Da Cie a Cpr, ma restano le criticità
Quando i membri dello staff del Garante hanno cominciato a visitarli si chiamavano Centri di identificazione e espulsione (Cie), poi sono stati ribattezzati Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), ma la sostanza non è cambiata. In questi luoghi continuano infatti a essere trattenute sulla base di una decisione amministrativa persone con situazioni giuridiche molto differenti: soggetti provenienti dal circuito penale, persone in posizione di irregolarità amministrativa rispetto al permesso di soggiorno, richiedenti asilo. Il tutto in un regime di promiscuità e precarie condizioni di vivibilità che preoccupano molto il Garante.
Brindisi, Caltanissetta, Torino, Roma: quattro strutture diverse destinate alla detenzione (amministrativa) dei migranti, accomunate dagli stessi problemi. A cominciare dalle precarie condizioni materiali e igieniche e quindi dalla necessità di fare urgenti interventi di manutenzione per accrescere – e “significativamente”, precisa il rapporto – gli standard di vivibilità. Una seconda questione riscontrata dal Garante è l’assenza di spazi di aggregazione e luoghi di culto, condizione da cambiare “con urgenza”. Nel rapporto si constata poi una “generale carenza del flusso informativo” verso i trattenuti, che spesso sono “completamente all’oscuro circa la propria condizione personale e giuridica”. Infine, si registra una generale carenza del sistema di documentazione degli eventi critici – episodi di autolesionismo, aggressioni, danneggiamenti, tentati o compiuti suicidi. Il Garante chiede l’introduzione di un registro generalizzato di questi eventi perché possano essere monitorati.
Brindisi, Caltanissetta, Torino e Roma
A guardare la situazione più da vicino, emerge che nella remota periferia di Brindisi, dietro a un alto muro di cemento armato vigilato dall’esercito, c’è una struttura fatiscente in cui una cinquantina di uomini vivono nel degrado, dormendo su letti di cemento fissati alle pareti e al pavimento, con materassi sporchi e laceri, lenzuola di “tessuto non tessuto” e cuscini consumati, mangiando cibo scadente e lavandosi in bagni maleodoranti e con segni di muffa (con bottiglie rigorosamente senza tappo, “per ragioni di sicurezza”). Questi uomini, che spesso vengono trattenuti qui per mesi, si trascinano da una giornata vuota all’altra, nella totale incertezza sul proprio futuro e senza aver ricevuto adeguate informazioni sulla propria situazione e sulla vita nel Centro. La struttura non ha un regolamento, non esiste un registro dei colloqui con gli operatori, né registri dell’isolamento o degli eventi critici. I gestori del Centro dicono che di eventi critici non se ne sono mai verificati, ma altri riportano il recente caso di un cittadino marocchino che, pochi giorni prima della visita del Garante, ha ingoiato una batteria e ha fatto uno sciopero della fame.
A Caltanissetta, invece, sono quasi un centinaio a dimorare in una ex polveriera dell’esercito (che ospita anche un Centro di accoglienza per richiedenti asilo e la sede della Commissione territoriale per l’esame delle richieste di protezione internazionale), anche qui in condizioni gravemente inadeguate: stanze anguste, con poca aria e luce, servizi igienici in condizioni critiche per l’intensa usura, il freddo che si incolla addosso. Insomma: anche qui è come essere in carcere, anzi, peggio, perché del carcere mancano tutte le garanzie. E questo nonostante “l’istituto del trattenimento dei migranti sia totalmente estraneo a qualsivoglia carattere punitivo…/…e la privazione della libertà debba pertanto essere contemperata da una riduzione massima degli aspetti afflittivi collegati a una situazione di detenzione”.
A Torino la parola d’ordine è una sola: sicurezza. È la sicurezza a giustificare, secondo i gestori del Centro, l’isolamento di alcuni individui nella deprimente gabbia metallica che è la sezione “ospedaletto”. Ed è la sicurezza a dettare le regole della vita interna: “per esigenze di sicurezza”, le persone trattenute trascorrono le giornate all’interno dei moduli abitativi a cui sono state assegnate, senza potersi muovere da un settore all’altro o comunque fare alcun tipo di attività; sempre “per esigenze di sicurezza”, gli operatori non hanno accesso ai settori, e quindi – fatti salvi i colloqui di ingresso e quelli eventualmente richiesti dagli ospiti – gli stranieri tenuti qui vivono “in una sorta di stato di abbandono”, dice il rapporto del Garante, e comunicano soltanto con il personale di passaggio, attraverso le sbarre, in un modo che “marca una relazione di potere non rispettosa della dignità umana della persona trattenuta e traccia un solco profondo di separazione e esclusione”.
A Roma, nella frazione periferica di Ponte Galeria, c’è l’unico Centro con una sezione femminile (quella maschile è stata chiusa a seguito dei danneggiamenti causati nel corso delle proteste dei migranti nel dicembre 2015). Qui, una sessantina di donne – in maggioranza nigeriane, con tutte le preoccupazioni collegate al trattenere possibili vittime di tratta – sono recluse in una “grave condizione di insalubrità”: le pareti, soprattutto quelle dei servizi igienici, sono “letteralmente tappezzate da zanzare”, al punto che il Garante ha richiesto una immediata disinfestazione e bonifica della struttura.
Hotspot, una terra di nessuno
Le cose non vanno meglio negli hotspot, i luoghi preposti alla gestione e “smaltimento” (leggasi identificazione come richiedente asilo o espulsione di grandi numeri di persone). Anzi. Per quanto fortemente controversa e sicuramente imperfetta, i Cie una regolamentazione giuridica ce l’hanno. Negli hotspot, invece, l’unica legge, se così si può chiamare, è quella delle procedure operative standard (Sop) del Ministero dell’Interno. Qualcuno ha chiamato gli hotspot “i nuovi cancelli sul mare”, e il rapporto del Garante dice che finiscono per diventare “un limbo di tutela giuridica”. Questo è talmente vero che alcune delle autorità che li gestiscono, non considerandoli luoghi di privazione della libertà, ignoravano il potere d’accesso del Garante nazionale.
Su questo fronte le richieste nel rapporto sono due: innanzitutto quella di regolamentare al più presto con una vera e propria legge la modalità di permanenza delle persone all’interno degli hotspot, prevedendo il vaglio giurisdizionale e i relativi mezzi di ricorso per gli aspetti di privazione della libertà personale. Poi, la raccomandazione di disciplinare in tutti i Centri la possibilità per i cittadini stranieri già identificati e fotosegnalati di entrare e uscire.
Qui la questione fondamentale è una: in teoria il tempo massimo di trattenimento negli hotspot per l’identificazione e il fotosegnalamento è di 24/48 ore (prorogabili siano a un massimo di 72); in pratica, le cose non stanno affatto così. Il dato non è nuovo, ma vale la pena ribadirlo: la durata media del trattenimento è infatti di 15 giorni a Lampedusa, 5,5 giorni a Trapani, 2,5 giorni a Pozzallo e 10 giorni a Taranto. Tempi di permanenza che si allungano nel caso dei minori stranieri non accompagnati e di altre persone in condizione di vulnerabilità (si riportano anche casi di donne incinte), che spesso, in mancanza di specifiche strutture idonee, sono costrette a rimanere negli hotspot ancor più a lungo.
Il rapporto sollecita anche a non perdere mai di vista la priorità di garantire ai migranti appena sbarcati dopo viaggi disperati le condizioni essenziali di dignità personale e soddisfazione dei bisogni primari, senza sacrificarle all’esigenza di provvedere celermente a identificazione e fotosegnalamento. A questo si aggiunge il problema che la comunicazione con i migranti risulta “molto compressa nella prima concitata fase successiva allo sbarco e coincidente con la procedura di identificazione”, per cui il Garante chiede maggiori sforzi per garantire che queste persone siano correttamente informate di tutti i loro diritti. I problemi di comunicazione si riscontrano anche dagli hotspot verso l’esterno. Gli hotspot risultano luoghi opachi, e il rapporto chiede invece di garantirne la trasparenza, rendendoli accessibili alla stampa, al mondo accademico e alle associazioni impegnate nella tutela dei diritti delle persone migranti.
A margine, il Garante pone anche una (importante) questione lessicale: troppo spesso nella banca dati del Ministero dell’Interno viene utilizzata l’espressione “clandestini sbarcati” riferito alla totalità delle persone giunte nell’hotspot, evidentemente inaccettabile visto che fra loro ci sono richiedenti asilo, persone vulnerabili, vittime di tratta, minori. E su questo si chiede un rapido cambio di registro perché le parole contano, soprattutto quando si parla di diritti.
Taranto, Lampedusa, Trapani e Pozzallo
A Taranto, in un campo fatto di container e tende che può tenere sino a 400 persone arrivano in grandi gruppi i migranti sbarcati al porto di Catania, ma anche molti che vengono trasferiti da altre regioni con lunghi viaggi in pullman. Sono molti quelli in condizione di fortissima vulnerabilità: tanti minori soli, donne incinte, persone con mutilazioni e persone che hanno perso familiari in mare durante i naufragi. Nonostante la collocazione in un’area isolata e la configurazione a tendopoli, l’hotspot tarantino è ritenuto dal Garante “una struttura in grado di ospitare dignitosamente, per periodi brevi, nuclei di immigrati di recente arrivo”. Peccato però che sopra le tende che ospitano i migranti passino i carrelli che portano il materiale ferroso all’Ilva, da cui cade una polvere rossa che colora l’intera struttura e che pone serie preoccupazioni circa la salubrità del luogo. Poca, o comunque non adeguata, è inoltre l’informativa sui diritti fornita agli ospiti, e si riscontrano significativi problemi di comunicazione con l’esterno.
Poi c’è Lampedusa, un ex Cie – a lungo inaccessibile a stampa e associazioni – ora trasformato in hotspot. Qui sono ospitate, in condizioni precarie e per periodi di tempo molto più lunghi dei due giorni previsti dalla normativa, centinaia di persone, tra cui tanti minori soli e tante donne, soprattutto nigeriane. E qui si registrano pratiche che il rapporto ritiene “inaccettabili”: da un lato, i nuovi arrivati – minori soli inclusi – lasciati in fila all’addiaccio sotto la pioggia, scalzi, in attesa di essere fotosegnalati; dall’altro, la prassi di far firmare ai migranti un foglio completamente bianco in guisa del foglio-notizie, cioè il modulo nel quale si esprimono i motivi del proprio arrivo in Italia e che pesa poi sull’accesso all’eventuale richiesta di asilo. Una volta entrati, poi, dal centro non si può uscire, a prescindere dall’avvenuto foto-segnalamento – cosa che l’autorità competente giustifica dicendo che la circolazione dei migranti potrebbe creare problemi al turismo e che, comunque, “se vogliono possono uscire da un buco alla rete”.
Anche a Trapani l’hotspot è un ex Cie e vi si riscontrano trattenimenti troppo lunghi, soprattutto nel caso di persone vulnerabili come le donne incinte e i minori soli. Per questi ultimi, poi, c’è il problema dell’attribuzione dell’età: molti giovani vengono classificati come nati il primo gennaio 1999 – a mò di data convenzionale da usare quando si conosce solo l’anno di nascita – e si trovano perciò esposti al rischio di essere considerati maggiorenni quando ancora non lo sono: una prassi totalmente arbitraria e lesiva dei diritti dell’infanzia come sanciti dal diritto internazionale. Grave anche la prassi di effettuare certificazioni mediche collettive per interi gruppi di persone in arrivo, che configura una possibile violazione del fondamentale diritto alla salute.
Non va meglio nemmeno a Pozzallo, soprattutto per la questione dei minori soli trattenuti per lunghi periodi: qui il tempo di permanenza per loro è addirittura di 17,5 giorni.
Si conclude così il lungo viaggio del Garante attraverso la penisola e i suoi luoghi di privazione della libertà “senza titolo”: zone grigie, che da una parte assomigliano alle carceri nelle restrizioni delle libertà delle persone “ospitate”, ma dall’altra non godono delle stesse garanzie a tutela dei diritti fondamentali. E sulle quali è dunque cruciale intervenire, per assicurarsi che i centri per migranti non diventino un limbo senza legge.
Qui il rapporto del Garante su Cie/Cpr e hotspot. Qui la prima relazione annuale del Garante al Parlamento e il nostro articolo di commento dei dati salienti.
Foto di copertina: l’interno dell’hotspot di Lampedusa, al centro dell’isola, nel 2015 (foto: The European Union).