«Per vincere, i terroristi fondamentalisti possono tranquillamente contare sulla miope collaborazione dei loro nemici». Sospensione di regole base della democrazia, risentimento verso gli stranieri, il circolo tra propaganda politica e xenofobia, stati-nazione incapaci di affrontare un fenomeno epocale come le grandi migrazioni. La “refugee crisis”, prima e dopo gli attentati di Parigi, è la cartina tornasole di una più globale crisi dell’Occidente, spiega in quest’intervista a Open Migration il grande sociologo della società liquida Zygmunt Bauman. Un’emergenza che durerà a lungo e alla quale l’Europa non ha ancora trovato gli argomenti adeguati per rispondere, presa in mezzo tra la necessità di aumentare i controlli – da ultimo la stretta sulle identificazioni forzate alle frontiere – e la necessità di tenere aperto uno spazio comune europeo.
Prof. Bauman, lei critica il modo in cui l’Europa ha reagito agli attentati del 13 novembre. Perché?
Se l’obiettivo strategico della guerra dei terroristi globali – come ha detto Hollande con il consenso di molti europei – è la distruzione di ciò che loro condannano e che invece noi abbiamo a cuore, ossia la civiltà occidentale, non c’è tattica migliore che quella di portare alcuni dei portavoce più importanti di tale civiltà a smantellarla gradualmente con le proprie mani, e tra gli applausi, il sostegno, o quantomeno l’indifferenza dei cittadini. Moltiplicando le misure eccezionali e mettendo da parte i valori che si vorrebbero difendere – anzi introducendo tali misure in nome di quei valori – si spiana la strada alle forze anti-occidentali. Un obiettivo che queste forze non sarebbero in grado di raggiungere da sole.
Qual è l’errore che attribuisce alla Francia e all’Occidente in questo momento?
Rinforzando la xenofobia dal basso e concentrandosi sui migranti provenienti dai paesi islamici si passa la palla nelle mani dei terroristi fondamentalisti. L’accoglienza ostile verso i rifugiati da una parte scoraggia i potenziali rifugiati che sono ancora nei loro paesi, dall’altra amplia le possibilità di reclutamento per le cellule terroristiche estendendo il contagio ai migranti residenti in Francia da tempo. Gli avversari di Hollande, Nicolas Sarkozy e Marine Le Pen, lo hanno spinto a rovesciare il principio della presunzione di innocenza, presupponendo che i rifugiati di fede islamica siano presunti terroristi fino a prova contraria. E così di fatto impedendogli di sentirsi accolti in un paese in cui speravano di sentirsi a casa. Ma non è facile che Hollande vinca la sua battaglia. Come si dice, c’è sempre un demagogo più grande in giro.
Un milione di arrivi in Europa nel 2015 e circa 4000 morti nelle traversate di migranti e rifugiati nel Mar Mediterraneo. Siamo di fronte a una situazione di emergenza o un fenomeno strutturale, che durerà negli anni futuri?
Una fatale coincidenza di entrambi. La migrazione di massa ha accompagnato l’era moderna fin dall’inizio. Quello che chiamiamo “stile di vita moderno” produce “persone in esubero”, ossia “inutili” per il mercato del lavoro a causa del progresso economico, o “intollerabili”, ossia respinte per effetto di conflitti bellici o sociali. Tra le cause di questo spostamento di massa c’è la destabilizzazione profonda, e apparentemente senza prospettive, dell’area mediorientale. Una destabilizzazione determinata da miopi e sciocche politiche e iniziative militari delle potenze occidentali.
Quest’anno è nata l’esigenza di distinguere in maniera netta tra “migranti economici” e “rifugiati”. È possibile tirare una linea senza discriminare?
Come le ho appena detto, le cause degli attuali movimenti di massa sono di due tipi. Ma è duplice anche l’impatto sui paesi di destinazione. Chi ha interessi economici nelle zone sviluppate del globo in cui sia i migranti economici che i rifugiati cercano riparo accoglie a braccia aperte questa manodopera a basso costo, spesso con competenze che possono essere utilmente sfruttate. D’altro canto, per la maggior parte della popolazione, già ossessionata dalla fragilità esistenziale e dalla precarietà della propria condizione sociale, tale afflusso significa un’ulteriore concorrenza sul mercato del lavoro, un’incertezza più profonda e una diminuzione delle possibilità di miglioramento della propria vita. Questo produce uno stato mentale politicamente esplosivo.
Anche prima degli attentati di Parigi i governanti europei sono stati spesso indecisi e oscillanti nelle scelte, si pensi alle aperture e chiusure di Angela Merkel.
Lo ripeto ancora una volta, i governi che si presumono ancora sovrani del loro territorio soffrono in realtà di un doppio legame, con alcuni poteri globali e con i loro elettori, locali, e ritenuti anch’essi sovrani. Nessuna meraviglia che, come lei suggerisce, siano ondivaghi e precari nelle decisioni. Avidamente ma invano, cercano di avere il piede in due scarpe, ma le richieste dei due campi non si conciliano. Al massimo possono essere ascoltate e, a intermittenza, realizzate. Tuttavia, quasi mai soddisfacendo fino in fondo una delle due parti, per non parlare di entrambi contemporaneamente.
Dove bisogna cercare le cause di questa crisi che lei definisce “strutturale”?
Gli stati-nazione indipendenti sono incapaci ormai di affrontare da soli i problemi derivanti dall’interdipendenza globale. Con la globalizzazione del potere che lascia indietro la politica locale, gli strumenti disponibili di azioni collettive efficaci non corrispondono alla misura dei problemi generati dalla nostra condizione globalizzata. Per citare Ulrich Beck, stiamo già in una situazione cosmopolita ma ci manca drammaticamente una consapevolezza cosmopolitica. Abbiamo fallito nella capacità di costruire con serietà istituzioni destinate a gettare le fondamenta di tale consapevolezza.
Quali rischi corre l’Europa con il boom delle forze politiche xenofobe?
Per il momento, la discussione pubblica è dominata dal risentimento verso gli stranieri, i “soliti sospetti”. In tempi di incertezza acuta e di terrorismo si avvicina la paura di un terremoto sociale. E gli stranieri sono oggi sospettati di essere la causa del caos globale.
Quali sono gli effetti politici dell’arrivo di decine di migliaia di migranti e rifugiati nei paesi europei?
La politica trae profitto dalla xenofobia ormai popolare in tutta Europa con la sola eccezione di Spagna, Portogallo e Finlandia, paesi finora esclusi dai flussi dell’immigrazione. Nella tradizionale Vienna progressista i quiz oggi dicono la il partito xenofobo Freiheitliche Partei è al livello dei socialdemocratici. In Olanda, suonare la melodia xenofoba ha fatto guadagnare più di dieci seggi parlamentari a Geert Wilders a scapito dei liberali di Mark Rutte che sono al potere. In Germania, la xenofobia ha spinto Alternative für Deutschland fuori dalla sua invisibilità politica. In Italia, Matteo Salvini e la Lega Nord potrebbero triplicare i loro voti grazie all’abbandono dell’autonomismo e concentrandosi solo sulla chiusura agli immigrati. In Gran Bretagna, il flusso dei migranti ha offerto una seconda vita a Nigel Farage e all’Ukip dopo la sua sconfitta elettorale dello scorso anno.
Come si risponde alla deriva xenofoba?
La xenofobia e il razzismo sono sintomi, non cure. Comunità etniche diverse sono destinate a coesistere nelle società moderne, a dispetto di ogni retorica che sogni un ritorno a una nazione pura e non meticcia. Per concludere, voglio usare le parole dello storico Eric Hobsbawm: «Oggi, la tipica minoranza nazionale nella maggior parte dei paesi di approdo dei migranti è un arcipelago di piccole isole piuttosto che un continente unico. Ancora una volta, i movimenti identitari sembrano essere il prodotto di debolezza e paura. In ogni società urbanizzata incontriamo stranieri: uomini e donne sradicati che ci ricordano la fragilità o il prosciugamento delle nostre radici famigliari».
Intervista di Alessandro Lanni