Il 2018 è cominciato con 200 morti sulla rotta libica. Nel mese in cui il mare è più burrascoso, e pure ogni anno arrivano mille o duemila persone, stavolta i soccorsi non sono riusciti a impedire due grossi naufragi. A fronte del vanto italiano di essere riusciti a far calare il flusso di migranti in arrivo dalla Libia, le poche navi rimaste si trovano a soccorrere molte più persone che negli anni precedenti.
In questa vasta porzione di mare – scoraggiate dalle nuove disposizioni italiane, dall’allargamento arbitrario della zona di soccorso di pertinenza dei libici, e dai pericoli di aggressione da parte della loro Guardia Costiera – sono rimaste poche imbarcazioni preparate al soccorso. Aquarius, operata da SOS Méditerranée insieme a Msf, ha soccorso decine di persone a Natale e poi di nuovo all’inizio dell’anno, ma il suo equipaggio non ha potuto evitare il grosso naufragio dell’Epifania. A occuparsi del secondo dei due grossi naufragi di gennaio è stata la neo-finanziata (dall’Italia) Guardia Costiera libica, che ha scoperto dell’esistenza di circa 100 dispersi dalle testimonianze delle persone salvate.
Com’è nata Sea Watch
Era pieno inverno anche quando nacque Sea Watch. “Era la fine del 2014, ed era stata dichiarata la fine dell’Operazione Mare Nostrum”, mi racconta Axel Grafmanns, che al momento dell’intervista, a novembre 2017, è il CEO dell’organizzazione tedesca. “C’erano molti morti nel Mediterraneo, così in Germania tre soci in affari con una posizione politica molto chiara hanno deciso di fondare questa associazione con sede a Berlino”. Prima con un’imbarcazione molto piccola, poi gradualmente con Sea Watch 2, e oggi con la grossa Sea Watch 3, l’associazione ha cominciato a reclutare volontari per il lavoro in mare, imparando man mano di cosa ci fosse bisogno “per supplire al lavoro che l’Europa non voleva fare”.
“Abbiamo cominciato con un approccio pragmatico – compra una barca, mettici un equipaggio, crea un pochino di attenzione mediatica e raccogli un po’ di donazioni. La prima barca era piccolissima e aveva cento anni. Tutti pensavano che fossimo pazzi, perché non avevamo alcuna esperienza nautica. Quando abbiamo cominciato a salvare le persone, abbiamo mandato in Germania i video che giravamo. Nel 2015 abbiamo potuto comprare Sea Watch 2, con 16 persone di equipaggio a bordo per la navigazione e il primo soccorso”.
Sea Watch operava, mi racconta Axel, a 24 miglia dalla costa libica, al limite della zona di soccorso (Sar), in coordinamento con il comando di Roma per organizzare i trasbordi delle persone salvate su imbarcazioni più grandi che poi le trasferivano in porto. Un giorno, alla fine del 2016, con posto a bordo per 100 persone, dopo un salvataggio si sono trovati a trasportarne 500 perché il comando non riusciva a organizzare il trasferimento in mare. “Eravamo praticamente da soli nella zona di ricerca e soccorso, stavamo finendo cibo e acqua e le forniture di pronto soccorso. E così abbiamo deciso di comprare un piccolo aeroplano per le ricognizioni dall’alto, che ci aiutasse a individuare in tempo i gommoni, e una barca ancora più grande, così adesso non abbiamo più bisogno di aspettare i trasferimenti e li facciamo direttamente noi”.
Le aggressioni della Guardia costiera libica
Lunedì 6 novembre, come raccontato poi dal volontario Gennaro Giudetti che partecipava ai soccorsi, Sea Watch 3 si è trovata in una situazione molto complicata durante il naufragio di circa 150 persone. Come emerge da un video girato dall’equipaggio, nonostante ci si trovasse in acque internazionali la Guardia Costiera libica si è comportata in modo molto aggressivo con i migranti che avevano bisogno di soccorso, e con la stessa nave tedesca che voleva tenerli a bordo. Alla fine della giornata, la scissione fra i destini dei migranti non poteva essere più chiara: 58 persone recuperate da Sea Watch e portate a Pozzallo, e 47 persone invece costrette dai libici a rientrare nel luogo di partenza. In mezzo, 50 persone annegate.
Sea Watch 3 aveva già denunciato un’aggressione analoga il 21 ottobre 2016. “Ma stavolta la situazione è diversa”, sottolinea Axel, “ adesso l’Unione europea sta collaborando con la Guardia Costiera libica per far diminuire i flussi di migranti, un’operazione che finora ha anche avuto successo, e a quale prezzo… Pensando al benessere di cui si gode in Europa a paragone con i paesi di provenienza di queste persone che cercano di migrare, sembra tutto assurdo. E sul campo bisogna tener conto che la Libia è un paese in preda a una guerra civile, e che abbiamo a che fare con una frammentazione: vari centri di potere diversi, diverse Guardie Costiere libiche, interlocutori diversi”.
(il video integrale dell’incidente del 6 novembre 2017)
Il reclutamento dei volontari
E se sulla carta Sea Watch non avrebbe nessuna intenzione di sottrarsi al suo ruolo di soccorso in mare, nei fatti non è così semplice: “i nostri equipaggi sono fatti per il 90 per cento di volontari, fatto salvo per il capitano, l’ingegnere di bordo e poche altre figure”. Sea Watch li seleziona e fornisce loro un addestramento per il lavoro a bordo. “E prima che si trovino in zona di ricerca e soccorso, facciamo loro un briefing psicologico, cerchiamo di stare attenti a questo aspetto”. Perchè in zona Sar, dice Axel, “si arriva molto vicino ai propri limiti. Io sono stato a bordo lo scorso giugno, ed è una prova sia fisica sia psicologica. E quando torni, dopo quello che hai visto, anche entrare in un supermercato ti sembra una cosa pazzesca. Capisci di essere circondato dall’abbondanza, dal superfluo, mentre le persone che hai preso a bordo sono disposte a morire per tirarsi fuori dalla miseria. A bordo sei pieno di adrenalina, e tutto preso dalle cose che ci sono da fare, ma quello che hai visto lo capisci solo quando torni a casa. E continui a chiederti – perché loro devono morire?”
La selezione dei volontari avviene ogni fine d’anno. C’è bisogno, fra gli altri, di un cuoco di bordo, di un ingegnere, di tre medici. Alcuni vogliono imbarcarsi di nuovo dopo aver fatto una precedente esperienza. E nella composizione dell’equipaggio “poi bisogna bilanciare l’equilibrio fra uomini e donne, e l’equilibrio fra le varie preparazioni professionali. Si presentano in 500 per forse 200 posizioni. E offrirsi volontari non è per niente una decisione facile”.
La cosa peggiore è quando si perdono delle persone, come è successo il 6 novembre, cioè quando non si riesce a soccorrere tutti. “Ti chiedi sempre se hai fatto abbastanza. Ti chiedi, dovremmo fare di più? Cosa dobbiamo fare per salvarne di più? E devi trovare qualche modo per fartene una ragione. Tutti gli equipaggi sono altamente motivati, si fa del proprio meglio, sanno che questo dovrebbe essere compito degli stati ma si fanno in quattro. Ma a livello individuale è molto dura. E ci stiamo rendendo conto che diventa sempre più pericoloso”.
La questione della sicurezza a bordo
Sea Watch segue alcune procedure di sicurezza, assicurandosi periodicamente con i volontari che sappiano che possono sempre tirarsi indietro se non se la sentono o hanno cambiato idea. “Facciamo sempre in modo che possano avere dei sostituti”, dice Axel, “stiamo raffinando le nostre procedure, man mano diventiamo più bravi a gestire anche cosa comunicare all’esterno, come comunicare eventuali difficoltà alle famiglie, e il nostro team è sempre in contatto con il personale a terra”.
Sea Watch non nasconde ai volontari quali potrebbero essere i pericoli a bordo, dai più normali incidenti alla situazione di alto mare e al rischio di armi a bordo. Ma quest’anno, “da quando la Guardia Costiera libica ha allargato la sua Sar, la situazione è cambiata e abbiamo chiesto a tutti se volessero fermarsi. Tutti hanno detto che bisognava continuare; adesso abbiamo anche un’assistenza legale, ma la situazione diventa sempre più strana e noi siamo solo una non profit, non siamo armati, e siamo responsabili della sicurezza dei membri dell’equipaggio. Veder riportare indietro un gommone dai libici è un’esperienza orribile, ma temo che per l’incolumità di tutti ci saranno momenti in cui ci troveremo costretti a fare un passo indietro”.
“Da eroi a criminali”
Intanto, Sea Watch continua a fare attività di informazione e di lobbying, soprattutto in Germania e con i politici tedeschi, cercando di influenzare le politiche sull’immigrazione. Ma il clima di accuse e propaganda in Germania non sembra, per come lo descrive Grafmanns, molto diverso da quello italiano: “nel giro di due anni siamo passati dal venire considerati degli eroi a essere considerati dei criminali. È stato scioccante”.
“Parte dell’origine di questa situazione sta nel fatto che l’Italia è stata lasciata sola troppo a lungo con la gestione degli sbarchi. Conosciamo la situazione italiana. Siamo stati al Senato italiano per un’audizione la scorsa primavera, e l’estate scorsa abbiamo discusso molto se firmare il codice di condotta che voleva il Ministero degli Interni, confrontandoci con le altre Ong; per noi la prima versione del codice era inaccettabile, mentre la seconda versione dopo le trattative non presentava motivi per noi di dire di no, anche se abbiamo capito benissimo perché invece Msf non se l’è sentita di firmare. Siamo sempre in contatto con le altre Ong, e ognuna è diversa”.
Per Axel, il futuro ha un brutto aspetto, e diventa “ogni giorno più strano. L’Unione europea sembra aver perduto interesse nei diritti umani. Sono preoccupato. Soldi e armi non sono lo strumento giusto per risolvere la situazione in Libia, e le ragioni che spingono i migranti a cercare di venire qui, come i cambiamenti climatici, non cambiano mica. La Libia è un luogo di tortura, e sta ai politici trovare una soluzione per viaggi sicuri. E non m’importa se in Europa siamo diventati una minoranza, dobbiamo continuare. Perfino nella Germania della Seconda guerra mondiale, completamente distrutta, c’era qualche persona che cercava di aiutare gli ebrei. Lasciar morire tutte queste persone è inaccettabile. E bisogna che cominciamo a renderci conto di quanto è ineguale il mondo in cui viviamo”.
In copertina: fotografia di Sea Watch.