Recita a mente dei versetti del Corano, Abdul, mentre con lo sguardo fissa la barriera di ferro che separa la Spagna dal Marocco. Non sente di avercela fatta, non ancora. Perché anche se si trova a Ceuta e, quindi, in territorio europeo, la sensazione di sentirsi in trappola è forte. E fa paura.
“La frontiera? L’ho superata a nuoto”, racconta. “Ci ho messo meno di mezz’ora, sono rimasto poco distante dalla riva. La polizia era lì, ma cosa poteva fare? C’erano tantissime persone in acqua in quel momento, non potevano fermarci tutti”.
Ceuta, enclave spagnola in terra marocchina, è la frontiera d’Europa che si spinge più a sud. Tappa obbligata della rotta occidentale, e di quel flusso di migranti, soprattutto marocchini e algerini, ma anche provenienti da paesi dell’Africa Subsahariana, che tenta l’approdo all’Eldorado europeo penetrandolo dal suo lato più estremo.
Anche il Marocco è ad un passo, non è sempre facile oltrepassare via mare le due cortine di ferro che segnano il passo tra Africa e il Vecchio Continente: bisogna partire molto più giù dalle coste di Castellejos, e nuotare, nell’oscurità, sperando di non incappare nei controlli. Che sono rigidi. O meglio, lo erano. Ci possono volere anche cinque sei ore, dipende dalle condizioni del mare. “Siamo professionisti, ci esercitiamo molto”, raccontano alcuni ragazzi marocchini fieri di aver raggiunto l’impresa. Portano sul corpo i segni delle meduse, mostrati con fierezza come prova indelebile del traguardo raggiunto, e che a distanza di mesi segnano ancora la pelle come frustate. Dopo vari tentativi andati a vuoto, hanno compiuto quell’impresa a fine aprile, ignari che, da lì a poche settimane, tutto sarebbe cambiato improvvisamente.
La crisi di Maggio
Nella notte tra il 17 e il 18 di Maggio, infatti, succede qualcosa di insolito. Il Marocco allenta “improvvisamente” le misure di controllo, e un folto numero di migranti approfitta dello stallo della polizia marocchina per superare la frontiera ed entrare a Ceuta.
C’è chi lo fa a nuoto, chi a bordo di gommoni, chi arrampicandosi sulle colline. Chi semplicemente attraversando un varco nella barriera completamente aperto.
È stato un atto di rappresaglia, da parte del governo di Rabat, in risposta alla decisione della Spagna di accogliere in un ospedale di Logroño il leader degli indipendentisti sahrawi, Brahim Ghali, osteggiato dal potere marocchino.
Il flusso di individui è imponente: in poco meno di due giorni si contano tra le 15 e le 17 mila persone ammassate alla frontiera. “Ne passavano 90 al minuto, arrivavano a fiumi”, racconta un abitante del posto. C’erano tanti minori non accompagnati, molti tra i 7 e i 9 anni. “Li hanno caricati su un autobus, all’uscita di scuola, facendogli credere che avrebbero visto Cristiano Ronaldo, è inaudito”, afferma una commerciante.
Quando in un paese di 86 mila anime, ne arrivano 12 mila dalla sera alla mattina, lo sconcerto è totale, anche in un luogo storicamente crocevia di civiltà. “Alcuni negozi hanno chiuso le saracinesche, le persone avevano paura di uscire di casa”, racconta un tassista. “La gente di Ceuta è sempre stata ospitale e solidale – aggiunge – qui convivono quattro comunità, cattolica, mussulmana, induista ed ebraica. Però un’invasione così massiccia farebbe paura a chiunque”. La risposta del governo di Madrid non si è fatta attendere: militarizzazione della frontiera e, dopo ventiquattro ore, l’annuncio di aver rispedito indietro 5.600 persone. Ne mancano tantissime all’appello.
El Tarajal
Per dare una prima accoglienza la Croce Rossa ha adibito a dormitorio alcuni hangar del poligono industriale de El Tarajal.
Si tratta di un luogo cruciale. Per anni è stato il polmone commerciale che regolava lo scambio di merci tra Marocco e Spagna ma, a seguito della totale chiusura della frontiera dovuta al Covid-19, la sua funzione è venuta meno.
Già prima di maggio, era stato riconvertito, provvisoriamente, a struttura adibita alla quarantena dei migranti. Ma con la nuova “crisi” è arrivato a ospitarne migliaia al suo interno. Sono per lo più marocchini, che aspettano di ottenere “el papel”, il documento che consenta loro di attraversare il Mediterraneo e poter, finalmente, calcare il suolo europeo.
Dopo più di due mesi di stasi, tra questi ragazzi è subentrata la rassegnazione, ma non si placa la rabbia. Tanta rabbia. “Io in questo porto, in questi magazzini ci lavoravo – racconta Ahmed – ero uno dei tanti transfrontalieri, e riuscivo a guadagnare anche cento euro al giorno”. Poi, la chiusura della frontiera causa pandemia ha messo fine anche agli scambi commerciali, lasciando un vuoto incolmabile e facendo ripiombare tanta gente nella povertà assoluta. A Castillejos, in particolare, la città giusto al di là del confine, lo stallo è totale. “Di lavoro non ce ne è, anzi, se vuoi trovarlo devi pagare. Non siamo degli sprovveduti, abbiamo un diploma, sappiamo fare qualche mestiere, vogliamo solo raggiungere l’Europa per costruire qualcosa”, afferma con fervore Ahmed.
Barcellona, Siviglia e Madrid sono le mete più gettonate da questi giovani, ma anche Marbella, una piccola cittadina che si trova sulla Costa del Sol.
La frontiera invisibile
A chi non vuole aspettare i tempi della burocrazia, non resta che tentare di raggiungere la “península” in maniera illegale. Del resto Gibilterra è lì davanti. La si vede a occhio nudo, quando non c’è foschia, dalla spiaggia di Benzù.
C’è chi prova a farlo nascondendosi sotto i camion che si imbarcano sulle navi, chi mischiandosi alla spazzatura. E chi osa ancora di più: il 20 luglio la Croce Rossa ha salvato 12 persone che cercavano di raggiungere lo stretto di Gibilterra in kayak. “Passare lo stretto di Gibilterra in kayak, non tenendo conto delle correnti che si concentrano in quelle poche miglia, è una pazzia. Purtroppo, quando c’è la disperazione, la paura si trasforma in temerarietà”, afferma Germinal Castillo, portavoce della Croce Rossa. “Qui le persone muoiono nel più totale anonimato. Non abbiamo cifre, non sappiamo quanti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare questo mare, quel che è certo è che ci troviamo di fronte alla maggiore fossa comune d’Europa. Della crisi migratoria di Ceuta si parla quando arrivano 200 o 300 persone, ma i piccoli numeri di morti quotidiani non contano. E questi stanno portando ad una ecatombe, un genocidio migratorio silente. Non è iniziato con il Covid, e non finirà con esso”.
Il Ceti
Oltre all’accoglienza straordinaria nei magazzini del Tarajal, Ceuta ha anche un centro statale per regolare il flusso migratorio. Inaugurato nel 2004 per rispondere al costante flusso di migranti subsahariani nella città, il Centro per la permanenza temporanea degli immigrati (CETI) ha cambiato volto durante la pandemia. Con l’emergenza sanitaria, infatti, sono stati stabiliti una serie di criteri per scaglionare l’ingresso nelle strutture e rispettare i protocolli di quarantena. E soltanto le persone con un profilo di “estrema vulnerabilità”, come i richiedenti asilo registrati dalla Polizia di Stato, o donne e bambini vittime di tratta, venivano ammessi all’interno. Ma la “crisi di maggio” ha cambiato tutto di nuovo.
“Siamo tantissimi qui dentro – racconta Daudat, un ragazzo senegalese di 25 anni – siamo in dieci in stanze molto piccole, la notte fa caldo, l’odore è nauseabondo, ci sono gli insetti, è impensabile riuscire a riposare”, racconta. La promiscuità è all’ordine del giorno in strutture del genere, e tanta pace per le norme anti covid. E così, lui ed altri suoi amici, hanno allestito un accampamento di fortuna. Si trova in mezzo al bosco che, dal Centro d’accoglienza, scende giù fino al mare. Due baracche messe su con strutture di plastica e coperte da teloni, qualche materasso vecchio recuperato chissà dove, alcune sedie e sdraio malconce, una brace per preparare qualcosa da mettere sotto i denti, ed ecco che le giornate passano, l’una uguale all’altra. Con delle corde issate da un albero all’altro hanno preso vita delle amache, che questi amici si contendono come momento di ristoro meritato.
Sono una trentina i senegalesi censiti al CETI in questo momento, alcuni di loro sono arrivati in Marocco in aereo, da Dakar, perché il Visto si ottiene con facilità. Altri invece hanno preso la strada del deserto, ed hanno preferito questa rotta alla libica, perché meno pericolosa. “Ciò che fa male è che non sappiamo quanto tempo dobbiamo stare qui – racconta Daudat – c’è chi dice pochi mesi, chi dice un anno, e noi siamo intrappolati”.
Un mix di nazionalità
Al centro di accoglienza i conflitti sono all’ordine del giorno, a causa delle tante nazionalità che vi sono al suo interno, esasperate anche dalla prolungata convivenza. “Ci sono continue risse, spesso finiscono a sassate, marocchini che litigano con subsahariani, algerini che se la prendono con i pakistani, ogni giorno ce ne è una”, afferma Suleman. È siriano, ha 19 anni, gli ultimi due li ha passati in viaggio. Dal Libano con un passaporto falso è riuscito ad arrivare in Algeria in aereo, poi ha iniziato a battere i confini terrestri, fino a trovarsi qui, in questo lembo di terra che è e non è. “Non c’è lavoro qui, non puoi guadagnare soldi, non puoi aiutare la tua famiglia che soffre la fame”, racconta Suleman. È esasperato: “Vengo da un paese che da dieci anni viene bombardato. Ora sono i russi, Hezbollah e l’Iran. Lanciano i razzi che distruggono villaggi e quelle poche case rimaste ancora in piedi. La mia famiglia è allo stremo delle forze, io sono partito per aiutarli, e invece sono bloccato qui”.
“I nostri documenti sono pronti”, racconta un signore yemenita che si fa portavoce di un gruppo di sei suoi connazionali. “Manca solo un ultimo timbro, e non si capisce chi deve metterlo”. Hanno attraversato il continente africano da est ad ovest, alcuni di loro hanno una sentenza di morte nel loro paese, vogliono raggiungere Barcellona, Madrid, o qualsiasi altra città che gli permetta di sostenersi. Ma un cavillo burocratico li tiene intrappolati.
È assurdo pensare come, questa manciata di chilometri di terra arsa sia diventata l’ultimo crocevia per persone partite da terre così lontane. Fino a situazioni estreme.
Abdullah Muhammat arriva dalla Cina, è un uiguri. Appartiene a quella minoranza musulmana (0,6 % della popolazione cinese) che, da tempo, è vittima di persecuzioni da parte del governo di Pechino nello Xinjiang. Lui ha poca voglia di parlare, anche con i suoi compagni di stanza. Si limita a dire che per un periodo si è rifugiato in Turchia, ma era una “bad situation”. Così la decisione di raggiungere l’Europa, in particolare la Germania. Come sia arrivato fin qui è difficile da capire, e lui non ha alcuna intenzione di spiegarlo. Di certo i paesi che ha attraversato nel suo lungo viaggio, da un estremo all’altro, non si contano sulle dita delle mani. E forse lui quel conto lo ha perduto, o semplicemente non lo ha mai fatto. Perché quando si cambiano così tanti posti il rischio è quello di sentirsi di non appartenerne più a nessuno. Non a quello da cui si scappa, non a quello che si vuole raggiungere, e men che meno a quello che si sta attraversando. Non si è benvenuti da nessuna parte. Si rimane stranieri. Dappertutto.
Immagine di copertina: la frontiera vista da Benzu’, frazione di Ceuta, con la montagna Jebel Musa, detta anche Mujer muerta, sullo sfondo. Foto di Romina Vinci.