Nel luglio del 2013 l’Australian Customs and Border Protection Service [agenzia doganale e di controllo delle frontiere, NdT] lanciò una serie di annunci pubblicitari per dissuadere i richiedenti asilo dal chiedere protezione in Australia. La campagna mirava a informare i richiedenti asilo nei paesi di origine, compresi i minori non accompagnati, sull’inutilità di affidare i propri risparmi ai trafficanti di persone, sui pericoli del viaggio e sulle politiche intransigenti che li avrebbero attesi qualora fossero riusciti a raggiungere le coste australiane.
La campagna, condotta prevalentemente online, è incentrata su un video lungo poco più di un minuto, in cui il comandante dell’operazione Sovereign Borders, il tenente generale Angus Campbell, posa accanto alla scritta “NO WAY” in caratteri rossi maiuscoli, sullo sfondo sinistro di una fragile imbarcazione che galleggia su un mare in tempesta. «Il messaggio è semplice: se arrivate illegalmente per mare, è escluso che possiate mai trovare accoglienza in Australia», ammonisce il comandante.
La campagna è stata definita l’espressione di una delle politiche di controllo delle frontiere più rigide al mondo, e criticata dalle associazioni per i diritti umani per l’estremismo e il disprezzo delle vite umane che lascia trasparire. Ricordando le centinaia di persone morte nel tentativo di raggiungere l’Australia dall’Afghanistan, dallo Sri Lanka, dall’Iraq e dall’Iran a bordo di scafi vecchi e malsicuri, l’associazione non-profit Refugee Action Coalition di Sydney ha denunciato lo stanziamento da parte del governo australiano di 60.3 milioni di dollari per l’ampliamento dell’operazione Resolute (che comprende in sé l’operazione Sovereign Borders), colpevole di puntare «non a salvare vite, ma a fermare le imbarcazioni».
Tre anni dopo, il 28 luglio, il governo italiano ha lanciato una campagna mediatica sulle piattaforme televisive, radiofoniche e sui social media per dissuadere i migranti africani dal tentare la pericolosa traversata del Mediterraneo. Con lo scopo dichiarato di scongiurare le morti in mare (cioè di salvare vite umane), la campagna Aware Migrants si rivolge agli aspiranti migranti fra i diciotto e i trentacinque anni di età in vari paesi dell’Africa Occidentale e del Nord per informarli sui potenziali rischi insiti nel tentativo di raggiungere l’Europa.
La campagna, costata un milione e mezzo di euro, è l’ultimo di una serie di tentativi, oltre ai programmi di espulsione e trasferimento, da parte dell’Italia volti a convincere sempre più potenziali richiedenti asilo a non compiere la traversata. E non si tratta della prima campagna europea condotta sulla paura. Benché quella italiana si proponga (ufficialmente) di ridurre i morti, rendendo “consapevoli” i migranti dei pericoli insiti nelle rotte illegali del contrabbando e del traffico di esseri umani, il tentativo di usare la comunicazione per scoraggiare le migrazioni irregolari sembra collocare l’Italia nel solco di un precedente stabilito dall’Ungheria e dalla Danimarca.
Infatti, per limitare il flusso dei richiedenti asilo, oltre a erigere una barriera lunga centottanta chilometri lungo il confine con la Serbia, nel 2015 il governo ungherese ha fatto ricorso a una campagna pubblicitaria per scoraggiare attivamente l’ingresso nel paese. Questi annunci sono stati pubblicati su parecchi quotidiani libanesi e giordani, e avvertivano i rifugiati di non provare a entrare illegalmente in Ungheria. Un’intera pagina scritta in arabo e inglese informava i lettori che i rifugiati sorpresi a tentare l’ingresso in maniera illegale avrebbero rischiato la reclusione.
Alcuni mesi dopo il governo danese ha fatto pubblicare un annuncio simile sui principali quotidiani libanesi, avvertendo i migranti di non partire per la florida nazione nordica e sottolineando che quanti si fossero visti rifiutare la richiesta di asilo sarebbero stati espulsi dal paese. Il governo ha speso trentamila euro per una campagna pubblicitaria che ribadiva le norme e i vincoli stringenti a cui sono sottoposti i migranti.
Probabilmente per evitare l’accusa di calcare sulla retorica anti-immigrazione (come nel caso dell’Ungheria e della Danimarca), il ministro dell’Interno italiano ha deciso di rivolgere ai migranti un monito più velato. E non c’è dubbio che il coinvolgimento dell’OIM, tra le principali organizzazioni a mettere l’accento sui diritti dei migranti e a richiedere un trattamento migliore per quanti scelgono di mettersi in viaggio, rappresenti una componente umanitaria forte nell’ambito del progetto.
Non va dimenticato che Angelino Alfano – fautore della campagna, nella cui conferenza stampa ha sottolineato come «i migranti economici costituiscono il 60 per cento dei 154.000 arrivi dello scorso anno», e come l’Italia e il resto dell’UE «devono accelerare il rimpatrio dei migranti senza diritto legale di residenza, altrimenti le politiche dell’Unione crolleranno» – è anche il ministro dell’Interno del governo guidato da Matteo Renzi, il premier italiano che ha integrato perfettamente il discorso umanitario dell’assistenza e dell’ospitalità nella retorica relativa alla gestione dei flussi migratori.
Nel corso degli ultimi due anni, Matteo Renzi ha ribadito più volte che l’Italia e l’Europa hanno il dovere umanitario di proteggere coloro che intraprendono la traversata. Eppure, allo stesso tempo Renzi, come quasi tutti i capi di governo europei, è ansioso di dimostrare che si sta adoperando per distinguere fra quanti fuggono dalle guerre e quanti cercano una vita e opportunità economiche migliori.
Ma quali sono le prove dell’impatto e dell’efficacia di queste campagne nel dissuadere individui vulnerabili e in cerca di una vita migliore dal lasciare i paesi d’origine?
Come dimostra una ricerca approntata nel luglio del 2015 per il governo inglese dall’Università di Birmingham, esistono scarsissime prove del fatto che tali campagne siano efficaci, e quelle riguardanti i singoli casi suggeriscono che hanno tutt’al più un effetto limitato sulla decisione presa dai migranti di mettersi in viaggio.
Malgrado le difficoltà insite nella raccolta di dati sui migranti irregolari (che può essere difficile contattare, e che possono avere paura di parlare con le autorità, o dare una versione falsata dei motivi per cui si sono messi in viaggio nel tentativo di razionalizzare la propria decisione), molti studi di valutazione condotti in vari paesi, dal Senegal all’India, dai Balcani occidentali al Kenya e allo Zimbabwe, hanno concluso che «è difficile dimostrare una concatenazione di nessi causali fra uno specifico programma e la diminuzione delle migrazioni».
Benché la campagna italiana sembri adottare alcuni degli espedienti che, secondo l’UNHCR, possono migliorarne l’efficacia (come il fatto di rivolgersi a un gruppo specifico di migranti, di includere testimonianze reali di quanti hanno fatto ritorno e di usare delle celebrità per promuovere il messaggio, come l’artista maliana Rokia Traoré), l’assenza di informazioni sulle opportunità legali e la diffidenza verso le informazioni ricevute sono fra le ragioni principali del suo effetto limitato sui comportamenti migratori. Come sostiene il già citato rapporto di GSDRC, «le campagne di sensibilizzazione possono avere scarsa rilevanza per i potenziali migranti, che ritengono valga la pena affrontare i rischi del viaggio pur di migliorare la propria esistenza».
Quando i potenziali migranti percepiscono che le campagne informative sono mosse dai tornaconti di governi e organizzazioni internazionali è probabile che tendano a liquidarle come propaganda. In genere si considerano meglio informati sui rischi rispetto a chi produce le campagne, specie quando le informazioni sono diffuse dai mass media e dai canali ufficiali.
Inoltre, come sostiene gran parte della letteratura sul tema, altri fattori giocano un ruolo assai più forte nelle decisioni dei migranti: le informazioni sui rischi non sembrano cambiare la decisione di emigrare, in quanto le opportunità percepite all’estero continuano a pesare più dei rischi, e i migranti continuano ad affidarsi ai resoconti sulle condizioni di vita nei paesi di arrivo che leggono sui social network di cui si fidano.
La letteratura è alquanto chiara sul fatto che a causare le migrazioni irregolari non è la scarsità d’informazioni circa i loro pericoli, come presuppongono le campagne informative, bensì il perdurare delle condizioni di povertà, disuguaglianza, conflitto e assenza di opportunità economiche in patria, tutti fattori che gli interventi d’informazione trascurano di considerare. Fattori, inoltre, che sono al di là della portata del legislatore.
Per tornare invece ai tentativi dei governi europei di scorgere nella politica australiana del “fermiamo le imbarcazioni” una “soluzione” alla crisi dei migranti in Europa: credo che le politiche e il dibattito pubblico sull’immigrazione in Australia non possano fornire all’Europa un piano d’azione adeguato. Questo per varie ragioni: innanzitutto perché la politica australiana non ha mai, in nessun momento, preso in considerazione la necessità di proteggere quanti fuggono dalle guerre o dalla povertà; e in secondo luogo perché la linea dura dell’Australia nei confronti dei richiedenti asilo pare essersi rivelata illusoria, dal momento che non ha fermato le imbarcazioni, ma ha soltanto dirottato i flussi su altre nazioni, come l’Indonesia o la Malesia.
In netto contrasto con questi tentativi inefficaci di scoraggiare i migranti tramite campagne di comunicazione dovremmo ricordare che le imbarcazioni che attraversano il Mare Nostrum vanno considerate un problema nostro (oppure, perché no?, una opportunità nostra). Se davvero vogliamo salvare vite ed elaborare risposte migliori per venire incontro alle tremende necessità di chi si arrischia a compiere la pericolosa traversata, probabilmente sarebbe meglio se i governi dell’UE riformulassero il loro interrogativo fondamentale, modificando il quesito da «Come possiamo fermare i migranti?» a «Perché fuggono?» e «Come possiamo metterli nelle condizioni di richiedere legalmente asilo e visti?».
(Traduzione: Francesco Graziosi)
FOTO COPERTINA: Open Borders