Pubblicato originariamente in inglese su LSE Blogs – Euro Crisis in the Press
«La risposta umanitaria non è sufficiente […] C’è bisogno di leadership e di azione politica», ha dichiarato Filippo Grandi, alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati l’8 marzo 2016. Riferendosi al fatto che «Le coste dell’Europa stanno assistendo all’arrivo di un numero di rifugiati e di migranti senza precedenti», Grandi ha sottolineato che «quest’emergenza non deve necessariamente costituire una crisi: può essere gestita». Parlando davanti al Parlamento europeo, Grandi non ha fatto accenno alla profonda saldatura che negli ultimi anni si è venuta a creare fra la militarizzazione della migrazione e il controllo delle frontiere e i princìpi dell’intervento umanitario. Ciò nonostante, credo sia consapevole che l’attuale attenzione all’aspetto militare-umanitario del fenomeno insinua una più complessa logica di minaccia/compassione che legittima la stessa risposta militare-umanitaria..
La preoccupazione di Grandi non è purtroppo una novità. Il problematico rapporto fra umanitarismo e politica fu descritto con precisione diciassette anni fa da James Orbinski di Medici Senza Frontiere nel suo discorso d’accettazione del premio Nobel: «L’umanitarismo non è uno strumento per forre fine alle guerre o creare la pace. È la reazione dei cittadini al fallimento della politica. È un’iniziativa immediata e a breve termine che non può cancellare il bisogno, sul lungo periodo, di un’assunzione di responsabilità della politica». La novità del discorso di Orbinski risiedeva nella critica rivolta al cosiddetto intervento «militare-umanitario», laddove Grandi si riferisce alla gestione ordinaria dei flussi migratori, che troppo spesso viene descritta come emergenza umanitaria.
Da una rapida analisi dell’importanza che vanno assumendo le questioni morali solitamente associate alle organizzazioni umanitarie nell’ambito del controllo delle frontiere si evincono le implicazioni politiche ed epistemologiche di questa dislocazione discorsiva. Consideriamo per esempio le notizie, le immagini e i video prodotti dalla Marina Militare Italiana durante l’operazione Mare Nostrum, l’iniziativa militare-umanitaria che mira a salvare i migranti e contestualmente arrestare i trafficanti di esseri umani. Permettetemi di sottolineare che «Mare Nostrum» (il nostro mare) era il nome che i romani davano al Mediterraneo, poi usurpato da Mussolini per propagandare l’idea fascista di un presunto «lago italiano». Come suggerisce lo stesso (ambiguo) nome, il pronome possessivo «nostro» inquadra il Mediterraneo come un’area di interesse e di controllo europeo, al tempo stesso stabilendo un legame ambiguo tanto con l’Italia quanto con l’Europa.
Osservando le immagini prodotte dai nuovi «inviati al fronte» (ovvero i soldati delle navi), constatiamo che la maggior parte evoca solidarietà per i militari e compassione per i migranti. Sono immagini che ci invitano a far parte di una comunità di testimoni, una comunità nella quale lo spettatore assume il ruolo di potenziale salvatore, mentre i corpi messi in salvo costituiscono «l’altro». Il controllo delle frontiere viene ridefinito nel contesto di un immaginario morale che pone l’accento sulla vulnerabilità umana. Le attività dei soldati sono visivamente assimilate all’immaginario della distribuzione degli aiuti, e raffigurano migranti appena messi in salvo che ricevono con gratitudine pacchi di cibo e acqua. Indicativo è che fra i soggetti più rappresentati vi siano le donne con i loro fragili e innocenti neonati.
Per capire quanto la legittimità di questa operazione militare-umanitaria (che è costata nove milioni di euro al mese) dipenda dal modo in cui viene descritta e spiegata attraverso i media, è sufficiente analizzarne il video ufficiale. Come potrete vedere, se nella prima parte veniamo invitati a farci testimoni di questa drammatica «emergenza», esortati a provare apprensione o turbamento davanti all’orrore delle immagini, nella seconda lo spettacolo, fortemente adrenalinico, verte sui soldati che sfidano il mare per porre rimedio alla catastrofe. Che dire poi del lieto fine rappresentato da quell’ultimo fotogramma, che crea un contesto fortemente moralistico nel quale l’operazione assume i toni della benevolenza umanitaria? In modo del tutto slegato, naturalmente, da qualsiasi dato storico o politico. Qui la questione dei flussi migratori viene riletta come un viaggio senza destinazione, un tragico scherzo del destino. In quanto protagonisti di una crisi nata dal nulla, i migranti sono dipinti al tempo stesso come soggetti costretti a esporsi al pericolo — imbarcandosi su navi non sicure — e a rischio (di morte o di traffico umano) da salvare.
Per riassumere: usando il linguaggio della lotta al traffico umano e ai potenziali terroristi, e al tempo stesso salvando vite e proteggendo i diritti umani dei migranti, Mare Nostrum mette in scena lo spettacolo del «campo di battaglia umanitario». Si tratta appunto di uno spettacolo, ma che viene interpretato in modi diversi a seconda del pubblico. Come le diverse rifrazioni di luce prodotte da uno stesso caleidoscopio, lo spettacolo nazionale della sorveglianza, del mantenimento dell’ordine e del controllo delle frontiere è anche lo spettacolo cosmopolita del soccorso e della salvezza. Mare Nostrum parla lingue diverse a seconda dell’uditorio politico: migranti e cittadini, trafficanti e attivisti transnazionali, coalizioni governative di destra e membri delle ONG.
A titolo illustrativo, permettetemi di concludere con due esempi recenti che dimostrano in modo inequivocabile la coesistenza dell’approccio assistenziale e protettivo nella gestione odierna delle migrazioni. Il 15 ottobre del 2015, durante la sua visita al Parlamento italiano, il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-Moon ha elogiato «i soldati italiani che hanno salvato migliaia di vite umane nel Mediterraneo», ringraziando «il popolo italiano per lo sforzo di accoglienza e assistenza fatto nei confronti dei migranti». A conclusione dell’evento, il primo ministro italiano Matteo Renzi ha dichiarato: «L’Italia che le dà il benvenuto è l’Italia degli ufficiali che diventano infermieri per far nascere i bambini nelle navi nel Mediterraneo. È un Italia di cui siamo orgogliosi». Anche in questo caso, l’imperativo bio-politico della gestione di vite umane viene espresso attraverso un’estetica del trauma, in cui la guerra (ai migranti) è rappresentata come un’intima esperienza di dolore e al tempo stesso come un pubblico atto di peace-making.
Parallelamente, nell’ultimo periodo vediamo diversi attori umanitari criticare l’accordo fra UE e Turchia, nonché il loro uso della narrazione umanitaria (e dei suoi attori) per legittimare il controllo delle frontiere. UNHCR, Medici Senza Frontiere, IRC e Consiglio norvegese per i rifugiati dichiarano che non collaboreranno agli aspetti controversi dell’accordo UE-Turchia sulla migrazione. «L’UNHCR teme che l’accordo fra Unione Europea e Turchia venga posto in atto prima che in Grecia siano state predisposte le tutele necessarie», ha dichiarato un portavoce. «L’UNHCR non è coinvolto nell’accordo UE-Turchia, né prenderà parte ai rimpatri o alle detenzioni. Continueremo ad assistere le autorità greche nello sviluppo di un’adeguata capacità ricettiva». Trovo sia un punto importante. Migrazione e asilo sono concetti politici. E le dichiarazioni di questi attori sollevano domande sulla (tremenda) gestione europea della crisi, denunciando come spesso l’umanitarismo venga confuso con la responsabilità politica.
Tornando al gioco di rifrazioni fra contesto militare e umanitario, ritengo che le immagini, per quanto utilissime a illustrare una crisi, possano fare poco per spiegarla. Anziché promuovere la solidarietà nel nome della dignità umana, la narrazione militare-umanitaria alimenta una complessa ontologia della disuguaglianza che riproduce specifiche gerarchie di valore e valutazioni della vita umana. Come in altri esempi di governo umanitario, l’assistenza e il controllo si alimentano a vicenda, coltivando una «repressione compassionevole» incapace di colmare il divario fra «noi» e «loro», e che rischia anzi di dare forza alla governance neoliberista globale nel suo delineare una geografia morale del mondo asimmetrica (sia in termini di capacità d’azione che di dignità).
In netto contrasto con questa visione, dobbiamo tenere a mente ciò che sta accadendo da qualche mese a questa parte. La marcia collettiva dei rifugiati attraverso i Balcani ha reso fortemente visibile la capacità d’azione dei migranti stessi, rivelando il ruolo cruciale che ricoprono nel mettere in discussione le strutture di governance esistenti. Come abbiamo modo di vedere, le persone in movimento ribaltano la posizione di sudditanza delle vittime indifese, riaffermando la propria capacità d’azione, la propria identità sociale e politica, le proprie speranze e i propri sogni, la capacità di scegliere il proprio destino.
Nota: questo articolo esprime il punto di vista del suo autore e non del blog Euro Crisis in the Press, né della London School of Economics.
(Traduzione di Matteo Colombo)