“Dammi solo due minuti, poi iniziamo”. Le gambe di Asif non riescono a smettere di tremare, la temperatura oggi è scesa sotto i quindici gradi. Tra stasera e domani forse riuscirà ad avere una giacca, nel frattempo si scusa, quasi fosse colpa sua, di non riuscire neanche a parlare. Nella lunga distesa di terra, dietro la stazione degli autobus c’è solo neve e ghiaccio. Vivono qui, in alcuni enormi stabili abbandonati, circa 1700 migranti in transito, bloccati sulla rotta balcanica dalla stretta sui confini, iniziata a partire dall’estate scorsa. Belgrado, la città bianca, è diventata così, la loro ultima frontiera: avanti non si può andare, indietro nessuno vuole tornare.
Il blocco della rotta balcanica
Secondo l’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sono oltre 7000 i migranti, i rifugiati e i richiedenti asilo in Serbia (dato aggiornato a dicembre 2016). Di questi l’81 per cento è in un centro d’accoglienza governativo. La maggior parte della altre duemila persone fuori accoglienza vive in questo enorme campo informale. Senza riscaldamento, senza servizi igienici, senza assistenza. La maggior parte arriva dall’Afghanistan ma ci sono anche pakistani, iracheni. Sono tutti uomini e giovanissimi, tra i 16 e i 22 anni. Tanti sono minori arrivati qui da soli attraverso la rotta via terra che passa per la Turchia, la Bulgaria e finisce ormai in Serbia. Sono pochi, infatti, quelli che riescono a oltrepassarla, per raggiungere il nord Europa: Francia, Germania o Norvegia. Chi ci prova rischia di esser rimandato in Bulgaria, secondo quanto prevede il regolamento di Dublino, o addirittura di essere espulso nel paese d’origine. Nel 2015 secondo il dossier della Caritas La rotta dei Balcani oltre 850mila persone, risalendo dalla, Grecia, sono passate per la Macedonia, la Serbia, la Croazia, la Slovenia e l’Ungheria. E così in molti hanno deciso di aspettare, anche se il freddo non dà tregua. convinti che prima o poi la rotta riprenderà il suo corso, come un anno fa.
Storie dal campo di Belgrado
Proprio come Asif che nel suo paese faceva l’interprete. “Ho lasciato l’Afghanistan perché la mia vita lì era ormai diventata impossibile, ma neanche questa è vita. Non abbiamo servizi di nessun genere qui, non abbiamo niente. Nessuno pensa a noi. Non esistono più i diritti umani?” mi chiede. Per Asif è incomprensibile che non si possa lasciare Belgrado: “nessuno di noi vuole stare qui, le autorità non ci vogliono aiutare, non capisco perché non ci fanno andare via. Ci stiamo ammalando in questo posto infernale, avremmo bisogno di poterci fare una doccia, di avere assistenza medica, ma tutto questo ci è negato”.
Per scongiurare la creazione di centri informali per transitanti, il governo serbo ha detto chiaramente che le persone fuori dai centri governativi non devono essere assistite, spiega Andrea Contenta di Medici senza frontiere Serbia, una delle pochissime organizzazioni che si è attivata a supporto dei migranti in transito di Belgrado. Lo incontriamo mentre alcuni volontari stanno distribuendo coperte a una fila di persone, di cui è difficile vedere la fine. “Questi stabili sono stati occupati verso la fine di agosto da persone arrivate diversi mesi fa – spiega -. Alcuni non vogliono andare nei campi, altri hanno provato a raggiungerli ma la maggior parte dei centri governativi in Serbia sono pieni: stanno ospitando persone oltre il 110 per cento e il 200 per cento della loro capacità massima”. L’ong ha anche allestito nel vicino parco della stazione una clinica mobile dove quotidianamente visita i migranti “tantissimi soffrono di malattie cutanee come la scabbia ma anche di parassiti della pelle e dei capelli – aggiunge – noi li incontriamo tutti i giorni e negli ultimi mesi abbiamo visto un aumento consistente delle patologie, soprattutto del tratto respiratorio”. Le condizioni igieniche all’interno “sono totalmente precarie, disumane e inaccettabili – spiega Contenta- . Dalla fine dell’estate abbiamo iniziato a fare appelli e provato in ogni modo a contattare le autorità nazionali, dal ministero della salute fino al municipio e al comune di Belgrado, volevamo chiedere l’autorizzazione a installare almeno bagni e docce e portare così un servizio minimo a queste persone. Ci è stato sempre rifiutato, quindi ora ci sono 1700 persone senza bagni, senza acqua corrente, senza niente. Di fatto sono da mesi bloccati qui. E così la Serbia, sempre descritta come esempio della gestione della migrazione nei Balcani, rischia di diventare una nuova Calais”.
Farhood, un ragazzo di sedici anni mi invita ad entrare nella sua “stanza”: un pezzo dell’edificio senza finestre, dove sono accantonati in un angolo cumuli di immondizia. Anche quella serve, infatti, per scaldarsi. Dentro il grande stabile centrale l’aria è irrespirabile, si brucia di tutto: le vecchie travi della ferrovia, pezzi di legno rimediati da qualche parte, plastica. “È troppo difficile stare qui, non ce la facciamo più”, ripete. Vorrebbe andare in Francia, dove vive suo fratello: “qui è inutile restare, non c’è lavoro, lì avrei almeno lui che mi aiuta”. Negli stanzoni non c’è alcuna divisione, i più fortunati hanno una tendina da campeggio dove dormire, o si sono ritagliati uno spazio con alcuni cartoni messi in circolo, gli altri dormono ammassati negli angoli più riparati da cui non arriva il vento gelido che filtra dalle finestre rotte. Un ragazzo, sdraiato in un angolo tossisce e ansima, ha la febbre. Poco più in là qualcuno ha sistemato un tappeto per la preghiera quotidiana, che scandisce la routine di una situazione totalmente fuori dall’ordinario.
Per lavarsi ognuno si arrangia come può: c’è chi fa il bagno in vecchi barili abbandonati nella vicina zona industriale. Chi con una bottiglia d’acqua, riempita non si sa dove, cerca almeno di sciacquarsi la faccia, chi scioglie il ghiaccio della neve per potersi lavare i denti. Al pasto, l’unico al giorno, pensano i volontari. Sono i ragazzi di Hot food Idomeni, gli stessi che si erano attivati durante la crisi dei rifugiati al confine con la Macedonia. Cucinano una zuppa di verdura e legumi, la chorba, e la servono bollente con un po’ di pane. Oltre che per il sostentamento, deve servire anche a riscaldare. Ordinati di nuovo in una lunga fila, stavolta imbiancata, ognuno aspetta il suo turno. Quando torniamo, il giorno dopo, la temperatura si è alzata e ha iniziato a nevicare. Bilal, avvolto in una coperta grigia, prende la sua porzione e si accovaccia a terra per la fretta di mangiare, in mezzo ai piccioni che elemosinano gli scarti del pranzo.
“Sono di Chicago e sono venuta in Europa per viaggiare – racconta Nina Darner, una delle volontarie.- In Grecia ho incontrato questo gruppo di ragazzi che aiutano i rifugiati e ho deciso di unirmi a loro. Le condizioni qui sono pessime, facciamo quello che possiamo”. I ragazzi di Hot food Idomeni arrivano da tutte le parti d’Europa e del mondo, tra loro c’è anche un ragazzo italiano, Paolo, 28 anni, che ha deciso di trascorrere qui i giorni di ferie che aveva per le vacanze di Natale. “Una volta fare del bene era considerato una bella cosa – sottolinea – ora sembra che aiutare queste persone, che non hanno niente, sia un atto rivoluzionario”. Se non fosse per l’accoglienza dal basso assicurata da questo gruppo di giovani i transitanti di Belgrado resterebbero senza cibo e vestiti.
Nei mesi scorsi il commissario della Serbia per l’assistenza ai rifugiati, Ivan Miskovic, ha accusato le organizzazioni umanitarie di fare false promesse ai rifugiati, supportandoli negli edifici della vecchia stazione, invece di convincerli ad entrare nei centri governativi. “In questa situazione, non è facile per noi offrirgli un aiuto concreto”, ha ribadito in questi giorni intervistato dall’Ansa, dopo che le foto dei migranti sotto la neve hanno fatto il giro del mondo. Secondo il commissario in questo momento in pochi accettano di essere trasferiti, per paura di essere identificati e non poter continuare il viaggio verso gli altri paesi dell’Unione europea.
“Il problema è che non abbiamo le scarpe, i miei piedi sono congelati” mi grida un ragazzo mentre guardo per l’ultima volta quella fila lunghissima che fa tornare alla mente le immagini più oscure della nostra storia passata. Poco dopo sento un’altra voce in lontananza: “Italy, Italy”. È Asif, sorride, ha trovato una giacca.
Immagine di copertina: profughi in fila sotto la neve nel campo di Belgrado. Tutte le foto sono di Alberta Aureli.