È partita il giorno di pasquetta ed è arrivata il giorno di fine Ramadan la Life Support, la nave di Emergency, per la sua diciottesima missione. La prima ricorrenza, secondo la tradizione cristiana, corrisponde all’annunciazione dell’Angelo della resurrezione di Cristo e la seconda, il “Eid El-Fitr”, è il giorno di festa per i fedeli musulmani in cui si rompe il digiuno festeggiando. Lì, il 5 Aprile, in zona SAR libica sono state soccorse 202 persone e entrambe le sponde del Mediterraneo celebravano messaggi di salvezza, vita e resurrezione.
“Io non ci voglio tornare mai più in Libia” grida un giovane appena mette un piede a bordo del rhib (Rigid Hull Inflatable Boat), il gommone di salvataggio usato da Emergency. Alle sue spalle oltre la barca di legno da cui è stato soccorso, c’è anche una terza imbarcazione con tre persone a bordo. Li guarda di nascosto, cerca di non farsi vedere. “In mare ci si identifica sempre, ma loro non hanno risposto al nostro contatto radio – commenta Anabel Montes Mier, capo missione – non sappiamo chi siano”. Uno dei tre indossa un passamontagna. “Non dovete fare contatto visivo, non sappiamo cosa può succedere” spiegavano durante le esercitazioni pre-partenza. L’ONG bianca e rossa è impegnata in missioni di search and rescue nel Mediterraneo Centrale e, tra nuovi e vecchi ostacoli come il teso rapporto con la guardia costiera libica, non sempre va tutto liscio.
La tensione è alta, infatti, durante il soccorso di Emergency dopo gli spari tirati in prossimità degli operatori della Mare Jonio il giorno precedente. La nave dell’Ong Mediterranea è stata circondata durante l’operazione di soccorso dalla motovedetta Fezzan, donata dal governo italiano alla guardia costiera libica lo scorso anno. Un pericolo che pareva lontano per Emergency. Almeno inizialmente. Ma ecco che verso la fine del soccorso della Life Support, la Fezzan, targata e riconoscibile dal numero 658 impresso sul fianco, si intravede come un puntino all’orizzonte. Una macchia nera che diventa sempre più grande. Si avvicina, l’equipaggio non può perdere tempo. Oltre un episodio di spari come quello riservato a Mediterranea, c’è il rischio che i naufraghi vengano presi dalla guardia costiera e rimandati indietro.
In quei momenti il tempo per pensare è poco: l’azione, la manualità, le procedure studiate per mesi sono le protagoniste. Di fronte ad una persona da soccorrere i discorsi su accoglienza, integrazione, clandestinità, che riempiono i canali Tv e il programmi politici si silenziano per un istante e la missione passa sopra la politica. Tra le prime persone fatte salire nella mothership dal Rhib ci sono i bambini, poi le donne. Il modo in cui sorridono una volta aver messo piede a bordo lascia come la sensazione che siano loro ad accogliere te. Vengono dal Bangladesh, Siria, Eritrea. “Io quel mare l’ho attraversato – confida Yohanes Ghebrey, mediatore culturale di Emergency, che anni fa ha viaggiato dall’Eritrea attraversando il Mediterraneo proprio come molti dei migranti che incontra – so i rischi che hanno intrapreso. Più di 7 persone muoiono ogni giorno nel Mediterraneo, almeno quelli che si sanno”.
“Rischiare la nostra stessa vita come ultima speranza. C’era acqua che schizzava da tutte le parti, eravamo in piedi schiacciati l’uno sull’altro al punto da non poter muovere più le gambe, non c’è più circolazione sanguigna – racconta Abel, ha 17 anni ed è venuto insieme a sua madre Nour dalla Siria, vorrebbe diventare un programmatore – in questo viaggio abbiamo messo tutte le nostre speranze, ma come niente, tutto sarebbe potuto svanire nel nulla, così”. “Quando abbiamo visto la vostra nave arrivare è stato come l’inizio di una nuova vita” raccontano invece Sham e Mohammed, sono fratelli e anche loro hanno lasciato la Siria per arrivare in Europa per una guerra civile che sembra dura a spegnersi.
Nella zona shelter, dove le 202 persone sono accolte nel tragitto fino a Ravenna, un’area è dedicata a donne e bambini. Si levano il velo per cantare “Siamo amiche di viaggio ormai, inshallah” dicono. Sham intreccia i capelli di tutte, anche i più piccoli. E così i 5 giorni di tragitto fino a Ravenna scorrono.
Ci sono persone per cui, però, il viaggio ha avuto inizio anni prima. Come Malek, partito dall’Eritrea. Sul braccio si legge una scritta incastrata a forza sull’epidermide: “God help me”, il nero dell’inchiostro è sfumato, forse è stato fatto all’inizio del suo viaggio, iniziato 7 anni fa. Si copre il tatuaggio come può con la maglia, forse ora non ne ha più bisogno. Nell’ex colonia italiana “c’è una dittatura per cui il paese è militarizzato e la leva obbligatoria è spesso a tempo indeterminato” spiega il giovane, è uno dei 14 minori a bordo della nave.
Come lui, anche Sami è partito anni fa. “La mia famiglia ha investito tutto quello che aveva per farmi partire dal Bangladesh, anche la loro stessa casa – racconta Sami – ora vivono per strada”. Guarda i suoi compatrioti cantare allegri al ritmo di una bottiglia di plastica convertita in tamburo “ma ora finalmente saremo felici, abbiamo la nostra libertà”.
Quando lo sbarco finisce i membri dell’equipaggio si abbracciano, qualcuno propone un brindisi. “Salute!” brindano gioiosi. “Alla vita!”, “Anzi, alle vite!”, tutti sorridono.