L’ex pista di Borgo Mezzanone porta le tracce dell’ennesimo incendio: lamiere accartocciate, pezzi di legno, qualche vecchia porta e resti anneriti di poveri effetti personali. In mezzo a questo ammasso di materiali che fino allo scorso 12 giugno si tenevano insieme, i Vigili del fuoco hanno trovato il corpo carbonizzato di Mohamed Ben Ali, che si faceva chiamare Bayfall e che è morto bruciato a 37 anni. Nel più grande ghetto della Capitanata, e non solo qui, i roghi sono talmente frequenti che quasi non si contano più. Il 30 maggio scorso, neanche due settimane prima, un altro incendio aveva ridotto in cenere decine di baracche, fortunatamente senza vittime; ma in poco più di un anno il fuoco ha ucciso, prima di Mohamed, altre tre persone. Succede, in posti come questo, con i cavi elettrici a vista e collegati chissà come, i bracieri per scaldarsi, le bombole a gas a due passi dal materasso, e a volte anche azioni dolose per regolare i conti.
Succede da anni, non solo di morire in uno di questi luoghi di vergogna collettiva dove trovano posto soprattutto i braccianti agricoli che prestano servizio per le aziende locali, nella raccolta del pomodoro ma non solo, e che con le paghe da fame che ricevono sopravvivono in una spirale di sfruttamento lavorativo e sottosviluppo abitativo.
Il ghetto è noto come “ex pista” perché sorge a ridosso dell’ex aeroporto usato dagli americani nella Seconda guerra mondiale, e che durante la guerra del Kosovo divenne base logistica per le operazioni che partivano da Amendola.
Gli edifici, poi ristrutturati e modificati, di quell’aerostazione, fino a pochi mesi fa hanno ospitato il Cara, Centro di accoglienza per richiedenti asilo, creando il paradosso di due luoghi confinanti e comunicanti, uno controllato dall’Esercito e l’altro terra di nessuno in mano a caporali, mafie locali e straniere.
Dall’ex aeroporto al Cara e al ghetto
La riconversione da aeroporto a centro per la gestione dell’immigrazione ha inizio nel 1999, con l’arrivo dei profughi del Kosovo, che sono sistemati in roulotte proprio lungo l’ex pista dove oggi sorge il ghetto. Tra il 2002 e il 2004 una serie di interventi trasformano la struttura di prima accoglienza in un centro permanente. L’idea iniziale era di creare un’area polifunzionale con una parte in muratura da destinare al Cpt, Centro di permanenza temporanea per le persone in attesa di espulsione, e l’altra composta da moduli prefabbricati che avrebbero sostituito le roulotte lungo l’ex pista. Il Cpt non è mai entrato in funzione e quegli edifici sono poi stati dedicati ai richiedenti asilo, mentre alcuni dei prefabbricati dismessi sono stati occupati da altri cittadini stranieri man mano che cresceva la richiesta di manodopera – sottopagata – nel settore agricolo.
Ad oggi il Cara è composto da due zone distinte, una formata da due fabbricati da 17 e 18 stanze con sei posti ciascuna, e l’altra costituita da 18 moduli abitativi da 4 unità ognuno, con servizi esterni. Nel 2014 si è aggiunto il dormitorio predisposto nell’ex magazzino, in grado di ospitare fino a 60 persone.
Come effetto del Decreto sicurezza, il Cara è stato interessato da un progressivo svuotamento in vista della chiusura definitiva; nel frattempo il ghetto è stato sottoposto a diverse azioni di abbattimento e sgombero, ma come già accaduto con il Gran ghetto di Rignano Garganico, questi interventi, in assenza di soluzioni alternative, hanno solo contribuito a diffondere l’emergenza sul territorio creando nuovi e più piccoli insediamenti poco distanti o una pronta ricostruzione in loco delle baracche rase al suolo.
La bonifica e valorizzazione di Borgo Mezzanone è entrata a far parte dei progetti che rientrano nel Cis Capitanata, il Contratto istituzionale di sviluppo firmato a Foggia dal presidente del Consiglio il 13 agosto 2019, per il quale sono stati previsti poco meno di 3 milioni e 500 mila euro di finanziamenti.
Una delle proposte di riconversione rilanciata pochi giorni fa ma al vaglio già dallo scorso anno, è quella della Cisl di Foggia di destinare l’ormai ex Cara alla creazione di alloggi per una parte degli abitanti della baraccopoli.
“Già all’indomani dell’insediamento del nuovo prefetto – racconta Carla Costantino, segretaria Cisl di Foggia – avevo proposto di usare almeno una parte del Cara per ospitare i cittadini regolari che abitano all’ex pista, e che per un discorso logistico legato all’attività lavorativa sono costretti a restare lì. In questo modo si potrebbe ottenere un duplice risultato: far uscire dalle baracche alcune persone e ridare un impiego agli operatori che lavoravano nel Cara prima della dismissione. Il prefetto si sta facendo carico di trovare una soluzione, e al momento la chiusura totale del centro è stata evitata, ma c’è da capire come snellire il passaggio di competenze dal Ministero dell’Interno alla Regione Puglia”.
Non si tratterebbe di una soluzione definitiva e soprattutto non per tutti, ma potrebbe alleggerire la condizione della baraccopoli che vive un’emergenza senza fine: “la situazione è complessa – continua Costantino – e come sindacati di prossimità cerchiamo di raccogliere le esigenze di tutti, soprattutto degli ultimi che hanno bisogno di avere voce, ma servono alleanze sul territorio. Quest’anno fra le varie iniziative abbiamo organizzato la navetta della solidarietà che si occupava di trasportare i lavoratori dal ghetto ai campi, ma era un progetto circoscritto, da soli non abbiamo la possibilità di fare azioni su larga scala. Perciò è necessario prenderci tutti insieme la responsabilità di quanto accade qui, per non ritrovarci ancora una volta a parlarne all’indomani di una tragedia”.
Sfruttamento del lavoro e precarietà abitativa, due facce dello stesso problema
L’agroalimentare in Puglia rappresenta il 20% del Pil regionale, con un valore economico di produzione di 4.933 miliardi di euro (dati Istat 2018). Gli occupati nel settore sono oltre 180 mila, dei quali quasi 41 mila provenienti da paesi europei ed extraeuropei. Se il totale dei lavoratori rappresenta un dato rimasto pressoché invariato negli ultimi cinque anni, la percentuale di cittadini stranieri è cresciuta del 3,1%. La sola provincia di Foggia assorbe 50 mila lavoratori agricoli, dei quali circa due terzi fra italiani ed europei e un terzo africani, ed è la provincia italiana con il più allarmante fenomeno di segregazione abitativa, legata proprio alle dinamiche viziate del lavoro nei campi.
“I ghetti si svuotano solo se le persone lavorano regolarmente – dice Raffaele Falcone, segretario provinciale Flai Cgil Foggia – perché i caporali hanno tutto l’interesse a mantenere i braccianti nelle baraccopoli dove possono reclutarli a basso costo e gestirne il trasporto nei campi; in più il ghetto è di interesse diretto per tutti i tipi di trafficanti, anche chi gestisce la prostituzione ad esempio, perché è lì che trova le condizioni ottimali.”
Falcone racconta che la situazione di Borgo Mezzanone è pure peggiorata negli ultimi anni: “sono aumentati gli abitanti, cresciute le baracche e ad oggi si può dire che si tratti del ghetto più esteso della provincia, oltre a quello che raccoglie anche il maggior numero di nazionalità, dai pakistani ai somali e ai nigeriani.”
In una condizione complessa di lavoro sottopagato, problematiche individuali differenti e vita quotidiana in assenza di sicurezza, servizi e reale libertà, migliorare solo le condizioni abitative potrebbe dare ancora più potere alle reti criminali. “Ogni intervento per togliere la gente dal ghetto deve essere accompagnato da un’uscita dal sistema di sfruttamento – aggiunge Falcone – altrimenti si rischia che migliorando gli alloggi i caporali avranno ancora più potere di gestione, per questo ogni passo va fatto sotto il controllo dello Stato. In più non per tutti è possibile un percorso di regolarizzazione perché in un ghetto non c’è solo chi fa il bracciante, ma anche chi lavora per chi va a lavorare.”
Ogni ghetto, soprattutto di grandi dimensioni, è un microcosmo dove nascono attività commerciali parallele, dai piccoli spacci alimentari, alle bancarelle di vestiti e scarpe usate, fino alle officine per le biciclette, ai servizi di trasporto e riscaldamento dell’acqua per la doccia, ai barbieri e ai ristoratori improvvisati. E i guadagni dei “gestori” sono completamente fuori da qualsiasi possibilità di emersione dal lavoro nero. In più c’è lo sfruttamento della prostituzione, che coinvolge le donne presenti nelle baraccopoli, senza possibilità di smarcarsi da una situazione di schiavitù.
“C’è chi ha il permesso di soggiorno scaduto da anni e vive ai margini da troppo tempo per avere ancora la forza di cercare un riscatto – racconta Falcone – ci capita di incontrare persone con problematiche psicologiche, che si sentono sconfitte, per le quali nessun pezzo di carta sarà la salvezza. Molti abitanti invece hanno i documenti in regola, e per loro è più facile avere un rapporto diretto col datore di lavoro. Oggi con l’occasione del Decreto rilancio stiamo cercando di informare le aziende agricole del territorio: molte sono disposte a regolarizzare, alcune hanno ancora paura di rapportarsi con i sindacati. Per tutte il problema è riuscire a restare sul mercato, dove chi sfrutta riesce a tenere i prezzi dei prodotti molto più bassi di chi assume e paga regolarmente i suoi braccianti.”
Come evidenziato anche nel Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato 2020-2022, previsto dal Ministero del Lavoro, il controllo dell’intera filiera produttiva agroalimentare diventa fondamentale per garantire compensi equi, perché senza agire sulle pratiche di concorrenza sleale come le aste a doppio ribasso, sarà sempre la Grande distribuzione organizzata a fare il prezzo dei prodotti agroalimentari ancora prima delle raccolte.
I controlli e le frodi in busta paga
White labour, l’ultima operazione anti caporalato nel foggiano, avvenuta il 2 maggio scorso, ha portato agli arresti tre imprenditori agricoli e un caporale che reclutavano lavoratori nei ghetti e li sfruttavano per 12 ore al giorno nei campi con una paga oraria fra i tre e i sei euro. A febbraio erano stati arrestati i titolari e un collaboratore di altre due aziende che si servivano di lavoratori solo apparentemente assunti in modo regolare; si offriva anche il posto letto in situazioni di estremo degrado e dietro pagamento di un affitto.
I controlli ci sono, ma sembrano non bastare mai, se si guardano i dati Inps sulle giornate dichiarate in busta paga dai braccianti, con differenze importanti a seconda della provenienza del lavoratore: per i neocomunitari, quasi 13 mila nel foggiano, risultano in media 49 giorni lavorati all’anno; per i cittadini del Centro Africa, oltre la metà dei 5mila e 700 presenti negli elenchi anagrafici Inps, non si superano le dieci giornate.
“Lavoro a Foggia da quattro anni e non ho mai preso più di quattro euro l’ora – racconta Mohamed, originario del Gambia, che si è trasferito a Borgo Mezzanone da circa un anno, dal Gran ghetto di Rignano – ma il problema ancora più grande è che i padroni non mettono le giornate in busta paga.”
Mohamed spiega che alcune aziende fanno i contratti, ma poi pagano i contributi per una giornata al mese, l’unica che risulta in busta paga, nonostante i braccianti lavorino sette giorni su sette per dieci, dodici ore al giorno. In questo modo non solo il resto del compenso viene corrisposto in nero, ma il lavoratore non ha la possibilità di maturare contributi, né disoccupazione, pur lavorando senza sosta e sottopagato.
“Se protesti ti dicono semplicemente di andartene, perché queste sono le condizioni – dice Mohamed – io ho provato a chiedere almeno di mettere qualche giorno in più in busta paga, e il datore di lavoro mi ha risposto che poteva farlo, a patto che gli dessi 100 euro per ogni giornata che aggiungeva. Me ne sono andato, ma ho ritrovato le stesse condizioni anche con gli altri imprenditori con cui ho lavorato dopo.”
Oggi Mohamed lavora per 3,5 euro l’ora, ha appena terminato la raccolta degli asparagi e fra poco comincerà con il pomodoro: preparazione del terreno, piantumazione e poi raccolta a fine estate. Lui fa parte dei braccianti stanziali, che vive nel ghetto tutto l’anno e che in autunno resta nel foggiano per la coltivazione dei broccoli, dei cavolfiori e delle cipolle.
“Non c’è soluzione per chi vuole lavorare onestamente, perché le uniche alternative sarebbero rubare o andare a chiedere l’elemosina davanti ai supermercati, e io non ho intenzione di farlo – dice – chiedete a chiunque qui nel ghetto: fa schifo a tutti vivere in questo modo, nella totale insicurezza, ma con 30 euro al giorno che diventano 25 se ti accompagnano i caporali, l’alternativa non esiste. Tutto quello che si mangia, prodotto da questa terra, è passato dalle nostre mani, ma continuiamo ad essere trattati come animali”.
Prima dei ghetti Mohamed ha avuto anche l’esperienza di un alloggio offerto da un imprenditore, un tugurio che gli costava 180 euro al mese, sottratti alla già misera paga oraria. Con l’emergenza Covid ha anche deciso di comprarsi guanti e mascherina per andare a lavorare. “Nessuno ci ha mai fornito nulla, dobbiamo provvedere da soli. Così con 25 euro, oltre a pagarmi da mangiare e l’acqua calda per la doccia, devo anche provvedere ai dispositivi di protezione. L’alternativa? Rischiare, ma alla mia vita tengo ancora, è tutto quello che ho.”
In copertina: una parte del ghetto di Borgo Mezzanone vista dall’alto (Foto: Ciro Dattoli)