettacolo dell’esclusione.
«Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori», recita un vecchio adagio. Per chi sta fuori, le frontiere non sono solo simboli di potere. Sono esse stesse l’esercizio del potere. Separano l’inclusione dall’esclusione, il legale da ciò che è ritenuto illegale, l’umano da ciò che si vuole rappresentare come de-umanizzato. Ciò che esiste da ciò che non ha, né avrà, il diritto di esistere. Non lì, non all’interno di quei confini.
Ma la frontiera non è solo una linea che spezza. È anche un territorio che relaziona. È un limbo, uno spazio del contraddire. Un terreno di angosciosa attesa e di accesa speranza, di profonda frustrazione e di istintiva resistenza, di estenuante noia e di fragile eccitazione. Di silenzio insopportabile e di vitale comunicazione. Di scontro ma anche di negoziato, incontro.
Ventimiglia è uno di questi luoghi: un’astrazione amministrativa a volerla ignorare, una linea del fronte a volerla controllare, una realtà molto sfaccettata a volerla osservare. Posto di passaggio formale e informale da sempre, di gitanti e passeur, Ventimiglia è l’ultima città ligure prima del confine con la Francia. Fu un cruciale punto di transito per i migranti tunisini nel 2011, prima che la Francia riprendesse bruscamente il controllo delle frontiere in seguito agli esodi causati dalle ‘primavere arabe’, e prima che, nel 2015, sospendesse unilateralmente il trattato di Schengen per fronteggiare la ‘crisi’ che in quell’anno ebbe origine. Diventò così una barriera invalicabile nel tratto francese, ma una fragile, esplosiva border zone nel tratto italiano. Una border zone dove si poteva rimanere bloccati per settimane, mesi, nell’attesa – vana – che il confine venisse riaperto, e tornasse a essere poroso, attraversabile.
In questa border zone attivisti italiani e francesi costruirono, nel giugno 2015, il campeggio NoBorder. Il campo divenne da subito un punto di ritrovo per i migranti che intendevano provare a passare dall’altra parte, e per le persone che volevano assisterli. Funzione che conservò fino al 29 settembre 2015, fino a quando fu sgomberato e smantellato con la forza da un’azione di polizia. Dopo gli attacchi terroristici che insanguinarono Parigi il 13 novembre 2015, le autorità francesi intensificarono ancora di più i loro controlli, e la frontiera divenne impenetrabile per chi non era in possesso di documenti validi. Ma la border zone non sparì. Anzi, diventò ancora di più – suo malgrado – il simbolo dello scontro tra violenza di Stato e umana resilienza, tra la freddezza del potere e la solidarietà degli esclusi.
Proprio in questa border zone Luca Prestia – insieme a un collettivo di giornalisti e attivisti – ha trascorso un bel po’ di tempo negli ultimi tre anni. Non con l’ambizione di capire tutto, o con l’arroganza di giudicare, ma con il bisogno di vedere: vedere con i proprio occhi e attraverso gli obiettivi della sua macchina fotografica. Seguo con attenzione il lavoro di Luca da qualche anno, ormai, e il suo modo di vedere, di guardare, è certamente uno dei più interessanti in cui mi sia mai imbattuto. Questa mostra ne è una prova. Oltre la retorica (no)border, e in lucida opposizione alla semplificazione dei media, Luca non prova – con i suoi scatti – a proporre una rigorosa contro-narrativa, né una gnoseologia coerente. Tantomeno intende giocare con le facili emozioni di chi guarda, cercando di accattivarsele. Semplicemente – e semplicemente, in quest’era di superfetazione visiva, vale ‘diversamente’ – tenta di osservare quella striscia di terra tra il fiume Roja e i Balzi Rossi, e in particolare il sentiero collinare del Passo della morte, per raccogliere tracce: di luoghi e passaggi, di antropiche presenze.
Con la sua fotografia desaturata, dove la sottrazione si fa scelta narrativa, non vuole farci sobbalzare con immagini drammatiche e colori forti, che mettano in risalto il dolore da un lato o la rabbia dall’altro, che suscitino pietà o risentimento. Scegliendo un approccio meno emozionale e più logico – e quindi più politico – cerca invece di restituirci tagli e dettagli che altrimenti andrebbero persi, dimenticati, offuscati dal roboante spettacolo del confine. O al contrario, ma con lo stesso risultato, soffocati dalla regola del silenzio secondo la quale meno si conosce di questa border zone, meno questa – agli occhi dell’opinione pubblica – esiste, e con essa le persone che la affollano: gli ‘invisibili’ che non dovremmo vedere (come ricordano le testimonianze raccolte nel blog parolesulconfine.com).
La fotografia di Luca, dicevo, non è mai compiaciuta, né tecnicamente né tematicamente. Paesaggi de-spettacolarizzati, anti-cliché, privi dell’‘effetto cartolina’. Pochi ritratti di figure anodine. Nessuna vittima passiva, straziante, da commiserare. Nessuna rabbia esplicita, ribelle, di cui aver paura. Nessun eroe: nessun duello tra buoni e cattivi. Nessuna facile catarsi per noi, che osserviamo. Soltanto la materialità dei luoghi, in cerca di una loro geografia. Soltanto l’autonomia dei corpi, in cerca di una loro traiettoria. Niente è scontato, prevedibile, già detto. Tutto è sospeso, incompleto. E qui sta il dramma.
Forse è per questo che Luca ricorre alla sineddoche: riprendere una parte per significare il tutto, un oggetto per la storia che potrebbe evocare, un piede o una mano per la persona a cui potrebbero appartenere, un dettaglio che rimanda a un intero. Perché l’atto di vedere, il tentativo di interpretare, possono essere solo parziali, per noi che osserviamo dall’esterno. A maggior ragione a Ventimiglia, dove i frammenti aiutano più della totalità, e la singolarità più della massa, a mettere a fuoco l’articolazione della realtà e la pluralità di soggetti (e soggettività) che vivono con la frontiera, malgrado la frontiera.
Un braccio, un piede, un paio di vecchie scarpe abbandonate, un piccolo segno di un’umana presenza, in quella border zone sono anche epitome del viaggio, del senso stesso del viaggiare: con le sue sfide, le sue asprezze, le sue frustrazioni, le sue possibilità. E non è quindi importante sapere immediatamente a chi appartengano – o siano appartenuti – quegli oggetti, quelle mani, quei piedi, quelle braccia. Non abbiamo bisogno di saperlo, perché non vogliamo (né dobbiamo) rimanere intrappolati nella forbice tra pietismo e rifiuto. A nulla ci servirebbero una compiaciuta empatia o – tantomeno – un’impaurita chiusura, attraverso un rapido consumo dell’immagine. Dobbiamo invece aprire gli occhi, e tenerli bene aperti. Dovremmo invece – questo suggerisce Luca – essere capaci di interrogare senza preconcetti queste fotografie, e quindi interrogare noi stessi, il nostro stesso atto di vedere, la nostra stessa posizione (di forza) come spettatori. Ci vuole, Luca, far sentire scomodi davanti alle sue foto. Come se osservassimo per la prima volta qualcosa a cui non abbiamo mai fatto veramente caso, su cui non ci siamo mai veramente soffermati, che non abbiamo ancora avuto modo e tempo di digerire, di consumare. Perché quelle storie non ci appartengono. Appartengono alle persone che le vivono, che ne hanno fatto esperienza. Quelle vite sono: non hanno bisogno di noi e del nostro permesso per essere, per esserci. Che ci piaccia o no. Che ci piacciano o no.
Il limbo della border zone diventa, allora, anche il nostro limbo di spettatori. Dove il giudizio, la mercificazione, il linguaggio vengono sospesi. C’è così tanto ‘non detto’ in queste immagini. C’è una foresta di segni – indessicali, iconici, simbolici, direbbero i semiologi – tutta da decifrare. E ci sono zone grigie ancora tutte da esplorare. Persone che sembrano coinvolte in conversazioni: ma lo sono davvero? Graffiti sui pilastri del viadotto autostradale: ma fatti da chi, quando? La scritta «Hope» («Speranza») su un pezzo di carta appiccicato alla barriera che, lungo il Passo della morte, divide la Francia dall’Italia: ma a chi è rivolta, davvero?
Raccogliendo questi indizi, Luca ci chiede di interrogarci su quel luogo tanto fisico quanto simbolico. E su quella babele di segni disseminati lungo la linea di confine: una stratificazione di informazioni, di lessici, di prassi linguistiche. Si chiama sociolinguistic landscaping, paesaggio sociolinguistico, lo studio delle tracce multi e mistilingui negli agglomerati urbani, o in zone cosiddette ‘multietniche’. Ma nessuno prima di Luca ci aveva invitato a considerarne l’utilità per tentare di leggere meglio le border zone. Ventimiglia, certo. Ma anche Idoumeni, o Bihać, o Ceuta e Melilla, e ancora Lesbo… alla ricerca non della cesura che la frontiera provoca, ma dell’apertura che il segno porta con sé.
«Hope», speranza, recita il cartello. C’è così tanta speranza, ancora, per chi cerca di attraversare un confine. E c’è speranza anche per noi, qui e adesso: nella possibilità di attraversare barriere anche mentali, di interrogarci sui limiti di ciò che facciamo e sulle aperture di cui tutti avremmo bisogno: non solo come spettatori, intendo. Ma come ricercatori, attivisti, cittadini, vite che stanno, e che sanno di essere, al mondo.
Immagine di copertina: La rete metallica è la vecchia delimitazione che segnava il confine tra Italia e Francia sulle alture sovrastanti la cittadina di Mentone. Sulla rete fino a un anno era presente un cartello in lamiera – di cui si ignora l’autore – riportante la scritta HOPE. Il cartello era posizionato su un varco aperto nella rete, utilizzato dai migranti che tentavano (e ancora tentano) di passare in territorio francese. Oggi quel cartello è scomparso (Foto di Luca Prestia)