“Il metodo degli hotspot non è stato un’idea dell’Italia.” Comincia così il nuovo rapporto di Amnesty International che indaga cosa è cambiato per i profughi in arrivo nel nostro paese da quando è stata implementata la prassi degli hotspot su ordine dell’Unione Europea. Come si comprende da quella frase, il rapporto sta in bilico fra le responsabilità concrete dell’Italia, nei casi dove sono avvenute gravi violazioni, e la responsabilità politica dell’Europa.
Il rapporto di Amnesty di 65 pagine, che esce oggi, analizza le conseguenze delle tre missioni degli hotspot: la raccolta obbligatoria delle impronte digitali, lo screening immediato per stabilire le necessità di protezione e separare migranti irregolari da richiedenti asilo, e l’applicazione del rimpatrio forzato in paesi d’origine dove queste persone sono “a rischio di persecuzione o tortura.”
Secondo il Regolamento di Dublino, i profughi sono tenuti a richiedere asilo nel primo paese d’arrivo. Peccato che i profughi senza visti né documenti non viaggino in aeroplano, e così il primo paese d’arrivo sia quasi sempre l’Italia o la Grecia, le frontiere d’Europa per chi arriva da Africa e Medio Oriente. Secondo le norme di Dublino, l’identificazione della persona migrante andrebbe effettuata appunto nel primo paese d’arrivo. Fra il 2013 e il 2015, invece, l’Italia ha lasciato “scorrere” attraverso il proprio territorio tutti coloro che non volevano chiedere asilo qui, cioè la maggior parte dei profughi siriani ed eritrei – finché l’Europa non ha detto basta.
Amnesty ha condotto la sua indagine a Roma, Palermo, Agrigento, Catania, Lampedusa, Taranto, Bari, Genova, Ventimiglia e Como, con interviste a 174 fra profughi e migranti. Ha anche incontrato molte ONG che operano sul territorio e alcuni funzionari europei, ma dichiara di non essere riuscita a ottenere risposte dal prefetto Giovanni Pinto né dal Ministero dell’Interno.
Gli hotspot sono stati istituiti per raccomandazione della Commissione Europea nel maggio del 2015, col mandato di ottenere il “100% delle identificazioni” all’arrivo. Una prima roadmap in Italia era stata adottata dal 28 settembre 2015. In un rapporto della Commissione Europea del 15 dicembre 2015 si raccomandavano all’Italia nuove norme legislative per “allungare i tempi di carcerazione preventiva” per chi avesse fatto resistenza al rilevamento delle impronte. Nonostante abbia spesso accennato all’idea di un decreto legge, in realtà l’Italia non ha mai cambiato legislazione. A marzo del 2016 è partita la procedura attuale.
Pestaggi, scosse elettriche e umiliazioni sessuali sono fra le numerose accuse di abusi documentate nel rapporto. Il ricercatore di Amnesty sull’Italia Matteo de Bellis dice che “i leader della UE hanno spinto le autorità italiane al limite e oltre il limite di ciò che è legale. Il risultato è che persone traumatizzate, che arrivano in Italia dopo viaggi strazianti, vengono sottoposte a definizioni fallaci del loro status e in alcuni casi a spaventosi abusi da parte della polizia, così come a espulsioni illegali.”
Una donna eritrea di 25 anni ha raccontato di essere stata schiaffeggiata ripetutamente sul volto da un poliziotto finché non ha acconsentito a lasciarsi prendere le impronte.” Altri raccontano di essersi visti negare cibo e acqua. In un caso è stata negata l’assistenza medica a una donna in gravidanza che aveva già fornito le impronte in un altro hotspot. In alcuni casi le detenzioni preventive superano le 48 ore. Il rapporto di Amnesty ricorda che la legge italiana non prevede azioni coercitive per ottenere campioni fisici da individui che non cooperano.
In un altro passaggio del rapporto si legge: “un ragazzo di 16 anni e un uomo di 27 hanno raccontato che la polizia li ha umiliati sessualmente e ha inflitto loro dolore ai genitali. L’uomo ha detto ad Amnesty che alcuni poliziotti a Catania lo hanno picchiato e gli hanno inflitto scosse elettriche prima di farlo spogliare e di usare su di lui delle pinze a tre punte: ‘ero su una sedia di alluminio che aveva un’apertura nel sedile. Mi tenevano per le braccia e per le spalle, mi hanno stretto i testicoli con le pinze e hanno tirato due volte. Non riesco neanche a spiegare quanto sia stato doloroso.'”
Amnesty rimarca che questi casi gravissimi si verificano nonostante “il comportamento della maggior parte dei poliziotti resti professionale e la vasta maggioranza delle operazioni di raccolta delle impronte si svolga senza incidenti.” In alcuni casi, gli abusi sembrano aggravati da una mancanza di chiarezza legislativa, dall’impreparazione specifica degli agenti, e dalla cronica mancanza di interpreti all’arrivo. In altri casi, invece, sembra proprio di assistere a gratuiti episodi di arroganza e abuso della forza da parte della polizia.
A chiedere lumi in questi mesi è stata la polizia stessa. Nel febbraio del 2016 il sindacato di polizia UGL aveva scritto una lettera al capo della polizia Alessandro Pansa per ricordargli “che non c’era alcuna base legale per l’uso della forza al fine di ottenere le impronte digitali.” Nel gennaio del 2016 il capo della polizia ha in pratica detto che perché in un hotspot si possano praticare termini di detenzione più lunghi, dovrebbe diventare un CIE: i centri di detenzione ed espulsione in cui non a caso tutte le principali ONG hanno rilevato violazioni dei diritti umani.
Le altre gravi conseguenze della politica degli hotspot in Italia riguardano lo screening. Pretendendo di separare immediatamente migranti irregolari da persone che hanno necessità di asilo significa, si legge nel rapporto, “che la polizia deve chiedere ai nuovi arrivati di spiegare perché sono venuti in Italia, invece che semplicemente domandare loro se intendono chiedere asilo. Siccome lo status di rifugiato non è determinato dalle ragioni per cui una persona ha fatto ingresso in un paese, ma dalla situazione che questa persona affronterebbe se dovesse tornare al paese d’origine, questo approccio si dimostra gravemente difettoso.” Nel documento usato dalla polizia si può scegliere solo fra queste opzioni: “ricerca di lavoro,” “ricongiungimento con la famiglia,” “fuga dalla povertà,” “fuga per altre ragioni” – nessuna di queste corrispondente a uno status legale in Italia – e per ultima, “per richiedere asilo.”
Come spiega il rapporto, “sulla base di questa brevissima intervista, gli agenti, che mancano di un addestramento adatto, di fatto stanno prendendo una decisione sulle necessità di protezione di questa persona. Chi secondo gli agenti non ha i presupposti per chiedere asilo riceve subito un ordine di espulsione – inclusa quella basata sul rimpatrio forzato nel paese d’origine.”
Alcune delle storie più strazianti arrivano da profughi sudanesi. Dopo gli accordi bilaterali sul rimpatrio negoziati negli anni con l’Egitto, la Tunisia, il Marocco e la Nigeria, sotto la pressione della UE l’Italia ha negoziato dei cosiddetti MoU (Memorandum of Understanding) con paesi che hanno commesso spaventose atrocità. Uno di questi è stato firmato da Italia e Sudan il 3 agosto di quest’anno. Amnesty racconta che questo ha già portato a casi di espulsioni illegali. “Il 24 agosto di quest’anno, 40 persone identificate come cittadini sudanesi sono state messe su un volo dall’Italia a Khartoum. Amnesty ha parlato con un uomo di 23 anni del Darfur che era su questo volo e che ha descritto come le forze di sicurezza sudanesi li stessero aspettando al loro arrivo: ‘ci hanno portato in un’area speciale dell’aeroporto e hanno cominciato a picchiarci… Siamo stati interrogati uno per uno… Adesso ho paura che le forze di sicurezza mi cerchino, e se mi trovano, non so cosa mi succederà.'”