Un approccio meno emergenziale e più pragmatico all’immigrazione è auspicabile oggi più che mai. Soprattutto in un momento in cui le polemiche si concentrano anche sulla fase successiva all’arrivo dei migranti, una volta che questi abbiano iniziato il percorso di richiesta di protezione internazionale
Una delle affermazioni più frequenti? Sono quasi tutti migranti economici, non fuggono da persecuzioni o guerre, basta guardare a quanti di loro venga negato lo status di rifugiato. Ma sarà davvero così?
Non è possibile trarre conclusioni se prima non si comprende come funziona la richiesta d’asilo, quali sono le fasi (e i tempi) attraverso cui viaggia la domanda di protezione internazionale e quali tutele al diritto di difesa siano garantite al migrante che chiede protezione internazionale. Vediamolo più in dettaglio.
Il passaggio in questura
La procedura di richiesta di protezione internazionale si articola in due fasi, amministrativa e giudiziaria. La prima, quella amministrativa, è forse la più delicata. Può iniziare nel momento stesso in cui il migrante arriva in territorio italiano, se questi esprime subito, alle autorità di Polizia, la volontà di ricevere protezione, anche oralmente.
Questura (Ufficio Immigrazione): dopo la richiesta, vi è la formalizzazione della stessa, attraverso la compilazione del verbale di presentazione della domanda di protezione internazionale (Mod. C3). Sebbene siano previsti, dalla legge, al massimo 10 giorni dalla richiesta per compilare il C3, i tempi reali possono anche andare dai 6 agli 8 mesi di attesa.
La Questura, una volta formalizzata la domanda, si occupa di trasmetterla alla Commissione Territoriale competente (in Italia, distribuite sul territorio nazionale, ce ne sono 20): anche in questo caso i tempi di risposta sono molto differenti da quelli previsti dalla legge.
Ci sono Commissioni, infatti, che stanno esaminando adesso istanze di 1 anno fa, quando va bene. Questi tempi, che fanno sì che si accumulino le pendenze presso le Commissioni, incidono non poco su forme e modalità di decisione.
Le Commissioni Territoriali
Torniamo infatti all’idea di partenza, ovvero quella che tanti dinieghi significhino che la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia non meriterebbe protezione internazionale o umanitaria.
E’ innegabile che, soprattutto negli ultimi due anni, si sia assistito, in Italia, a un incremento del numero di dinieghi pronunciati dalle Commissioni territoriali competenti sulle istanze per il riconoscimento della protezione internazionale (asilo o protezione sussidiaria) o umanitaria. Frutto, probabilmente delle pressioni politiche ricevute dall’Unione Europea, visto che, tale aumento, non sembra trovare altre ragioni concrete.
Su 63.456 richieste di asilo in prima istanza nel 2014, abbiamo un diniego al 39%. Nel 2015 i richiedenti sono stati 83.970, con esito negativo dei colloqui salito a 53%. Oggi, con i dati aggiornati a ottobre 2016, su 98.477 richiedenti si viaggia già su una media del 65% di dinieghi (dati Ministero dell’interno, dipartimento per le Libertà civili e l’immigrazione). Dati che, però, visti i lunghi ritardi con cui arrivano gli esiti delle decisioni, non permettono di avere un quadro preciso della proporzione tra domande e dinieghi di ogni anno preso in considerazione.
L’aumento dei dinieghi, come dicevamo, non pare avere nessuna ragione concreta se non le pressioni politiche ricevute in ambito nazionale e internazionale. Da cosa lo deduciamo? Dal fatto che vi è una sostanziale identità, nel 2014, 2015 e primi 10 mesi del 2016, delle nazionalità dei richiedenti: Nigeria, Pakistan, Gambia, Mali, Senegal.
Ma come si svolge la procedura di richiesta di asilo in Commissione? Il richiedente ha sempre la possibilità di spiegare al meglio le ragioni della propria domanda?
Il colloquio e i troppi dinieghi
Il richiedente, affiancato da un interprete e solitamente di fronte a un unico membro della Commissione, dovrà rispondere su tutti gli elementi significativi della sua domanda. In questa fase non solo è importantissimo che il lavoro dell’interprete riesca a esprimere fedelmente domande e risposte, ma che ci sia buona fede dall’una e dall’altra parte. Perché a volte il richiedente è abbastanza fortunato da poter allegare alla domanda una documentazione che dia fondamento alla sua richiesta (e in tal caso la Commissione può perfino decidere per l’accoglimento senza un colloquio).
Nella maggior parte dei casi quel faccia a faccia con il membro della Commissione è di vitale importanza, poiché sarà forse l’unico momento che il migrante avrà a disposizione per raccontare a voce la propria storia: le condizioni nel Paese d’origine, le persecuzioni e le sofferenze subite o temute, le circostanze personali e familiari.
Durante una recente seduta della Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema di accoglienza, di identificazione ed espulsione, nonché sulle condizioni di trattenimento dei migranti e sulle risorse pubbliche impegnate, il Presidente della Commissione ha diffuso alcuni dati, dichiarando:
“Secondo i dati che ci sono stati riferiti, il numero delle domande di protezione internazionale proposte dinanzi alle commissioni territoriali è cresciuto nel 2014 del 138 per cento, nel 2015 del 32 per cento e del 62,3 per cento nel primo trimestre del 2016 rispetto al corrispondente periodo del 2015.
Per far fronte a tale imponente incremento di lavoro sul fronte delle procedure amministrative, si è intervenuti sia sul numero che sull’organizzazione del lavoro delle commissioni territoriali, anche con l’istituzione di sezioni distaccate che adesso sono in grado di definire un numero di domande quasi pari a quelle introitate. Ovviamente la maggiore produttività delle commissioni, peraltro caratterizzata da un sensibile aumento dei provvedimenti di diniego – ha un’immediata ricaduta sul carico di lavoro degli uffici giudiziari”
Dunque maggiore produttività e più alto numero di dinieghi. Difficile non dedurne che, a un metodo che diventa troppo frettoloso, spesso mancante di una vera e propria istruttoria, consegua un’analisi non approfondita. La non credibilità diventa spesso il generico criterio su cui il diniego viene fondato, dando a volte come risultato esiti e decisioni fotocopia l’uno dell’altro.
Le decisioni della Commissione possono avere diversi esiti:
- riconoscere lo status (fino a ottobre 2016 su 75.780 esaminati in media il 6% ha ottenuto lo status di rifugiato, il 12% la protezione sussidiaria);
- rigettare la domanda se non esistono i presupposti di protezione internazionale e chiedere alla Questura il rilascio di un permesso per protezione umanitaria (finora il 17%);
- rigettare per manifesta infondatezza o perché si ritiene che la domanda sia stata presentata per ritardare l’espulsione o il respingimento, o giudicare inammissibile la domanda (65%).
Se si vuole ricorrere contro la decisione della Commissione, ci si potrà rivolgere al Tribunale ordinario (contro la cui decisione ci si potrà rivolgere poi alla Corte d’Appello e a quella di Cassazione). Ma proprio in questa fase emerge un dato interessante.
Tribunali intasati per i troppi ricorsi: perché?
Come già detto, in Italia, da gennaio a ottobre 2016, secondo i dati del Ministero dell’Interno, il numero dei richiedenti protezione internazionale è 98.477. Dei 75.780 esaminati, il 65% ha ricevuto un diniego. Un numero che, dunque, in due anni, è praticamente raddoppiato (ricordiamo il 38% del 2014). Che i ricorsi ai Tribunali siano aumentati, è dunque una conseguenza puramente matematica.
Un dato importantissimo va sottolineato: in questa fase il richiedente è affiancato obbligatoriamente da un avvocato il quale, auspicabilmente, si assicurerà che il giudice possa valutare nella maniera più agevole e completa ogni documento e dichiarazione. Il giudice, poi, è sicuramente autorità imparziale rispetto alle Commissioni che, come abbiamo già detto, subiscono delle pressioni di tipo politico.
Sebbene non ci siano dati ufficiali recentissimi sugli esiti dei ricorsi contro i dinieghi delle Commissioni (il Ministero della Giustizia ha dichiarato che li diffonderà quanto prima), molte associazioni di avvocati e giuristi hanno più volte fatto presente che, in sede di ricorso al Tribunale, l’esito sia positivo nella maggior parte dei casi.
Gli ultimi dati aggiornati sulle domande di asilo (sperando che il Ministero si affretti a diffonderne altri) lo confermano.
Innanzitutto, va detto che non tutti i richiedenti asilo a cui sia stata rigettata la domanda presentano ricorso, ma soltanto una metà di essi. Ma, dato fondamentale, i 3/4 dei ricorsi presentati sono accolti dai giudici. Nel 2014 coloro a cui non è stata riconosciuta alcuna forma di protezione sono 13.327, ma nello stesso periodo i ricorsi presentati presso la giurisdizione ordinaria verso i dinieghi o verso protezioni diverse dal riconoscimento dello status di rifugiato sono stati soltanto 7.343; di questi solo 558 sono stati chiusi e nel 77% (430) con esito positivo, ovvero sono stati accolti.
Tali percentuali accentuano l’impressione che una parte notevole delle decisioni negative adottate dalle Commissioni territoriali siano infondate e dunque il giudizio sulla vicenda della persona sia stato svolto in modo poco approfondito. A ciò rimedia successivamente il giudice, figura imparziale, sulla base dei ricorsi individuali, che, come prima detto, per i 3/4 non sono perciò affatto pretestuosi, ma fondati.
Un bel cambiamento, dunque, tra fase amministrativa e giudiziaria.
Non sono le domande a essere infondate
Il numero dei dinieghi in Commissione territoriale, dunque, se comparato alle decisioni giurisprudenziali, non serve, da solo, a valutare con obiettività la fondatezza delle domande di protezione internazionale presentate.
In mancanza di numeri precisi, per un quadro sempre aggiornato delle pronunce giurisprudenziali si può che rinviare ai siti www.asgi.it e a quello di Naga, su cui è possibile reperire la più recente giurisprudenza, anche di Corte d’Appello e di Cassazione. In cui si tiene conto dell’estrema vulnerabilità di chi fa domanda di protezione internazionale, della possibilità di cadere in contraddizione per semplici motivi linguistici e delle difficoltà, per chi fugge, di attenersi a un onere probatorio troppo stringente.
Si tratta di orientamenti giurisprudenziali che non dovrebbero sfuggire in sede di valutazione delle singole richieste di protezione internazionale da parte delle Commissioni. Se si dovesse continuare a non tenerne conto, afferma il giurista Fulvio Vassallo Paleologo, “si verificherebbe un’ impennata ancora più evidente del numero dei ricorsi e, per le ripercussioni che questi possono avere sulla durata dei procedimenti”.
IMMAGINE DI COPERTINA: Kate Ausburn – CC BY 2.0.