L’estate 2017 è passata alla storia come l’inizio dello scontro giudiziario sui salvataggi in mare. La guerra di logoramento cominciata sul piano politico con la campagna di disinformazione sulle Ong si è trasferita nelle procure siciliane – in particolare a Catania – e al Viminale, dove è stato stilato il codice di condotta, strumento che nei fatti ha ridotto la presenza delle navi non governative a largo della Libia.
L’estate 2018 invece sarà ricordata come quella delle “nuove prassi in mare”: il ministro dell’Interno Matteo Salvini dice che ora le navi delle Ong “vedranno l’Italia solo in cartolina”. Per quanto questa possa sembrare una situazione inedita, si tratta piuttosto di un déjà vu, un giro all’indietro di almeno tre anni nelle lancette della recente storia europea. Che desta preoccupazione soprattutto fra gli armatori privati.
I dubbi sull’operazione di salvataggio di Asso Ventotto
Il 30 luglio è la prima volta che una nave italiana viene coordinata dalla centrale operativa libica (Lyjrcc) per riportare un gruppo di migranti a Tripoli. L’inizio delle operazioni si svolge a 57 miglia nautiche da Tripoli, in piene acque internazionali. Le coordinate corrispondono all’incirca a quelle della piattaforma petrolifera Sabratha, tra le più grandi a largo del Mar Libico. È gestita dalla Mellitah Oil & Gas, joint venture al 50 per cento tra Eni e NOC, la compagnia petrolifera libica. Asso Ventotto, imbarcazione di supporto alla piattaforma, è operata dalla società italiana Augusta Offshore Spa di Napoli. Di solito fa la spola fra la terraferma e la piattaforma Sabratha. Alle 15.30 il Marine Department di Sabratha la avverte della presenza di un gommone in difficoltà a 1,5 miglia a sud della piattaforma. Stazionando da tre giorni intorno alla piattaforma, viene interpellata in quanto imbarcazione più vicina.
“Marine Department” è un nome nuovo nel panorama libico: per quanto è possibile verificare, sembra una sorta di Capitaneria di Porto della Guardia costiera locale. È comunque un’autorità di piccole dimensioni: “a Sabratha ci sono solo piccoli porti usati da pescatori e trafficanti con imbarcazioni al massimo di 12 metri. Nessuno di questi è gestito da alcuna autorità”, ci spiega il Media Center di Sabratha, un’agenzia locale di stampa che produce video.
Questa Capitaneria di porto è l’unica autorità libica citata chiaramente nella ricostruzione del salvataggio diffusa in una nota stampa da Augusta Offshore. Secondo l’avvocato Francesco Del Freo, il modello di centro di coordinamento delle operazioni in mare libico non sarà con una centrale unica come accade per l’Italia. Ci sono paesi in cui il coordinamento è gestito da singole capitanerie di porto oppure da singole navi. Sarà anche il caso della Libia. In questo caso la regia è toccata a Sabratha.
A bordo di Asso Ventotto – spiega nel suo comunicato Augusta Offshore spa – c’è anche un “rappresentante dell’Authority libica”. Non è stato possibile contattare l’armatore per ottenere maggiori informazioni, ma l’ipotesi – visto che probabilmente si tratta di personale libico che sta anche a bordo della piattaforma petrolifera – è che si tratti di funzionari vicini al governo di Fayez al-Serraj. Alle 16.30, prosegue la cronaca della società armatrice italiana, Asso Ventotto ha completato l’operazione di salvataggio: i naufraghi recuperati sono 101 migranti, fra i quali cinque donne incinte e cinque bambini.
A quel punto, sempre secondo Augusta Offshore, il funzionario libico a bordo indica al capitano di Asso Ventotto di fare rotta verso Tripoli. Non c’è una comunicazione radio: altro caso fuori dalla prassi abituale. La versione del comunicato di Augusta Offshore è però diversa da quella di Nicola Fratoianni, parlamentare che in quei giorni si trovava a bordo della nave dell’Ong spagnola Open Arms. “A domanda esplicita fatta da Open Arms via radio per sapere chi avesse dato l’ordine di portare i migranti in Libia”, dice, Asso Ventotto ha risposto subito che l’ordine è arrivato prima dai libici e poi dalla piattaforma.
Quindici minuti dopo – sono le 16.45 – Asso Ventotto viene scortata da una motovedetta della Guardia costiera all’uscita del porto di Tripoli, dove entra alle 21. Cominciano le operazioni di trasbordo, prima su un “battello” della Guardia costiera, poi alle 22.10 la nave ormeggia ad Abu Sittha (o Abu Setta), a Tripoli, sede della base marittima della Marina.
Armatori e mercantili: i testimoni “invisibili” del Mediterraneo
Nessuno ha assistito a quanto successo ad Asso Ventotto. Dalla nave Open Arms è stato solo segnalato – via Twitter – che qualcosa stava succedendo, utilizzando le informazioni radiodiffuse dalla stessa Asso Ventotto (tra cui quella, errata, di 108 migranti salvati in un primo tempo, poi corretto a 101). Ma l’Ong spagnola non si trovava sul posto.
Questo non è l’unico caso in cui le navi di armatori privati sono rimaste sole in mare durante operazioni di soccorso. C’è il salvataggio della nave Vos Thalassa (dell’armatore olandese Vroon Offshore), che poche settimane prima chiama la Guardia costiera italiana parlando di “ammutinamento” a bordo da parte dei migranti e di rischi per la sicurezza dell’equipaggio, salvo poi ridimensionare l’accaduto nei giorni successivi; c’è la presunta omissione di soccorso da parte della Triades, mercantile della società Newport SA; e infine il blocco per giorni di fronte a Pozzallo, con 108 naufraghi a bordo, della Alexander Maersk, in forza alla flotta dei danesi di Maersk Line.
Sono i quattro esempi più recenti di cosa accade quando i principali canali commerciali si sovrappongono alle rotte migratorie più letali del pianeta. Ora gli armatori privati sono rimasti loro malgrado gli unici e ultimi testimoni, strozzati fra il conflitto tra gli obblighi morali e legali del soccorso in mare, le politiche italiane ed europee di chiusura dei confini ed esternalizzazione delle frontiere, e la difesa del proprio legittimo interesse economico che li porta a operare nel Mediterraneo per fare affari, non per salvare vite umane.
“L’industria navale è largamente ignorata come attore nelle risposte politiche dell’Unione”, scrive già nell’ottobre 2015 la ricercatrice danese Åsne Kalland Aarstad in un lungo articolo scientifico pubblicato dalla rivista “Mediterranean Politics”, dal titolo “L’obbligo di aiutare e i suoi disincentivi: l’industria di navigazione e la crisi migratoria nel Mediterraneo”.
Aarstad, citando numeri e dichiarazioni, definisce “invisibile” il ruolo dell’industria navale, nonostante i 42 mila migranti salvati dai mercantili nel solo 2014. Il mancato riconoscimento del ruolo ricoperto nei soccorsi e delle esigenze che comporta ha portato ripercussioni sul piano economico e su quello della sicurezza per molte navi commerciali, argomenta Åsne Kalland Aarstad, tanto che è diventata diffusa la pratica del re-routing, il cambiamento delle rotte per evitare eventi Sar. Inoltre, ha spinto gli armatori privati ad accogliere le iniziative europee con scetticismo, come nel caso dell’operazione Sophia. Lo confermano le dichiarazioni di Dimitrios Banas, che all’epoca dell’articolo di Aarstad era portavoce della European Community Shipowner’s Association (Ecsa): “Il 99 per cento dei parlamentari europei che incontriamo ha solo un’idea limitata del ruolo svolto dall’industria navale nella crisi migratoria”.
L’articolo della ricercatrice si chiude con una lunga riflessione che sembra scritta in queste settimane, e non nel 2015: “Tutti i capitani sono costantemente sotto pressione per guidare la nave da un porto all’altro entro i tempi stabiliti. Dal punto di vista della navigazione commerciale, il dovere di prestare assistenza è nello stesso tempo un obbligo morale e legale, e una massiccia sfida commerciale e di sicurezza per il capitano, l’equipaggio e il proprietario della nave. Sebbene alcune delle spese derivanti dalle operazioni di salvataggio possano essere recuperate attraverso l’assicurazione della compagnia, la maggior parte dei costi sono a carico degli armatori stessi. Inoltre, rischi per la sicurezza possono facilmente verificarsi quando un gran numero di migranti viene imbarcato su navi che sono mal equipaggiate per gestirli. Sulle navi commerciali i marinai sono raramente addestrati per effettuare operazioni di salvataggio di massa. E allo stesso tempo, le loro navi non sono nemmeno attrezzate per il soccorso di centinaia di migranti in difficoltà, che richiedono cibo, acqua e cure mediche. Inoltre, ci sono state segnalazioni di tensioni violente tra migranti e trafficanti che sono stati salvati nella stessa operazione, e alcune navi hanno denunciato minacce di violenza da parte di migranti che temono di essere trasportati in un porto non sicuro”.
Pur con le dovute sfumature, sono le stesse dinamiche che nel 2018 hanno coinvolto Asso 28 (respingimento in Libia), Vos Thalassa (presunto “ammutinamento” dei migranti), Alexander Maersk (blocco delle nave con perdite economiche) e Triades (presunta omissione di soccorso).
Anche gli armatori hanno bisogno delle Ong
La politica degli “zero sbarchi” e del “mai più le Ong in Italia” non combacia con le esigenze degli armatori, perché scarica le responsabilità giuridiche e l’onere dei soccorsi solo sulle loro spalle. Questa presa di posizione è difficile che venga fatta pubblicamente dalle compagnie armatrici, ma l’Agenzia di stampa Redattore sociale ha citato le conversazioni di un armatore che nel 2017 – a campagna contro le Ong iniziata già da tempo – si schierava apertamente a favore della loro presenza in mare, e lamentava il numero di soccorsi in cui sono dovute intervenire le navi della sua compagnia, anche in condizioni molto difficili per l’equipaggio. Nella conversazione si ricorda che un’imbarcazione che batte bandiera italiana non può “assolutamente esimersi dalle richieste della Guardia costiera italiana, pena conseguenze severissime”. “Così non si poteva continuare”, dice ancora l’armatore, “per fortuna dal 2015 in poi il nostro coinvolgimento è diminuito, anche grazie alle attività delle Ong”. Lo confermano i numeri: nel 2014 i mercantili sono intervenuti nel 25 per cento dei salvataggi, tre anni dopo nel 7 per cento.
L’anonimo armatore tradisce fastidio per alcune scelte dei governi italiani e dell’allora ministro Marco Minniti: “fino a qualche tempo fa, la sinergia fra mezzi pubblici e Ong, coi mercantili come estrema ratio, garantiva un sistema di ricerca e soccorso adeguato: non discuto la volontà di regolamentare le attività delle Ong, ma per noi è un rischio”. Asso Ventotto l’ha dovuto correre, il 30 luglio. Il primo effetto è stata una pioggia di critiche per aver collaborato a un presunto respingimento collettivo verso un “porto non sicuro”. Per questo l’azienda armatrice ha deciso di ricordare nella sua nota i 23.750 migranti soccorsi dalle sue navi in sei anni, dal 2012 a oggi, in 262 distinte operazioni Sar che sono costate alla società 137 giornate di interruzione delle normali operazioni commerciali. È la prima volta che un armatore “quantifica” le operazioni di soccorso in termini economici.
Il nuovo contesto degli sbarchi
I numeri indicano in ogni caso con chiarezza che in Europa si arriva sempre meno. A luglio, come ricorda il ricercatore di Ispi Matteo Villa, l’hanno raggiunta solo 687 migranti sui 3051 che sono partiti (e un anno fa erano quasi il triplo). Il 22 per cento del totale. Il 72 per cento è stato riportato in Libia dalla Guardia costiera locale. Formalmente questo è stato possibile grazie all’istituzione della zona di Search and rescue sotto responsabilità della Libia e di un Lyjrcc che ne coordina le operazioni.
Ma la strategia oggi è che all’interno della Search and Rescue Region (Srr) libica intervengono solo le navi della Guardia costiera locale o altre imbarcazioni disposte a cedere loro i migranti. Altrimenti una nave che ha effettuato un soccorso rischia di vagare per giorni in attesa dell’assegnazione di un porto sicuro, come accaduto a Open Arms e ad Aquarius. Questo nuovo scenario provoca effetti devastanti: a luglio il 5,1 per cento dei migranti è morto nella traversata. È una percentuale leggermente più bassa rispetto a giugno 2018, quando aveva raggiunto il 6,4 per cento (una persona ogni 16), la più alta da quando si tiene conto di questa statistica. La strategia degli “sbarchi zero”, infatti, cinicamente usa la morte in mare come deterrente per le partenze.
Questa situazione si stabilizzerà? Il Lyjrcc sarà davvero l’autorità competente per i salvataggi? La sua affidabilità, al momento, è ancora molto incerta. Sul diario di bordo delle operazioni di salvataggio di Aquarius dell’11 agosto si leggono le conversazioni fra l’equipaggio e Tripoli tra le 14.15 e le 21.24. Aquarius è protagonista di due operazioni di salvataggio nella Srr libica e chiede a Tripoli di essere coordinata e di avere l’assegnazione di un porto sicuro. Risultato: alle 15.51 Tripoli risponde in un inglese un po’ sbrigativo: “come autorità di coordinamento vi diamo ordini per il porto sicuro: chiamate un altro Mrcc e fate richiesta di un porto sicuro”. Una situazione in cui nessun armatore privato vorrebbe trovarsi.
In copertina: i tracciati di Marine Traffic che mostrano la rotta della Asso Ventotto fra il 27 e il 30 luglio 2018