7.426 i casi di razzismo raccolti nel database tra il 1° gennaio 2008 e il 31 marzo 2020: 5.340 violenze verbali, 901 violenze fisiche, 177 danneggiamenti alla proprietà, 1.008 casi di discriminazione. Dati preoccupanti, anche considerando, come specifica Grazia Naletto (Lunaria), che tale monitoraggio “resta comunque parziale perché spesso chi è colpito da razzismo tende a non reagire”. È infatti un’evidenza che “la gran parte delle ingiustizie resta confinata nel silenzio di coloro che le subiscono e nell’omertà dei molti che ne sono testimoni passivi e, dunque, anche complici”, scrive Naletto nel capitolo ‘2008-2019: un decennio e più di ordinario razzismo’. Una situazione che non stupisce, in un paese che si caratterizza per un sempreverde razzismo istituzionale: secondo il rapporto di Lunaria le istituzioni si caratterizzano per un approccio fortemente discriminatorio, fil rouge che percorre trasversalmente gli anni tra il governo Berlusconi IV (2008-2011) e il secondo governo Conte (2019-2020). Tra le 1.008 discriminazioni riscontrate, in 663 casi i responsabili sono da rintracciarsi tra personaggi politici o amministrativi, contro le 324 commesse da privati cittadini. Un dato su cui è necessario soffermarsi, perché è da qui che bisogna partire per sciogliere quello che Lunaria definisce “un intreccio stringente, sistemico e perverso tra le parole cattive di chi conta, le rappresentazioni distorte di chi racconta, le offese violente di chi commenta online e le violenze razziste fisiche”.
Proprio per questo l’associazione si sofferma da anni sul piano istituzionale, portando avanti un’osservazione sistematica da cui emerge il profondo nesso tra l’approccio politico all’immigrazione, la rappresentazione dei cittadini di origine straniera nella società, e come quest’ultima agisca nei loro confronti. Con uno sguardo anche al fenomeno dell’hatespeech online, visto oggi come una conseguenza del clima reale. “Spesso ci concentriamo sui discorsi di odio, ma è arrivato il momento di capire chi odia e agire alla radice”, commenta Paola Andrisani (Lunaria), mettendo l’accento sul processo di creazione dell’odio virtuale. “I bersagli sono rimasti pressoché identici”, afferma Andrisani, denunciando anche una stretta correlazione tra razzismo e sessismo, “e lo stesso si può dire per le retoriche. I social seguono a ruota”. È dunque un’attenzione ai discorsi che legittimano razzismo e discriminazioni ciò che viene sollecitato, con un excursus che dal 2008 ci porta all’oggi, ripercorrendo la stigmatizzazione compiuta dalla politica: “Non si può non citare quanto accaduto più di recente, quando abbiamo assistito alla stigmatizzazione dei cittadini «cinesi» tout court”, scrive Andrisani nel capitolo ‘Discorrendo d’odio. Un decennio di retoriche violente e razziste online e non solo’, riportando le dichiarazioni con cui il presidente della Regione Veneto Luca Zaia si riferiva alla popolazione cinese, veicolando stereotipi fatti passare come “fatti culturali”.
La responsabilità politica si palesa anche nelle scelte amministrative. “Questi anni – commenta Naletto – sono stati attraversati dalla proclamazione di innumerevoli ‘emergenze’: dall’ ‘emergenza’ rom all’ ‘emergenza sbarchi’, passando per l’ ‘emergenza’ Nord Africa”. Una lettura che facilita l’approccio securitario, e che è via via diventata un modello, lasciando spazio a un’accoglienza che non facilita l’inserimento delle persone ma, quello sì, la proliferazione di cattive prassi.
“La mala accoglienza è stata ingigantita al posto che essere gestita dalla politica” denuncia Giuseppe Faso (Straniamenti), autore insieme a Sergio Bontempelli del capitolo ‘La lunga parabola del sistema di accoglienza italiano’, in cui si evidenzia come proprio a partire dalla cosiddetta ‘emergenza Nord Africa’ “l’ospitalità pubblica dei richiedenti asilo cominciò a essere concepita come una forma di custodia di persone indesiderate e indesiderabili”, in una “torsione autoritaria” volta al controllo delle persone e non più al loro accompagnamento nell’acquisizione di diritti. Questo, associato a un’attenzione sempre minore per la qualità dei servizi, ha portato “all’incremento della presenza di enti profit, capaci di investire in centri di grandi dimensioni ricavandone cospicui fatturati”. Una situazione che si è riversata inevitabilmente sulle vite delle persone inserite in questi circuiti di (mala)accoglienza, e anche sulla rappresentazione della stessa: tanto la politica quanto i media hanno evitato di mettere in questione la cornice imposta dalla destra sul tema dell’accoglienza, con “i temi agitati dell’invasione dei migranti, della loro pericolosità sociale”, dei privilegi di cui sarebbero oggetto. Piuttosto, questa narrazione è stata assecondata. Del resto “discutere gli schemi proposti in questo caso dalla destra significa già prenderli in considerazione, e dunque riprodurli”, afferma Faso, sottolineando che incoraggiare queste cornici interpretative e le paure delle persone che da esse emergono è la postura da tempo adottata dalla politica, di qualsiasi colore. “Dopo le retoriche aggressive del Ministro Salvini, si tende a sottovalutare il fatto che risalga a Minniti l’assunzione piena del tema insicurezza, all’ombra dell’espressione «fare i conti con le paure della gente»: che sarebbe impresa sacrosanta, se non significasse accettare come dato di fatto il frame imposto dalla destra sulle ‘paure della gente’”. Un approccio che non si assume la responsabilità di “proporre politiche di messa in questione di percezioni distorte”, ma che accetta lo status quo. “Non ci si è chiesti se una percezione distorta della realtà non dipenda da una rappresentazione del reale, e quali siano i soggetti e i canali che mettono in circolo tale rappresentazione: chi pesa di più sulla rappresentazione dell’immigrazione, se non politici, giornalisti, redattori? E chi più di loro può (potrebbe) operare un reframing su questi temi?”, domanda retoricamente Faso.
Proprio al ruolo ricoperto dai media mainstream – che contribuiscono a delineare il dibattito pubblico e l’agenda politica, come specifica Paola Barretta (Carta di Roma) – il Quinto Libro Bianco dedica particolare attenzione. Nel contributo ‘Luci e ombre dell’informazione mediatica sul razzismo’ Barretta si sofferma sulla costruzione mediatica che spesso contribuisce a diffondere messaggi di odio, e lo fa andando indietro nel tempo, seguendo la lunga prospettiva su cui si muove l’intero rapporto. Secondo Barretta “si può affermare che il giornalismo risulta responsabile, seppure spesso in modo involontario, nella propagazione di contenuti di razzismo simbolico”, che corrisponde a “un’atmosfera sociale di ostilità nei confronti di individui e gruppi minoritari a cui risultano associati stereotipi profondamente negativi”.
I media dunque come strumenti di diffusione e consolidamento di pregiudizi, attraverso l’estensione di comportamenti individuali a intere comunità: da ciò discenderebbe “la successiva legittimazione delle opinioni razziste nel dibattito pubblico”. Nell’analisi mediatica Barretta delinea due aspetti: uno di continuità, corrispondente all’etnicizzazione della notizia e alla criminalizzazione aprioristica del cittadino straniero – elementi che Barretta evidenzia proponendo una lettura che va dai delitti di Novi Ligure e Erba e arriva all’oggi -; l’altro invece di discontinuità. La rappresentante di Carta di Roma si riferisce all’emersione, nell’ultimo anno e mezzo, della voce delle vittime del razzismo, fino a qualche tempo fa silenziate, invisibili. Una maggiore centralità frutto “di una maggiore sensibilità dei media e di una crescente visibilità dei rappresentanti della diaspora, dei cittadini stranieri, che ora assumono protagonismo nella rivendicazioni di diritti”.
Il percorso dodecennale proposto dal Quinto Libro Bianco sul razzismo in Italia smonta ciò che l’antropologa Annamaria Rivera definisce “la retorica della prima volta”. Nel capitolo ‘Un decennio d’infamie razziste, fino all’estremo’ Rivera sottolinea come “di fronte a manifestazioni di razzismo pur gravi o estreme, a prevalere nella coscienza collettiva come tra non pochi locutori mediatici, istituzionali, politici, perfino fra taluni intellettuali di sinistra, è la tendenza a rimuoverne i segni premonitori e gli antecedenti; ma anche a sottovalutare o ignorare la propaganda, le politiche, i provvedimenti legislativi che li hanno favoriti”.
Non ci si stupisca, dunque, di fronte agli insulti a Beatrice Ion, atleta paraolimpica di origine rumena, in Italia da 16 anni, protagonista pochi giorni fa di un attacco razzista. E nemmeno di fronte al caso del cittadino del Bangladesh gettato nei navigli, a Milano. O ancora, delle barricate a Mondragone ed Amantea dopo la notizia di alcuni cittadini di origine straniera risultati positivi al Covid-19. Episodi troppo recenti per essere inseriti nel Quinto Libro Bianco sul razzismo in Italia, ma che sono frutto proprio di quello che il lavoro descrive e ripercorre, proponendo ciò che Naletto indica come “un racconto ragionato di quella parte di razzismo quotidiano che riusciamo a documentare”.
Un lavoro necessario per quanto non statistico, come specifica la stessa Lunaria chiarendo che l’emersione dei casi di razzismo si deve, oltre che a consolidate fonti, al tipo di focus scelto nei vari periodi e alle testimonianze, naturalmente verificate, che arrivano direttamente all’associazione. “Un archivio della memoria delle discriminazioni e delle violenze razziste”, specifica Naletto. Una rappresentazione assente in Italia, dove non esistono dati ufficiali e istituzionali su un fenomeno che permea il paese e grava sull’intera società. Una mancanza le cui motivazioni sono da rintracciarsi proprio tra le pagine del Quinto Libro Bianco sul razzismo in Italia.
In copertina: Manifestazione Black Lives Matter, Roma Piazza del Popolo 2020. (Foto via Facebook Black Lives Matter Roma)