Le politiche di accoglienza continuano a rappresentare un tema su cui si gioca la tenuta del progetto europeo, ma l’integrazione sociale ed economica di migranti e rifugiati resta la sfida da sostenere nel lungo periodo. La ricerca che Rena, Make a Cube3 e Politecnico di Milano hanno realizzato con il supporto di J.P. Morgan ha assunto un punto di vista preciso: il lavoro può essere una leva decisiva a sostegno del processo di integrazione.
Per capire come i diversi paesi europei stanno affrontando questo tema abbiamo mappato e studiato più di 100 iniziative e progetti realizzati da enti pubblici, organizzazioni della società civile, gruppi informali e soggetti privati. Attraverso le esperienze di chi li ha pensati e realizzati e l’analisi dei servizi che offrono, abbiamo provato a capire quali fossero i nodi cruciali e le questioni più rilevanti.
Perchè proprio il lavoro?
L’aspetto che accomuna gran parte delle esperienze che abbiamo incontrato è la consapevolezza che il lavoro, con il suo portato insieme simbolico e materiale, sia uno degli aspetti decisivi su cui puntare per favorire l’integrazione. Al di là del valore strettamente economico, legato alla sussistenza personale o prodotto dai lavoratori immigrati nel paese cosiddetto ospitante, il lavoro innesca dinamiche positive sia a livello individuale che di comunità.
Essere inserite in un contesto lavorativo permette alle persone di apprendere più velocemente la lingua, le abitudini, le regole sia implicite che esplicite del luogo in cui si trovano. Fanno esperienza di ciò che nella migliore delle ipotesi apprenderebbero tra le mura di un’aula. Allo stesso tempo, il lavoro permette di rafforzare la fiducia in se stessi, di costruire un legame con la comunità e il territorio in cui ci si trova a vivere.
Ma cosa ci raccontano queste esperienze?
Se in generale l’accesso al mercato del lavoro risulta complesso, per i migranti – in particolare per quelli di prima generazione – lo è ancora di più. Per loro, alle difficoltà ordinarie si aggiungono ragioni di carattere burocratico e sociale tra cui il riconoscimento dei titoli di studio, le spesso scarse relazioni con la comunità ospitante, e la conoscenza del contesto.
I rifugiati mostrano tassi di occupazione addirittura inferiori rispetto agli altri gruppi di migranti. Questo ha a che fare sia con la fragilità della loro posizione e del loro percorso di vita, compresi i traumi subiti, ma anche con gli ostacoli burocratici, con i lunghi tempi d’attesa per la valutazione delle richieste d’asilo e, in generale, con l’incertezza rispetto al percorso che dovranno affrontare.
Avviare un’impresa diventa in molti casi un modo per superare ostacoli e pregiudizi. Secondo le organizzazioni intervistate, i lavoratori immigrati sono spesso più disposti ad accettare i rischi connessi al lavoro autonomo. Questo per ragioni che vanno dalla necessità di garantirsi una continuità lavorativa (a cui è legato ad esempio il permesso di soggiorno), alla possibilità di mettere in gioco le proprie competenze e conoscenze a prescindere dal fatto che queste siano riconosciute da un datore di lavoro. Tuttavia, la prevalenza di imprese avviate da singoli individui, o persone connazionali, in alcuni specifici settori come quello del commercio, dei servizi e dell’edilizia testimonia ancora una tendenza segregativa nel mercato delle imprese straniere.
Offrire opportunità economiche non basta
Il CIAC (Centro Immigrazione Asilo e Cooperazione) – nato a metà degli anni Novanta come rete fra realtà attive sul territorio durante la guerra nei Balcani – oggi gestisce una rete di servizi capillare in tutta la provincia di Parma: dagli sportelli di orientamento all’interno dei Comuni, che svolgono una funzione di raccordo tra i diversi servizi pubblici, fino al Social Housing, un progetto di “terza accoglienza” destinato alle persone che escono dallo Sprar ma che non hanno ancora consolidato una posizione lavorativa ed economica stabile.
Come Ciac, sono molte le organizzazioni che interpretano l’accoglienza come sistema, lavorando insieme alle amministrazioni pubbliche, agli altri enti del terzo settore e alle comunità locali, per costruire percorsi che accompagnino i migranti attraverso una progressiva autonomia e inclusione sociale.
Formazione e valorizzazione delle competenze sono il primo passo di questo processo che, tuttavia, include questioni per le quali l’offerta di corsi di base non è sufficiente. Esperienze come Kiron Open Higher Education, Silent University o the Building Bridge Program trattano aspetti specifici come l’aggiornamento delle competenze pregresse e il loro riconoscimento formale in relazione al settore di mercato in cui potrebbero essere spese; offrono corsi, anche on-line, che permettono ai migranti con un livello di istruzione medio di migliorare la loro formazione per facilitarne l’ingresso nel mondo del lavoro.
Un altro modo per sostenere la formazione e allo stesso tempo creare possibili occasioni di inserimento lavorativo è quello dei partenariati, attivati dalle strutture ospitanti o dalle organizzazioni che promuovono progetti specifici, con aziende e organizzazioni non-profit per affiancare all’apprendimento teorico esperienze di applicazione pratica. Less – Impresa Sociale, ad esempio, offre servizi di questo tipo oltre a laboratori in cui cerca di promuovere i profili e le competenze dei rifugiati e richiedenti asilo in un’ottica imprenditoriale o cooperativa.
All’interno di uno dei laboratori di avviamento all’impresa promossi da Less nasce Tobilì – cucina in movimento, coinvolgendo alcuni dei richiedenti asilo ospiti dello Sprar nella creazione di un servizio di catering multietnico.
Tobilì, come Cuochi a Colori, Hotel Magdas o From Syria with Love, ha lo specifico obiettivo di valorizzare la cultura e le competenze anche informali dei migranti, oltre che di inserimento in un percorso di formazione professionale. Queste esperienze sono in molti casi promosse da imprenditori o operatori del settore che svolgono un ruolo di supporto amministrativo, di coordinamento o di formazione per coloro che vi sono impiegati.
In altri casi, come quello di Refugee Company, alla formazione professionale in settori specifici sono affiancati incontri ai quali partecipano soprattutto rifugiati e aziende. Da questi momenti possono scaturire opportunità lavorative, ma tra gli obiettivi c’è anche quello di ampliare le spesso deboli reti di relazioni locali dei rifugiati.
Servizi come Workeer e Migrant Hire si focalizzano sull’intermediazione tra rifugiati e aziende utilizzando strumenti digitali; sono pensati per persone con un livello di formazione medio-alto che possono utilizzare le piattaforme on-line ed entrare in contatto con possibili datori di lavoro.
Per i migranti che vogliono avviare un’impresa, infine, esistono realtà come Cna World, un’associazione nata all’interno della Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola Impresa, che rappresenta e promuove i diritti degli imprenditori immigrati attivi nella provincia di Roma. Negli anni, Cna World ha sviluppato, tra gli altri, un servizio di consulenza individuale gratuito che accompagna coloro che vorrebbero avviare un’impresa, dalla fase di valutazione dell’idea fino alla stesura del piano economico-finanziario e al disbrigo delle pratiche burocratiche. In più, all’interno di Cna si è costituito un consorzio di garanzia che si pone come soggetto intermediario tra chi chiede il credito e la banca che dovrebbe erogarlo. In questo modo le garanzie fornite aumentano, e con esse le probabilità che il credito venga concesso. Dell’accesso al credito si occupano anche realtà come Per Micro che offre un servizio di micro-credito per imprese e famiglie che non avrebbero facilmente accesso alle forme di credito tradizionali.
Imparare dalle esperienze per costruire le politiche.
Quello che emerge dalla ricerca è un quadro di esperienze ricchissimo di organizzazioni con competenze specifiche che individuano spazi di opportunità e carenze su cui intervenire. Si tratta in molti casi di progetti che lavorano in stretta relazione con il territorio e che, dove esistono, garantiscono diritti e un accesso a servizi di qualità. Dalla dimensione locale emergono sfide che queste organizzazioni riescono a cogliere spesso insieme alle amministrazioni locali. Alle politiche il compito di supportarle, di lasciarsi suggerire modelli d’azione possibili ma anche di colmare le discrepanze territoriali, di costruire canali di accesso legali e di supportare l’ingresso nel mercato del lavoro sia per i migranti che per i rifugiati e richiedenti asilo.
Gli autori della ricerca sono: Simona Colucci per Rena, Anna Meroni, Chiara Galeazzi, Pamela Villa e Alejandra Obiols per POLI.design, Matteo Bartolomeo e Alberto Muscari Tomajoli per Make a Cube. Qui il link al progetto e qui il rapporto completo da scaricare.
In copertina: fotografia di Kiron Open Higher Education for Refugees