Tra i richiedenti asilo che arrivano in Europa ogni anno ci sono migliaia di persone che lasciano il proprio paese perché vittime di violenze e persecuzioni, tra cui quella per l’orientamento sessuale. Secondo il report annuale dell’International Lesbian, Gay, Bisexual and Trans and Intersex association (ILGA), nel mondo sono 75 gli stati che criminalizzano l’omosessualità. In 13 paesi – tra cui Mauritania, Arabia Saudita e Yemen – è prevista la pena di morte; in 14 essere gay può condurre all’ergastolo e in altre nazioni fino a 15 anni di prigione, come in Angola, Kenya e Marocco. In 17 stati, infine, sono state promosse leggi che limitano fortemente l’espressione dell’orientamento sessuale – ad esempio in Russia.
La questione della criminalizzazione di omosessualità e transessualità ha iniziato a ricevere attenzione a livello internazionale in tempi relativamente recenti. Solo nel 2008 è stata fondata una Ong interamente dedicata ai profughi Lgbti, l’Organization for Refuge, Asylum & Migration (Oram), partner ufficiale dell’UNHCR.
Il ritardo spiega la scarsità di studi e stime, certificata anche dal primo rapporto sull’omofobia negli stati membri da parte dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, che denuncia una “significativa assenza di ricerche accademiche e di dati ufficiosi forniti dalle Ong su omofobia, transfobia e discriminazioni per motivi di orientamento sessuale e identità di genere in molti stati membri e a livello Ue”.
Chi sono e da dove vengono i rifugiati Lgbti
Avere delle statistiche di quanti siano i richiedenti asilo Lgbti è molto difficile. Da un lato si tratta di un tema molto sensibile, dall’altro la maggioranza degli stati membri dell’Ue non raccoglie dati sul fenomeno. La commissione svedese per l’immigrazione ha stimato nel 2002 il numero di richiedenti asilo nel paese per motivi di orientamento sessuale o identità di genere in circa 300 persone l’anno; mentre i Paesi Bassi hanno contato 200 domande. Si tratta però, secondo la ricerca Fleeing Homophobia, cofinanziata dal Fondo Europeo per i Rifugiati, di stime certamente al ribasso. La stessa analisi ritiene che i richiedenti asilo Lgbti provengano almeno da 104 paesi diversi.
Anche in Italia non c’è molta documentazione ufficiale, e quel poco che c’è esiste grazie alle associazioni che lavorano sul territorio, che però non riescono ad avere un quadro complessivo. Molti richiedenti asilo arrivano dal Gambia, dove il dittatore Yahya Jammeh aveva dichiarato pubblicamente che avrebbe ucciso tutti gli omosessuali; o dal Senegal, che ha una normativa penale molto punitiva; qualcuno dall’Egitto, dove non c’è un vero e proprio reato ma vengono applicate altre normative generiche, come l’offesa alla religione, per incriminare omosessuali, tra retate e arresti di massa. Giorgio Dell’Amico, responsabile Immigrazione per Arcigay, racconta che chi si rivolge ai gruppi attivi in varie città italiane viene da paesi mediorientali, africani, sudamericani, asiatici e non necessariamente musulmani. La casistica tra l’altro si concentra su maschi gay, escludendo lesbiche, transessuali o intersessuali.
Costretti a fuggire per non passare il resto della loro vita – nella migliore delle ipotesi – in clandestinità o in carcere, i richiedenti asilo e rifugiati Lgbti spesso si trovano nei paesi d’arrivo ad affrontare insieme discriminazioni xenofobe e omo-transfobiche: guardati con sospetto sia dalle comunità ospitanti che da quelle di origine, vivono una sorta di doppio stigma, a cui si aggiunge l’impreparazione delle istituzioni.
Le difficoltà nella richiesta d’asilo
Secondo la Convenzione ONU di Ginevra del 1951, può ottenere lo status di rifugiato chiunque si trovi al di fuori dal proprio paese e abbia il “giustificato timore” di essere perseguitato per “motivi di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche”. Nella definizione di “gruppo sociale” la Direttiva Qualifiche UE ha specificato che rientra anche l’orientamento sessuale – una prassi rinforzata da giurisprudenza europea e nazionale.
Nonostante la legge li consideri potenziali destinatari di protezione internazionale, per i richiedenti asilo Lgbti le cose non sono così semplici. I primi problemi sorgono proprio nell’incontro con le Commissioni territoriali incaricate di valutare le domande, molte volte non attrezzate per affrontare quelli che vengono definiti SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity) claims.
“La difficoltà per le commissioni sta nel ritenere attendibili le dichiarazioni di una persona che si ritiene perseguitata per l’orientamento sessuale”, spiega Livio Neri, avvocato di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), secondo cui a volte “il modo in cui viene condotta l’indagine è un po’ rozzo”, anche se si tratta di un tema delicato.
Durante l’audizione, ad esempio, vengono chiesti molti dettagli che mettono in imbarazzo o in difficoltà i richiedenti asilo, o poste domande che denotano una scarsa conoscenza delle culture dei paesi di provenienza. “Pretendono una presa di coscienza dell’orientamento sessuale che in alcuni casi può esserci, ma nella maggior parte no”, spiega Neri. “Se chiedi a un qualsiasi ragazzo africano di 21 anni se voglia sposarsi e avere figli, ti risponderà di sì, a prescindere se sia omosessuale o meno, perché lo considera scontato e pensa che questo significhi dire ‘sono una brava persona’. Non immagina che potrebbe essere considerato incompatibile con l’orientamento sessuale dichiarato”.
Fino a pochi anni fa, come ha rilevato Fleeing Homophobia, in molti stati europei nell’esame delle richieste d’asilo di persone Lgbti erano diffuse prassi al di sotto degli standard richiesti dalle norme internazionali sui diritti umani – ad esempio test fallometrici, o la visione di immagini pornografiche gay o lesbiche per valutarne la reazione. L’esame veniva poi basato su stereotipi: uomini omosessuali poco “effeminati” erano respinti, così come chi era stato precedentemente sposato con una persona dell’altro sesso.
In Italia queste pratiche non sono mai state utilizzate, ma c’è ancora un bel po’ di strada da fare. “Spesso capita che in commissione o in tribunale venga chiesta la prova di una relazione o l’appartenenza a qualche associazione. Per molte di queste persone, però, rimane un tabù anche rispetto a se stessi il fatto di dichiararsi apertamente gay”, spiega Neri, che racconta che uno degli errori che maggiormente si riscontrano in commissione è il fatto che si chieda a bruciapelo al richiedente asilo se sia o meno omosessuale. “Pensiamo – prosegue – a una persona proveniente da un paese come il Gambia, dove rischiava la morte: sbarca a Lampedusa e gli chiedono se è omosessuale, cosa risponderà? Un conto è raccontare con fatica di proprie esperienze di relazioni omosessuali, un altro è definirsi tale”.
Sui criteri da seguire per l’accertamento dell’orientamento sessuale si sono espresse alcune sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, che hanno richiesto particolare cautela in questi casi e l’esclusione di tecniche giudicate invasive. Anche l’UNHCR è intervenuta, pubblicando nel 2012 delle Linee guida in materia di protezione internazionale dedicate ai SOGI claims, che mettono al bando domande troppo intime o pratiche lesive della dignità.
Tutte queste difficoltà mostrano come il caso dei richiedenti asilo che si fingono omosessuali per essere agevolati nell’iter dell’asilo – sollevato da alcuni giornali italiani – sia piuttosto gonfiato. “È un elemento che esiste, non lo nego, ma non è così generalizzato. Anzi, forse è minoritario perché definirsi gay è più stigmatizzante”, spiega Dell’Amico.
Il doppio stigma dei rifugiati Lgbti & le iniziative di accoglienza dedicate
I richiedenti asilo Lgbti devono affrontare una doppia discriminazione: quella dovuta alla loro condizione di migranti, e quella relativa alla loro identità sessuale. “I rapporti con i connazionali o con gli altri ospiti dei centri talvolta sono un problema – spiega Neri – Anche quando viene suggerito il contatto con associazioni che potrebbero dare una mano, gli stessi richiedenti asilo Lgbti fanno capire che finché si trovano nel centro escludono di fare qualsiasi cosa in quel senso, per paura di essere scoperti dalle altre persone accolte”.
Secondo il rapporto globale dell’UNCHR sul tema, i richiedenti asilo e rifugiati Lgbti sono soggetti “a una forte esclusione sociale” e a violenze nei paesi d’arrivo, perpetrate “sia dalla comunità ospitante, che da quella più ampia degli altri richiedenti asilo e rifugiati”. Il documento ha rilevato come il livello di accettazione delle persone Lgbti sia “molto basso nei centri d’accoglienza”, e lo sia ancora di più in accampamenti o tendopoli.
Per far fronte a questo tipo di problemi, recentemente a Berlino è stato aperto un centro d’accoglienza per richiedenti asilo omosessuali, transessuali e bisessuali, promosso dall’associazione Schwulenberatung, che potrà ospitare un centinaio di persone. Il responsabile del progetto ha spiegato che il rifugio serve a contrastare violenze e discriminazioni che si verificavano nei centri: circa 95 aggressioni tra settembre e dicembre 2015, la maggior parte per mano di altri migranti.
In Italia una struttura analoga avrebbe dovuto aprire in primavera a Bologna, promossa dal Movimento identità transessuale (Mit), che negli ultimi anni ha seguito diversi migranti Lgbti che hanno denunciato discriminazioni e violenze nei centri d’accoglienza. Il progetto, “Rise The Difference”, al momento risulta bloccato, perché destinatario dei fondi del bando di UNAR sospeso dopo il servizio della trasmissione Le Iene – nonostante ci fosse già un accordo con l’associazione Mediterranean Hope per attivare un corridoio umanitario e far venire dal Libano due persone arrestate perché transessuali. Nel capoluogo emiliano opera anche MigraBo, realtà costituita nel 2012 da una rete di associazioni con lo scopo di aiutare persone Lgbti nella presentazione della richiesta d’asilo e nel percorso in Italia.
Il problema dell’integrazione nel caso dei richiedenti asilo Lgbti richiede uno sforzo doppio, considerato anche che la comunità omosessuale non è immune da episodi di razzismo o diffidenza. Dell’Amico spiega che l’attività di Arcigay sui migranti è nata proprio da una ricerca sulle “discriminazioni multiple”: essere discriminati in quanto gay dalla comunità, ed essere discriminati in quanto stranieri dai gay. “Questo – aggiunge – è sicuramente un tema sul quale non si è ancora fatto abbastanza. Molti ragazzi hanno difficoltà e manca quello che accade in altri gruppi. Mi spiego: un richiedente asilo gay nigeriano difficilmente riuscirà a trovare supporto nella sua comunità d’origine, ma dall’altro lato spesso non verrà ben visto neanche dalla comunità gay”. Il risultato è una condizione di isolamento.
Per romperla, secondo Dell’Amico, il primo passo è quello di “partire dalle associazioni: provare ad avere punti di riferimento in tutta Italia, sensibilizzare sul tema. Ovviamente l’associazionismo gay non è rappresentativo di tutto il mondo omosessuale, ma introdurre ragazzi stranieri nelle comunità presenti è un modo per iniziare”. La seconda questione riguarda gli operatori dei centri, che vanno formati e a cui vanno dati gli strumenti per affrontare le difficoltà che incontrano queste persone, tra cui la discriminazione da parte degli altri migranti.
Infine, non è sbagliato pensare a strutture dedicate – non ghetti, ma luoghi sicuri per persone in cerca di protezione. A Modena, aggiunge Dell’Amico, Arcigay inaugurerà un appartamento per richiedenti asilo Lgbti: “L’idea è di riservare una parte di posti a loro, e altri a ragazzi italiani omosessuali magari cacciati dalle famiglie. Vogliamo mettere in relazione italiani e stranieri e problematiche diverse, perché l’omofobia esiste nel mondo, ma anche in Italia”.
Foto di copertina: Wikimedia Commons.