“L’unica cosa che mi ha dato la forza di sopportare 7 ingiusti anni di carcere è stato pensare alla giustizia che avrei cercato una volta uscito, voglio far sentire la mia voce anche se mi prende tutto il resto della vita” dice Alaji Diouf, 34 anni di origine senegalese arrivato in Italia nell’Ottobre del 2015. Dopo l’accusa di scafismo aggravato che l’ha costretto in carcere, oggi tenta la revisione del giudizio insieme all’associazione Baobab Experience che lancia una campagna ad hoc “Capitani Coraggiosi”. Questo processo è già storico: nessuno prima in Italia aveva mai provato a contestare l’accusa di scafismo e il caso di Alaji riporta il dibattito sulla questione. “La campagna Capitani Coraggiosi nasce con un triplice intento: sensibilizzare, tentare la revisione della condanna di Alaji e far modificare l’Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione che regola il traffico di esseri umani”, spiega Alice Basiglini, vice presidente di Baobab e responsabile dell’iniziativa.
Un falso soccorso
Ma come arriva una persona innocente in carcere? Il percorso di Alaji parte dal Senegal, la sua terra natale. Da lì si sposta per arrivare in Europa, attraversando le zone desertiche del Mali e del Burkina Faso, “ma il viaggio in mare è stato ancora più duro. Sono rimasto in piedi tutto il tempo, non c’era spazio” spiega il giovane, che nella notte tra il 18 e 19 ottobre di nove anni fa arriva sulle coste italiane in un’imbarcazione con altre 120 persone. Il sovraffollamento infatti causerà la rottura degli assi di legno e la morte di otto persone per asfissia. Due unità della Marina Militare e una di Msf riescono a soccorrere un totale di 633 persone, tra cui Alaji.
Una volta approdati, un uomo che non aveva viaggiato sullo stesso gommone di Alaji, né tantomeno lo conosceva, punta il dito verso di lui, pare su richiesta delle forze dell’ordine. Un gesto sufficiente per riconoscerlo come la persona che ha guidato l’imbarcazione, il cosiddetto scafista. Quel dito, tradotto a livello giuridico, costa ad Alaji l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina (Art. 12 del Testo Unico sull’Immigrazione). Nel suo caso sarà aggravata sia per la morte delle persone, che per i “fini di profitto”. Quando viene chiamato, nello scambio di parole in italiano tra i presenti, Alaji non è consapevole e segue gli ufficiali “credevo mi portassero in bagno – ricorda – ho riconosciuto dei ragazzi che avevo incontrato in Libia e pensavo di stare nel posto giusto”. “Poi è arrivata una signora che parla francese, inglese e arabo. Dopo, anche un mediatore della lingua wolof, che comunque non è la mia”. L’idioma di Alaji infatti è il mandinga e le figure che gli parlano lo stanno interrogando. Del poco che riesce a comprendere in wolof risponde “no” quando gli viene chiesto se ha guidato il gommone. Ma il suo diritto alla difesa è comunque compromesso. “Se avessi parlato italiano non sarei finito in carcere”, commenta il giovane che oggi lavora come piastrellista per giardini.
I metodi d’identificazione dello “scafista”, indicati nel manuale di Operazione Sophia di Frontex del 2017, sono vaghi, come guardare se la persona è “eccessivamente educata e collaborativa, oppure se dimostra segnali di essere nervoso e scomodo”. Il metodo principale rimane attraverso l’uso di testimoni, come nel caso di Alaji. Un ex Capitano della Guardia Costiera racconta ad Arci Porco Rosso, circolo antirazzista attivo a Palermo, che la parola d’ordine in quei casi è “trovate un colpevole”. Alaji, nonostante abbia paura del mare, viene così condannato per scafismo con rito abbreviato (senza ascoltare altri testimoni). Nella sentenza lui e gli altri condannati saranno definiti dei “disgraziati”. “Questo passo è una singolare anomalia – dice Francesco Romeo, avvocato del giovane – sono stati condannati per aver agito a scopo di profitto e non si capisce come mai, essendo dei disgraziati, dei poveracci, dove c’è stato questo profitto”.
L’angolo buio della figura dello scafista
Alaji, come molte delle altre 3mila persone fermate negli ultimi otto anni, secondo i dati raccolti da Arci Porco Rosso nel report “Dal mare al carcere”, è stato riconosciuto come uno scafista, una figura che viene equiparata al trafficante di esseri umani. Gli esperti, come Basiglini, sottolineano la differenza tra le due: “Le persone che guidano l’imbarcazione non hanno nulla a che vedere con la criminalità organizzata. Sono persone che sono state costrette dalle stesse milizie, dagli stessi trafficanti a guidare sotto violenza, minaccia e ricatto, oppure che attraverso la disponibilità a guidare l’imbarcazione ottengono il viaggio gratis, se non possono permetterselo”. Una confusione che trova le sue radici nell’art 12 del TUI che la campagna Capitani Coraggiosi propone di modificare. Guardando l’articolo non si trova nessuna differenza tra i trafficanti e chiunque abbia favorito in modo indiretto l’arrivo di persone sul territorio nazionale. Un errore che porta l’Italia ad identificare uno scafista ogni trecento persone sbarcate secondo Arci Porco Rosso, ma anche ad accusare Baobab di traffico illecito per aver pagato il biglietto dell’autobus a 9 migranti arrivati in Italia. Effetti sproporzionati che portano molti a sostenere che il concetto stesso andrebbe ripensato. “Vogliamo modificarlo ma la modifica sarebbe così radicale che si può chiamare abrogazione” dice Basiglini.
“Una figura polisemica”. Così Romeo definisce lo scafista: “Ha molti aspetti. Da un lato è un nemico pubblico perché nell’immaginario collettivo lo scafista sfrutta i passeggeri, allo stesso tempo è un capro espiatorio, perché è colui o coloro sui quali ricadono tutte le responsabilità”. Lo scafista diventa così il responsabile dell’intero viaggio delle persone che entrano nei confini italiani, un capro espiatorio “da cercare in tutto il globo terracqueo” secondo la Premier Meloni.
In carcere
In questo malfunzionante sistema di identificazioni e accuse, Alaji è colpevole per la legge italiana. Glielo comunica Bakari, un altro ragazzo accusato che parla inglese e gli traduce la notizia. “Venire a conoscenza di questo è stato orribile. Non sapevo come difendermi, che strumenti usare per far capire a queste persone che sono innocente – ricorda Alaji – ho visto diventare realtà tutto ciò a cui non potevo credere”. Il giovane una volta in carcere prova a manifestare lo stato d’ingiustizia. “Mi sono levato tutti i vestiti nel cortile, volevo mettermi a nudo, per dirgli ‘se mi potete sparare, fatelo. Basta che non rimango qui’. Mi hanno calmato poi, non so neanche con cosa”. Non c’è via d’uscita dal carcere per il giovane per quasi 7 anni, di cui per i primi due non gli è permesso il contatto con nessuno all’esterno. “Un giorno volevo chiamarli per fargli sapere che ero vivo, mi hanno chiesto dei soldi, ero frustrato. Ho provato a togliermi la vita con dell’olio bollente”, una sorte da cui l’amico Bakari lo salva, e non sarà l’unica. L’amico, che parla inglese, lo aiuta anche a spiegare la situazione agli altri detenuti. Questi scrivono una lettera in italiano per aiutarlo a comunicare nei tribunali. Un diritto alla difesa che tenta di acquisire in ogni modo, ma che continua ad essergli negato. “Non prendevano la lettera neanche in considerazione, poi mi hanno proprio impedito di portarla con me”, ricorda.
Ribaltare la storia
Negli anni di carcere, la rabbia che si accumula in Alaji si trasforma in un ardente desiderio di giustizia, che ricerca fin da subito. “Quando esce dal carcere e si rivolge a noi non aveva solo un decreto di espulsione dal Paese, ma anche una grande cartella. In quegli anni infatti aveva raccolto tutti i documenti – racconta Basiglini – e quasi subito ci spiega di averli tenuti nella speranza di usarli per provare la verità”. Ora con l’aiuto di Baobab e l’avvocato Francesco Romeo tenta una revisione della sentenza alla Corte d’Appello di Potenza. “Dobbiamo fare un’indagine al contrario di quella che fa la polizia. Mettere insieme le condizioni meteorologiche di quei giorni, gli orari, le distanze, altri testimoni” spiega l’avvocato impegnato a ricostruire i fatti dalla scorsa estate.
Baobab chiede così alla Questura e al Prefetto di Taranto un elenco delle persone sbarcate e dei rispettivi centri di accoglienza. La Prefettura di Taranto a luglio replica che la richiesta è «poco efficace» in luce degli otto anni trascorsi dall’evento. Dopo un ulteriore passaggio con il Garante per la Privacy e l’avvocatura Distrettuale di Lecce in merito alle corrette modalità di condivisione della lista richiesta dall’Ong, accade l’inaspettato: i documenti non esistono più. La Prefettura risponde che «a seguito di ripetute ricerche anche negli archivi di deposito di questa Prefettura, non sono stati rinvenuti gli atti relativi allo sbarco di migranti avvenuto a Taranto in data 20/10/2015». Tuttavia, non ci sono tracce di sparizione di quei documenti nella data dello sbarco. “Questo è un impedimento al diritto di difesa” sostiene Romeo. In ogni modo, le ricerche continuano. “Dopo il lancio della campagna qualcuno che ha fatto quel viaggio si è messo in contatto con noi e adesso stiamo cercando di tirare questo filo per vedere dove ci porta” aggiunge.
Una revisione favorevole comporterebbe l’annullamento della sentenza di condanna e quindi la proclamazione di innocenza e il risarcimento del danno subito. Ma soprattutto“sarebbe un precedente importante per sensibilizzare sulla figura dello scafista, e mostrare come questa sia costruita a tavolino” dice Romeo.
Immagine di copertina di Federica Rossi