In Italia l’agricoltura è il settore con i tassi più elevati di sfruttamento del lavoro irregolare e di evasione fiscale, secondo solo ai servizi alla persona. I dati del quarto rapporto Agromafie e Caporalato, curato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, parlano di un numero di lavoratori esposti al rischio di un ingaggio in nero, o mediato da un caporale, compreso fra i 400 e i 430 mila, per un giro d’affari stimato attorno ai 4,8 miliardi di euro.
Il mercato che ruota attorno alle produzioni agricole spesso salda gli interessi di cosche locali, mafie internazionali, imprenditori che puntano ad abbattere il costo del lavoro, intermediari e trafficanti. Parlare solo di caporalato diventa dunque riduttivo quando i braccianti, soprattutto se di altre nazionalità, finiscono nelle maglie strette di una rete che ne gestisce non solo le giornate, ma anche la residenzialità, i pasti, l’acqua calda, l’acquisto di beni di prima necessità, i trasporti.
Non si tratta di singole realtà ma di un sistema integrato che, nel corso delle stagioni e secondo le produzioni, spinge i lavoratori a migrare da una regione all’altra, come avviene ad esempio dalla Puglia del pomodoro e delle angurie alla Calabria e alla Sicilia degli agrumi, in un esodo che si ripete, un anno dopo l’altro, e che riproduce gli stessi elementi: schiavitù del lavoro e condizioni di vita precarie.
Alcuni luoghi sono diventati un simbolo dello sfruttamento dei braccianti, i più vulnerabili di tutta la filiera agroalimentare, specialmente se provenienti dall’Africa subsahariana, in attesa di documenti e con scarse possibilità di trovare altri impieghi. Uno di questi è la provincia di Foggia, la cosiddetta Capitanata, che da sola realizza il 40% dell’intera produzione italiana di pomodori.
Gli imprenditori agricoli impegnati nel settore sono circa 3 mila, per un’estensione complessiva di terreni coltivati pari a 30 mila ettari, e un raccolto che mediamente si aggira attorno ai 22 milioni di quintali all’anno. Chi arriva nel foggiano per lavorare, con paghe che non superano i 30 euro al giorno, non potrà mai permettersi una casa, o un mezzo di trasporto, e finirà a vivere in uno dei ghetti del territorio, costretto ad assoggettarsi a un sistema di dure regole non scritte.
Ogni ghetto della zona ospita almeno 2 mila persone – ma nei periodi in cui il lavoro è maggiore, si può arrivare anche a 5 mila – che si trovano a convivere in baracche autocostruite con materiali di risulta, spesso pericolosi come l’eternit, roulotte in dismissione, case di campagna abbandonate. All’interno sorgono piccole rivendite di abbigliamento usato, prodotti alimentari, ma anche caffè e ristoranti. E le mafie locali ed estere si spartiscono mercati paralleli a quello agricolo, come lo sfruttamento della prostituzione e talvolta lo spaccio di droga. Chiunque può permettersi di acquistare qualcosa, lo rivenderà a caro prezzo a chi ne ha bisogno: l’acqua calda ad esempio, è uno dei primi business dei ghetti perché una doccia, per quanto di fortuna, è un’esigenza primaria tanto quanto il cibo.
La pista di Borgo Mezzanone
Borgo Mezzanone è un piccolo agglomerato di case e sembra fermo a qualche decina di anni fa. La Statale 544 lo attraversa, e separa il piazzale della chiesa dai due bar. Poco più avanti le case si diradano e lasciano spazio ai campi coltivati. Frazione del comune di Manfredonia, da cui dista 40 km, è invece molto vicino a Foggia.
Subito fuori dalla piccola area urbana c’è un Centro di accoglienza per richiedenti asilo nello spazio dell’ex aeroporto militare, usato per l’ultima volta come base logistica durante la guerra in Kosovo. Appena fuori dal perimetro sorvegliato sorge uno dei ghetti più grandi di tutta la provincia, la pista, che si raggiunge a piedi o in bicicletta costeggiando il muro di cinta del centro istituzionale. Nonostante l’apparente impenetrabilità di questo insediamento in cui vivono diverse comunità, dai cittadini nigeriani a quelli bulgari, il ghetto rappresenta uno dei “non luoghi” in cui il sodalizio fra la mafia del Gargano e le cosche straniere è riuscito meglio, a pochi metri da un Cara controllato giorno e notte dall’Esercito, e non solo per la gestione dei braccianti agricoli, ma anche per lo sfruttamento della prostituzione, lo spaccio, la vendita di beni di prima necessità agli stessi abitanti, dal cibo a un sacchetto di cemento per rinforzare le baracche.
Una ragazza sta cercando di scappare, è già sul viale sterrato verso la strada statale quando viene raggiunta da un uomo, presa per un braccio, e convinta a rientrare. Prova a pregarlo di lasciarla andare, ma dopo pochi minuti si rassegna e si lascia condurre nuovamente all’interno del ghetto, mentre un “autista” fa salire in macchina altri ragazzi che accompagna al lavoro per 3 euro a testa. Sono scene frequenti qui, e avvengono sempre sotto gli occhi dei militari al di là della rete.
La pista è cresciuta dopo lo sgombero del gran ghetto di Rignano Garganico, perché tanti ex abitanti si sono spostati qui, vicino al Cara, che nel frattempo è stato quasi circondato dalle baracche.
Il “nuovo” ghetto di Rignano Garganico
“Nel corso degli anni ci eravamo organizzati, con lo sgombero abbiamo dovuto ricominciare tutto da capo – racconta Soumaila Sambare, delegato del Sindacato di base Usb per i lavoratori agricoli, in Italia dal 1993 – manca l’acqua, non ci sono soluzioni abitative, e le condizioni di vita dei braccianti sono oggi ancora più complicate. Quello che però sta cambiando è la coscienza sempre più forte dei nostri diritti”.
Proprio dall’insediamento fra San Severo e Rignano è partito lo sciopero dei braccianti che lo scorso 8 agosto hanno sfilato fino alla prefettura di Foggia, dopo i due incidenti stradali costati la vita a 16 persone che, stipate nei furgoni dei caporali, rientravano dai campi di pomodoro dopo una giornata di raccolta.
Il gran ghetto ha una storia lunga vent’anni, ed era nato a seguito dello sgombero di un ex zuccherificio abbandonato dove si accampavano i primi lavoratori agricoli stranieri arrivati in zona. Sgomberato nel marzo del 2017, è rinato velocemente dalle macerie e dalle lamiere divelte delle baracche abbattute. Qui oggi convivono, in due aree attigue, una comunità macedone che abita nelle roulotte e sopravvive con il commercio di auto usate e pezzi di ricambio, ed un’altra che raccoglie prevalentemente giovani dell’Africa Subsahariana, dal Mali, al Gambia e alla Nigeria, spesso provvisti di permesso di soggiorno per motivi umanitari ma comunque impossibilitati a cercare soluzioni abitative diverse per i guadagni di un lavoro al limite della schiavitù.
Riempire un cassone di pomodori da 350 kg rende dai tre ai quattro euro di compenso, e per arrivare a 30 euro bisogna riempirne fino all’orlo almeno una decina; da questo guadagno vanno poi decurtati i costi incassati dai “mediatori” per il trasporto, il cibo e l’affitto di un materasso sudicio nella bidonville.
Anche a Rignano la situazione è drammatica: discariche a cielo aperto disseminate fra le baracche, assenza di acqua potabile, piccoli spacci di abiti e scarpe usate rivenduti per pochi centesimi di euro, bar dove ci si riunisce attorno ad un televisore. “Qui cucino e servo da mangiare – dice una donna del Mali – parlo cinque lingue ma non ho più voglia di raccontare come viviamo, perché ho troppa paura che la mia famiglia venga a saperlo, e la sola idea mi dà vergogna”.
Casa Sankara, fuori dal ghetto
L’essenza stessa di qualsiasi ghetto è l’isolamento dei braccianti dal resto del territorio in cui vivono e lavorano: in questo modo il caporale li rende totalmente dipendenti per qualunque necessità, che si tratti di un panino per il pranzo o della corrente elettrica per ricaricare il cellulare.
Per questo Casa Sankara rappresenta un esempio doppiamente virtuoso: ha dato una possibilità ad alcuni braccianti sfruttati e costretti alla baraccopoli, e ha realizzato il sogno di due ex lavoratori senegalesi che hanno capito come l’unica strada sia quella di creare nuove opportunità di impiego e di vita, per sottrarre “offerta” a chi il lavoro lo sfrutta.
“Arrivato dal Senegal sono finito a lavorare nei campi – ricorda Mabaye Ndyaie, uno dei due fondatori – dopo aver guadagnato tre euro per un cassone di pomodori da più di 300 kg ho capito che non poteva essere quella la mia vita in Italia, e allora ho restituito i soldi al caporale e gli ho detto che non sarei tornato mai più”.
Oggi in questo spazio della Regione Puglia ci sono ettari di pomodori, un vigneto e una piccola piantagione di canapa frutto di un progetto sperimentale. Ma soprattutto ci sono posti letto, una mensa, una moschea, un’aula per i corsi di italiano, un parco con un chiosco che serve bevande rigorosamente analcoliche.
“A casa Sankara ci sono anche famiglie con bambini – dice con orgoglio Papa Latyr Faye, l’altro socio fondatore, anche lui originario del Senegal – e alcune di queste, dopo un periodo qui, sono riuscite a realizzare il sogno di una casa tutta per loro. Siamo ancora una goccia nel mare in un territorio difficile – ammette – ma siamo solo all’inizio della nostra rivoluzione, che dedichiamo a Thomas Sankara e all’esempio di libertà che ha rappresentato per l’Africa”.
In copertina: un gruppo di braccianti durante la raccolta del pomodoro nelle campagne del foggiano (fotografia di Ilaria Romano, come tutte le immagini in questo articolo)