Una Libia che non esiste
L’Unione europea vuole fermare i migranti che arrivano dall’Africa, ma non è in grado di farlo da sola. Ha bisogno di una Libia che controlli le partenze, e che svolga attività investigativa nei principali “fortini” del traffico di uomini; una Libia con Guardia Costiera e Marina attrezzate per pattugliare il Mediterraneo; una nazione che regga accordi bilaterali che prevedono il trasferimento degli scafisti arrestati, sul modello dell’Operazione antipirateria “Atlanta” in Somalia, dove questi venivano affidati a stati terzi come Kenya, Mauritius e Seychelles. L’Ue e l’Italia vogliono un accordo di pace fra le tribù del Fezzan e un paese con un sistema giudiziario efficiente che rispetti i diritti umani e il diritto d’asilo. In poche parole, all’Europa serve una Libia che oggi non esiste.
Ma la strategia dell’agenzia europea Frontex, esemplificata da documenti, analisi e dal report Africa-Frontex Intelligence Community Joint Report 2016, è puramente quella di addestrare corpi militari e di polizia e integrare i sistemi di sicurezza e controllo delle frontiere dei paesi africani. Lo scopo dichiarato è quello di limitare i flussi e preservare le vite dei migranti, ma allora bisogna domandarsi: queste strategie funzionano?
L’addestramento della Guardia Costiera libica
La decisione di addestrare i libici viene presa il 20 giugno 2016; il 23 agosto arriva il Memorandum of Understanding: le firme sono dell’Ammiraglio Enrico Credendino, capo in comando della flotta europea Eunavfor Med-Sophia (Enfm), e del commodoro della Guardia Costiera libica, Abdalh Toumia. Il 27 ottobre parte la fase operativa: 93 fra ufficiali e sottufficiali vengono addestrati per 14 settimane su mezzi di Enfm con l’ausilio di due professori di inglese e otto interpreti. Prima a bordo della fregata italiana “San Giorgio” e di quella olandese “Rotterdam”, poi a Gaeta con l’ausilio della Guardia di Finanza, e infine sull’isola di Creta e a Malta. Il tutto con diversi ritardi: perché a settembre, a Misurata – il porto da cui partono i cadetti libici per l’addestramento – è di stanza anche il quartier generale delle forze che combattono per liberare la città di Sirte dall’occupazione dell’Isis; e perché in un’occasione i militari disertano l’addestramento per protestare contro il mancato pagamento degli stipendi. Un ultimo ritardo si verifica per accertarsi dell’identità del personale libico: l’Ammiraglio Credendino ha spiegato al Senato che “la selezione dei nomi è avvenuta grazie all’esame incrociato di indicazioni provenienti da servizi d’informazione europei: nei cinque casi dove sono affiorati dubbi, il personale in questione non è stato accettato per l’addestramento”. In pratica, la lista dei 93 è stata fornita dai libici e poi vagliata dai servizi di intelligence europei, come anche “la cellula di intelligence di Enfm retta da un finlandese e da un ufficiale di operazioni spagnolo” che l’Ammiraglio ha citato a Palazzo Madama lo scorso febbraio.
Il programma di addestramento è suddiviso in moduli di quattro settimane inframezzate da cinque giorni di pausa. A bordo della “Rotterdam”, del training si occupano le marine olandese, britannica, tedesca e greca. Insegnano ad abbordare navi, perquisirle, riparare i guasti meccanici, spegnere incendi. Sulla “San Giorgio” si punta sulle basi della navigazione astronomica e i principi del carteggio nautico. Nella seconda fase è il turno di Frontex e della Guardia Costiera italiana con lezioni teorico-pratiche sul diritto internazionale, i confini, l’attività di ricerca e soccorso. Nel terzo modulo, l’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu svolge un addestramento sui diritti umani. Fra le altre attività, l’insegnamento della navigazione sottocosta e d’altura, le telecomunicazioni, il primo soccorso, la maritime situational awareness e la vigilanza sulla pesca.
Chi sono la Guardia Costiera e la Marina libica?
È il 10 maggio quando al largo della Libia si consuma un incidente che poteva costare caro. Un’unità della Marina libica, la “Kifah 206”, impedisce alla Ong Sea-Watch di svolgere un’operazione di salvataggio di 600 migranti alla deriva. Lo fa con un’azione spericolata: tagliandole la strada ad alta velocità e virando un istante prima dello speronamento. È una manovra di stampo militare eseguita nei confronti di civili. A quel punto i militari prelevano i migranti e li trasbordano dal gommone al porto senza giubbotto salvagente, un’azione pericolosa che gli italiani rifiutano sempre di eseguire. Dopo l’incidente viene da chiedersi: ma chi è la Guardia Costiera libica? “In Libia ci sono almeno due entità”, spiega Eugenio Cusumano, assistant professor in relazioni internazionali all’Università di Leiden. “Una Marina militare centrale, e una Guardia costiera e di frontiera che dipende dalle autorità municipali, e quindi dalle milizie che detengono il controllo su una determinata zona”. Quest’ultima ha mezzi carenti ed è collusa con i trafficanti di uomini in Tripolitania, come dimostrano rivelazioni giornalistiche. I clan gestiscono il contrabbando con metodi mafiosi e a volte i ruoli di trafficanti e militari coincidono, come nel caso di Abdurahman Al Milad, detto Al-Bija, comandante della guardia costiera a Zawiya e, secondo diverse testimonianze, a capo del traffico di migranti.
A questa situazione caotica si sommano le ambiguità del governo: Mohamed Siala, ministro degli Esteri libico, ha spiegato come il Pc-Gna, il Governo di accordo nazionale appoggiato dall’Onu e presieduto da Fayez al-Serraj, abbia ricevuto richiesta dalla comunità internazionale di bombardare le milizie-clan dei trafficanti. L’esecutivo ha risposto che non adempirà alla richiesta, “per evitare uno spargimento di sangue libico. La Libia non sarà il poliziotto dell’Europa, che deve farsi carico delle proprie responsabilità senza chiedere ad altri di difendere i suoi confini. Non esiste una soluzione magica contro l’immigrazione illegale”.
Inoltre, secondo le Ong che lavorano nel Mediterraneo, le guardie costiere libiche non sarebbero due, ma almeno tre. Anche i portavoce di Tripoli, in occasione di incidenti e scontri a fuoco, hanno parlato di milizie non identificate che avrebbero sottratto uniformi, drappi e mezzi navali con cui pattugliare piccoli lembi di mare. Per l’incidente del 10 maggio è quasi impossibile capire quale corpo stia parlando e a quale versione credere: quella sera stessa, l’agenzia Reuters ha intervistato Ayoub Qassem, il portavoce della Guardia costiera libica. Questi ha sostenuto che l’incidente fosse avvenuto a 19 miglia nautiche dalla costa (acque internazionali, zona contigua) sostenendo, però, che fosse stata la Ong Sea-Watch a ostacolare il loro lavoro, e non il contrario. La mattina successiva parla di nuovo il Generale Ayob Amr Ghasem, confermando questa versione dei fatti, non più a nome della Guardia Costiera bensì come portavoce della Marina libica. Qassem parla anche con AFP, sostenendo che “l’incidente è avvenuto all’interno delle acque territoriali”. Che però sono a 12 miglia dalla costa e non a 19, come aveva dichiarato in precedenza. Una versione diversa dello stesso incidente si ricava dal video pubblicato sul sito dell’austriaco Der Standard. Si sente il giornalista Claas Meyer-Heuer riferire che, secondo il Comandante libico della motovedetta, a quelle coordinate ci si trova dentro le “acque economiche” della Libia, e sarebbe quindi un suo diritto riportare indietro i migranti. Le “acque economiche” in realtà sono la “zona economica esclusiva”, anche nota come “piattaforma continentale”: un’area di mare adiacente alle acque territoriali dove uno stato sovrano può esercitare diritti di gestione ed esplorazione dei giacimenti naturali, oppure attività di ricerca scientifica, ma non altro.
Viene anche da domandarsi: è questa la Marina libica che la missione europea Enfm ha addestrato? La motovedetta “Kifah 206” è uno dei 10 mezzi di salvataggio che si stanno restituendo al Governo di Tripoli? Già nel 2009 l’Italia aveva donato sei motovedette alla Libia. Due sono state bombardate e distrutte durante la guerra, mentre altri quattro pattugliatori sono stati parcheggiati e riparati vicino Napoli. Il piano odierno è ancora più ambizioso e doterà i libici di 10 ambulanze, 24 gommoni, 30 jeep, 15 automobili, 30 telefoni satellitari Thuraya, bombole ad ossigeno, mute da sub e binocoli a visione notturna. Costo di 800 milioni di euro, finanziati da Bruxelles: 200 già stanziati e 600 in arrivo dal Fondo per l’Africa. Sull’eventualità di fornire mezzi armati ci sono pareri discordanti: ad aprile di quest’anno l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, Federica Mogherini, ha dichiarato: “Forniremo ai libici assets non militari per consentirgli di combattere i trafficanti dentro le acque territoriali”, quindi nel rispetto dell’embargo Onu sulle armi. Il commodoro Abdalh Toumia invece dice che proprio perché “queste barche non sono dotate di armi, noi non possiamo utilizzarle per il pattugliamento. Prima della rivoluzione avevamo a che fare con trafficanti disarmati. Oggi ci troviamo di fronte a feroci bande armate”.
Libia: un paese insicuro per i diplomatici ma sicuro per i migranti?
Il 25 gennaio 2017, la delegazione della European Union Border Assistance Mission in Libya (Eubam Libia) che risponde allo European External Action Service (Eeas, l’ufficio comunitario per la diplomazia estera) scrive a Bruxelles: “ [In Libia] A causa dell’assenza di un Governo nazionale funzionante è difficile individuare le strutture dello Stato […] Le limitate possibilità di accesso a Tripoli e la situazione di sicurezza impediscono alla missione di completare la raccolta di informazioni necessarie”. Eubam Libia è la missione varata dall’Unione europea il 22 maggio del 2013, che proprio per ragioni di sicurezza è costretta ad operare da Tunisi, con brevi missioni di pochi giorni a Tripoli. Durerà sicuramente fino al 21 agosto 2017, con il suo budget annuale di 17 milioni di euro attinti dal “Meccanismo Athena”, il fondo per le operazioni militari europee. Ora che la Guardia Costiera e la Marina militare libica sono state addestrate e che bloccano i gommoni dei migranti, si è creata una situazione paradossale: la Libia non è considerata sicura per i funzionari europei, e infatti Eubam scrive che “ci aspettiamo che le riunioni con i libici continuino ad avvenire a Tunisi fino a quando la situazione della sicurezza a Tripoli non migliorerà”. Ma allo stesso tempo, per migranti e rifugiati, la Libia è un paese terzo e un porto “sicuro” dove possono essere respinti, seppur indirettamente. Nell’ultimo caso, accaduto il 10 maggio, il respingimento è avvenuto addirittura con il silenzio-assenso del Maritime Rescue Coordination Centre di Roma (Mrcc). Non era mai accaduto nell’ultimo triennio.
Addestriamo i libici da 15 anni e non funziona
Esistono documenti Frontex del 2004, quando l’Agenzia europea era nata da meno di un mese, in cui si parla di addestrare e coordinare i libici. Un’esigenza strana per l’epoca, visto che non si poteva parlare di “emergenza sbarchi”: quell’anno gli arrivi furono 13.635. L’addestramento odierno di Enfm è quindi solo l’ultimo tassello di un mosaico che compie 15 anni. La stessa Eubam Libia se n’è occupata in virtù del suo duplice mandato politico: se da una parte supporta il Pc-Gna in opere di “state building” (creazione di uno stato), per esempio le consulenze logistico-amministrative nell’edificazione di apparati come quello giudiziario o legislativo, dall’altro i mandati sono molto diversi. Il primo è quello di sviluppare un apparato di sicurezza interno contro il terrorismo e i traffici in armi, merci, droga e soprattutto petrolio – quest’ultimo diffuso sul confine tunisino di Ben Gardane. Il secondo è occuparsi di controllo delle frontiere di terra, mare e aria attraverso un corpo interministeriale: il Border Management Working Group che coordina e addestra gli uomini dei corpi navali, di polizia interna e di frontiera, l’aviazione e i funzionari doganali adibiti ai controlli passaporti e merci. Addestramenti pratico-teorici sono già avvenuti, dal 2013 a oggi, in varie località: Ghadames, Ra’s Ajdir, Tripoli e Misurata.
Il Capo della missione Eubam Libia è Vincenzo Tagliaferri: classe 1963, Primo Dirigente di Polizia di Stato. Parla inglese, francese e arabo e ha collezionato incarichi nel mondo delle relazioni Italia-Libia. È stato capo ufficio del Viminale presso l’ambasciata a Tripoli nel 2013; membro del Dipartimento per la pubblica sicurezza del ministero con delega alle nazioni dell’area Mena (Middle East and North Africa); nonché uno dei 23 uomini italiani che, fra il maggio 2009 e il marzo 2011, hanno fatto parte del nucleo guidato dalle Fiamme Gialle in Libia. Un nucleo che doveva allestire e coordinare una centrale operativa a Zuwarah per il controllo delle frontiere marittime – in maniera simile a quanto prevede oggi il Memorandum d’Intesa del 2 febbraio 2017: l’installazione di un Mrcc in Libia per poter affidare loro una zona di ricerca e soccorso ed esonerare così dai salvataggi le unità di Enfm, di Mare Sicuro e della Guardia Costiera italiana.
La missione 2009 era figlia dei protocolli attuativi firmati dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato, e dal Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione firmato nel 2008 da Berlusconi e Maroni e dall’ex rais libico Mu’ammar Gheddafi. Patti accolti con entusiasmo dai vertici italiani. A dicembre 2007 il ministro Amato disse: “Sarà ora possibile un pattugliamento con squadre miste a ridosso delle coste. In questo modo elimineremo i traffici, salvando vite umane, e sgominando bande criminali”. Dopo qualche mese gli faceva eco il neo ministro dell’Interno, Roberto Maroni: “È un passo in avanti decisivo. Si prevede una diminuzione degli sbarchi a Pasqua per arrivare all’azzeramento d’estate”. Nove anni dopo, abbiamo un flusso che è sestuplicato e una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo per il “caso Hirsi”. Oltre alla condanna, nel fallimento di quelle politiche c’è la mancata collaborazione dei libici con gli uomini della Guardia di Finanza, tanto che ai 23 italiani della missione guidata dalle Fiamme Gialle non sarebbe stato permesso di indossare l’uniforme, ma solo un completo blu.
I libici si confermano restii alle cessioni di sovranità: ad aprile, il ministro dell’Interno Marco Minniti ha convocato al Viminale, per siglare un accordo di pace, i rappresentanti delle principali tribù dell’area meridionale del Fezzan. Sono i Tebu, i Tuareg e gli Awlad Suleiman, che dal 2011 al 2015 si sono combattuti fra di loro. Ma 48 ore dopo la firma, sulla stampa libica è comparso un comunicato dell’Assemblea Nazionale delle Tribù Tebu che recita: “I delegati che hanno firmato l’accordo di Roma non rappresentano la comunità Tebu. Vengono da Qatrun, mentre gli scontri con Tuareg e Suleiman sono avvenuti nelle zone di Obari, Sebha e Murzuk. Comprendiamo la necessità italiana di controllare il flusso di migranti, ma ciò non dà il diritto a Roma di intervenire negli affari interni dei libici o di ignorare i canali ufficiali con cui il Governo italiano poteva comunicare”.
Il Viminale è tornato all’attacco, con un nuovo summit con i ministri dell’Interno di Libia, Ciad e Niger. Se nel 2008 l’intesa economico-politica, sancita nell’articolo 20 del Trattato Italia-Libia, prevedeva “un ampio partenariato industriale nel settore della difesa” e la “realizzazione di un sistema di controllo delle frontiere terrestri da affidare a società italiane in possesso delle competenze tecnologiche” come Selex-Leonardo-Finmeccanica, che vide stanziati 300 milioni per un sistema di sorveglianza radar lungo i 5 mila km di frontiere meridionali, oggi lo scopo è diverso. “Per le tribù libiche è un accordo di pace sui danni del conflitto. Credono o sperano che qualcuno in Europa li risarcisca”, spiega Mattia Toaldo dello European Council on Foreign Relations, “mentre Roma vorrebbe sviluppare una guardia di frontiera e inserire membri delle tribù nella gestione dei centri di detenzione di cui si parla in queste ore”. Per Toaldo la strategia del ministro Minniti è grave perché “crea un precedente in cui a trattare con gruppi para-statali non è nemmeno il ministero degli Esteri, ma il Viminale. Ma soprattutto perché gli obiettivi della pacificazione e del controllo dei traffici sono in sé contraddittori: ogni gruppo cercherà di chiudere le vie del contrabbando di altri clan, creando così le premesse per il riaccendersi del conflitto”.
Tutte le fotografie sono di Eunavfor Med-Operazione Sophia (CC 0).