Di “esternalizzazione” – e cioè del subappalto della gestione delle frontiere a paesi terzi – si è fatto un gran parlare a seguito dell’entrata in vigore del tanto criticato accordo di riammissione tra l’Unione Europea e la Turchia. Nel patto tra i leader europei e il governo di Ankara si è infatti previsto, in cambio di 6 miliardi di euro al governo di Erdogan, il respingimento in Turchia di tutti coloro che arrivano “illegalmente” in Grecia, delegando in questo modo il problema del controllo della frontiera balcanica alle autorità turche. Con evidenti, drammatiche ricadute in termini di violazioni dei diritti umani.
Niente di nuovo sotto il sole, però. L’accordo tra Bruxelles e Ankara è infatti solo la più recente (e non certo l’ultima) tappa di un processo che va avanti da tempo, e che negli ultimi tempi – sotto la pressione della cosiddetta “crisi dei rifugiati” – ha subito una preoccupante accelerazione.
L’ARCI, nell’ambito del proprio progetto di monitoraggio del fenomeno, ha pubblicato una approfondita analisi del processo di esternalizzazione delle politiche europee e italiane sulle migrazioni – ripercorrendone le tappe principali, e individuandone le più gravi conseguenze in termini di sistematiche violazioni dei diritti fondamentali.
Facciamo il punto con Sara Prestianni, specialista in politiche internazionali d’immigrazione e curatrice del rapporto per ARCI Immigrazione.
Perché l’esternalizzazione è una logica pericolosa?
La caratteristica fondamentale del processo di esternalizzazione è che in questo contesto si aprono delle trattative con paesi terzi senza tenere in considerazione quale sia lo stato dei diritti umani in questi luoghi o come vengano gestite dai governi locali le questioni migratorie. Si parla di paesi – o forse sarebbe meglio dire dittature – come il Sudan, il cui presidente Omar al-Bashir è oggetto di un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale.
L’unico elemento che viene preso in considerazione è quello dell’interesse geopolitico, nel senso che vengono aperte trattative con paesi “chiave” alla luce della loro vicinanza con l’Europa. Questo – e cioè il trattare coi paesi che ci interessano per la loro posizione geografica, senza alcun riguardo per il rispetto dei diritti umani – si può definire un elemento storico della pratica dell’esternalizzazione.
C’è però anche un elemento nuovo, altrettanto pericoloso: se infatti da sempre si fa un utilizzo strumentale dei fondi allo sviluppo, adesso si è proprio messo nero su bianco che tali aiuti sono incentivi o penalità per chi collabora o meno nelle procedure di espulsione e rimpatrio (NdR: nella Comunicazione della Commissione Europea di cui si parlerà più sotto). Gli aiuti allo sviluppo sono così diventati ufficialmente uno strumento di attuazione di politiche di controllo nei paesi di origine e transito dei flussi migratori, cosa evidentemente e profondamente sbagliata.
Alla base di questo approccio vi sono una serie di assiomi politici gravemente scorretti, a iniziare dall’idea dell’“aiutamoli a casa loro”. Si assume insomma che, se si aumentano i fondi allo sviluppo, si evitano le migrazioni – ma non c’è niente di più falso, come ha del resto ben spiegato lo stesso rappresentante per i diritti dei Migranti alle Nazioni Unite François Crepeau. Sono infatti numerosi gli studi che dimostrano che gli aiuti allo sviluppo non diminuiscono affatto le partenze ed è quindi evidente quanto sia erroneo qualsiasi ragionamento fondato su questa premessa.
Un’altra idea da rigettare è che queste politiche siano giustificabili in quanto mosse dall’obiettivo di ridurre il numero dei morti in mare, quando invece è evidente che i migranti continueranno a partire e a morire in mare fino a quando non si garantiranno vie d’accesso legali e sicure. Una situazione che, lungi dall’essere migliorata, sarà invece gravemente peggiorata dall’approccio dell’esternalizzazione che dà un ruolo centrale a paesi come la l’Eritrea e la Libia, nelle cui carceri si registrano sistematici omicidi e uso della tortura
Un ultimo elemento che è molto importante sottolineare è la logica politica perversa sottesa a tutti questi ragionamenti: da un lato, la pesantissima ingerenza europea nel continente africano, chiedendo di mettere in atto sistemi di controllo a paesi che all’interno dello spazio ECOWAS (e cioè nei territori della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale) dovrebbero prevedere la libera circolazione. Dall’altro, si apre a una vera e propria contrattazione con i paesi africani sulla pelle di centinaia di migliaia di persone.
Un esempio eclatante: il Kenya, non essendo stato incluso tra i primi paesi che avrebbero ricevuto nuovi fondi allo sviluppo, ha conseguentemente minacciato – proprio in virtù di questa logica di contrattazione che ormai è stata instaurata – di chiudere Dadaab, il più grande campo profughi del mondo.
Le prime tappe europee della strategia di esternalizzazione in Africa sono state il Processo di Khartum, avviato nel 2014, e il Summit Europeo alla Valletta del 2015. Quali si sono state le conseguenze di questi due importanti incontri?
L’esternalizzazione è una strategia fondante delle politiche europee da ormai un decennio, ma recentemente si è assistito a un’accelerazione degli accordi e dei loro effetti grazie all’investimento di ingenti “fondi per lo sviluppo” nella criminalizzazione della migrazione.
Questo soprattutto in Africa, ed a partire appunto da Khartum e La Valletta.
Khartum e La Valletta sono infatti i due momenti fondamentali nella strutturazione dei rapporti della UE con l’Africa Sub-Sahariana, seguendo la politica di esternalizzazione del controllo delle frontiere che era stata già adottata dal Processo di Rabat – nell’ambito del quale si era infatti lanciata, nel 2007, la collaborazione della UE nella gestione della migrazione con alcuni paesi del Maghreb.
Da Khartum in poi la logica già applicata per controllare la frontiera marocchina-spagnola è stata estesa anche alla zona del Corno d’Africa e questo ha portato all’inedito riconoscimento di un ruolo importante a paesi come l’Eritrea, il Sudan e il Niger: dittature che erano state fino a quel momento escluse dal dialogo con l’Unione Europea e che sono diventate tutto d’un tratto interlocutrici chiave nella gestione della problematica delle migrazioni.
Si sono inoltre consolidati l’utilizzo strumentale dei fondi allo sviluppo nonché la volontà – che poi è la caratteristica fondamentale del processo di esternalizzazione – di ostacolare il percorso dei migranti verso l’Europa e facilitare il rimpatrio di quanti ritenuti trovarsi “illegalmente” sul territorio europeo.
Per quanto riguarda La Valletta, qui l’elemento veramente significativo è stato il fatto che si siano messi sul tavolo della trattativa dei fondi specifici, e cioè i Fondi Fiduciari per l’Africa (si parla di 1,8 miliardi di euro), da distribuire tra i paesi interessati dalla rotta del Mediterraneo Centrale: la regione del Sahel (Libia, Mali e Niger) ed il Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea, Somalia e Sudan).
Nel Summit si rinforza il ruolo chiave dei rimpatri nelle politiche di controllo delle migrazioni, mentre parallelamente avanza anche il discorso sull’istituzione di centri hotspot – o, meglio, dell’adozione di un vero e proprio “approccio hotspot” per agevolare l’identificazione dei migranti all’arrivo e quindi anche il loro rapido respingimento.
La terza tappa del processo è stato poi il Migration Compact proposto dal premier itaiano Matteo Renzi. Quali sono le criticità di questo documento?
Il Migration Compact riproduce il modello del criticatissimo accordo UE-Turchia con i principali paesi africani di origine e transito dei migranti nella rotta del Mediterraneo Centrale.
Particolarmente inquietante è qui proprio il ruolo centrale dell’Italia, che evidentemente non impara dai suoi errori: si propone qui infatti di continuare ad applicare (ed estendere ad altri paesi) la logica perversa del tanto criticato accordo siglato con la Libia di Gheddafi nell’agosto del 2008 – al quale è conseguito un periodo buio dal punto di vista delle violazioni dei diritti, inclusa una condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Tanto non impariamo dai nostri errori che di quell’accordo, in occasione del vertice Italia – Africa del maggio 2016 (tappa fondamentale nel percorso di discussione del Migration Compact), è stata addirittura proposta la riattivazione.
Non si può mancare di rilevare come in questa discussione pesi molto l’interesse dell’Italia di intrattenere relazioni economiche con i paesi di quest’area.
Ma l’interesse per un rilancio economico dell’Italia in Africa non può certo andare a discapito della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito delle migrazioni.
I quattro assi dell’interesse economico, della sicurezza, dello sviluppo e delle migrazioni – che si uniscono e confondono pericolosamente in rapporti di condizionalità e interdipendenza nell’ambito del dialogo con gli stati africani – dovrebbero essere tenuti nettamente separati.
Infine è arrivata la recentissima Comunicazione della Commissione Europea al Parlamento Europeo, al Consiglio Europeo e alla Banca Europea d’Investimento sulla creazione di un nuovo quadro di partenariato con i paesi terzi nell’ambito dell’agenda europea in materia di migrazione.
Qual è il contenuto di questo documento e perché è tanto problematico?
Sempre prendendo ad esempio positivo il famigerato accordo con la Turchia – nonostante sia a questo punto chiaro che questo abbia prodotto sistematiche violazioni del diritto d’asilo ed espulsioni illegali (nonché il trattamento inumano e degradante dei 60.000 profughi stipati nei centri di accoglienza greca) – la Comunicazione sancisce il quadro di collaborazione con i principali paesi di origine e transito sia della rotta del Mediterraneo centrale che di quello orientale. In pratica, si estende la logica del Migration Compact a un ambito geopolitico significativamente più ampio.
Inoltre, per la prima volta nel documento della Commissione si ufficializza l’idea di condizionare dei fondi (miliardari) – che peraltro non è ben chiaro da dove dovrebbero provenire – per lo sviluppo alla collaborazione sulla migrazione, consacrando così la trasformazione della cooperazione in un “premio” o in una “penalità” rispetto all’impegno nel controllo delle frontiere e nella riammissione dei profughi.
Una contrattazione che, l’abbiamo già detto, avviene evidentemente sulla pelle dei migranti – perché gli accordi di riammissione legittimano procedimenti di espulsione accelerati, che portano a violazioni del diritto d’asilo (negandosi il diritto alla valutazione individuale), se non a vere e proprie espulsioni collettive. Basti l’esempio dell’accordo dell’Italia con l’Egitto che, permettendo il respingimento entro le 24 ore, rende impossibile una valutazione adeguata dei singoli casi.
Ma anche una contrattazione che può mettere l’Europa in posizione di scacco, rendendola di fatto “ricattabile” dai paesi con cui si stringe questi patti (come nel già citato esempio del Kenya).
Il Sudan offre un esempio davvero eloquente di cosa voglia dire “politiche fatte sulla pelle dei profughi”.
Abbiamo scelto l’esempio del Sudan, paese di origine ma soprattutto di transito dei rifugiati del Corno d’Africa, perché permette di dimostrare gli effetti diretti della strategia di esternalizzazione e soprattutto della trattativa.
La stessa carta della “apertura e chiusura del rubinetto” che Gheddafi aveva saputo giocare benissimo nel 2009 e che Erdogan prova a giocare oggi, è stata messa in mano anche a una delle peggiori dittature africane (quella di Omar al-Bashir). E sembra interessare davvero poco a Italia ed Europa che, in nome della lotta all’immigrazione, si stia trattando con un efferato dittatore sulla sorte (o, meglio, sulla pelle) dei profughi eritrei.
In Sudan, nel frattempo (lo denuncia Human Rights Watch) è in corso una vera e propria “caccia all’eritreo” che ha portato all’espulsione di centinaia di profughi verso l’Eritrea. Paese che, nonostante l’Europa paia convenientemente non ricordarlo, è una dittatura sanguinaria, dove coloro che hanno provato a fuggire sono considerati disertori e detenuti in condizioni disumane.
In questo modo si contribuisce anche a legittimare lo stesso Omar al-Bashir, come del resto già era avvenuto con altri dittatori prima di lui.
Questo è un fattore che va evidenziato con forza: nell’ambito del processo di esternalizzazione, l’Europa non si fa problemi a sedersi al tavolo delle trattative con i peggiori dittatori, che vengono così pericolosamente “rivalutati” come legittimi attori della politica internazionale.
Un altro esempio eloquente è quello del Gambia, che ci permette di evidenziare come l’Italia porti avanti la sua strategia di esternalizzazione anche al di fuori della dimensione europea.
Se parlare di accordi con stati come il Sudan e il Niger ci fa capire come il fenomeno delle esternalizzazioni si inscriva in una strategia europea in cui l’Italia ha un ruolo fondamentale, l’esempio del Gambia ci dimostra come ci sia anche – in aggiunta alla dimensione comunitaria – un’azione che l’Italia porta avanti da sola, a livello bilaterale, con i paesi di origine dei migranti che sono sul suo territorio.
Il Gambia è infatti oggi un paese strategico, perché è la terza nazionalità dei profughi che arrivano nel nostro paese. Per questo motivo, l’Italia cerca di negare il fatto che sia una dittatura – nonostante siano numerosi i rapporti che denunciano le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrati dal dittatore Yahya Jammeh – in modo da poter etichettare tutti i gambiani come migranti economici.
In questa sede è importante evidenziare anche un ultimo fattore che desta molta preoccupazione: in Italia come in Europa vi è una totale opacità su questi accordi e le relative trattative. Tutti accordi informali, stretti nell’ambito di processi come quello di Karthum, senza nessun controllo (e tanto meno ratifica) dei parlamenti – con le evidenti conseguenze in termini di rischio di possibili derive.
Ad esempio, gli accordi con il Gambia – secondo cui, in cambio di forme di collaborazione e formazione di polizia, lo stato africano si impegna a emettere il lasciapassare necessario per procedere al rimpatrio entro 48 ore dal riconoscimento della nazionalità da parte di forze di polizia gambiane presenti sul territorio italiano – sono stati siglati tra il Capo della polizia italiano e il suo omologo gambiano.
Insomma, “un chiaro esempio di esternalizzazione delle frontiere e dei controlli che, abbandonando qualsiasi parvenza di interesse per i diritti umani, allontana dal nostro Paese e dall’UE, per pochi denari, la responsabilità di dare protezione alle persone che ne hanno diritto”.
Scarica e leggi il rapporto ARCI in versione integrale (disponibile in italiano, inglese e francese).