“Casa mafi, mafi”. “La casa non c’è, non c’è”. Mediha, 58 anni, sistema il cartone per terra, vicino alle valigie. Sul viso, il tatuaggio di una croce rivela la fede copta e l’origine eritrea. Sono le 22.30 del 19 agosto: la mattina, 500 agenti di polizia con i blindati hanno sgomberato circa 800 persone dal palazzo di via Curtatone, in piazza Indipendenza a Roma, vicino alla stazione Termini. La sera, non sapendo dove andare, 200 abitanti del palazzo si sono sistemati nei giardini della piazza: davanti all’edificio dove vivevano da quattro anni, e dove nel pomeriggio sono riuscite a rientrare soltanto le famiglie con i bambini. Quel presidio improvvisato diventerà in pochi giorni il simbolo del fallimento delle politiche di integrazione dei rifugiati a Roma, e non solo. Preludio di settimane di sgomberi, resistenza, trattative fallite e nuove emergenze sociali.
L’occupazione dei rifugiati, nata dopo il naufragio del 3 ottobre
Quella del palazzo di via Curtatone, ex sede della Federconsorzi, era un’occupazione nota: era nata poco dopo la strage di Lampedusa del 3 ottobre del 2013, nell’ambito della tsunami tour, una serie di occupazioni di stabili vuoti organizzata dai movimenti di lotta per la casa. Qui si erano stabiliti all’inizio alcuni dei superstiti di quel naufragio al largo della spiaggia dei Conigli costato la vita a 368 persone. Tutti eritrei ed etiopi, molti di loro in transito verso altri paesi dell’Unione europea, altri invece richiedenti asilo in Italia. Al momento dello sgombero, tutti gli occupanti erano rifugiati, alcuni residenti in Italia anche da diversi anni e in possesso della carta di soggiorno. L’occupazione era infatti “controllata”, senza quel documento non si poteva entrare. Un documento che permette di essere regolare in Italia ma che da solo non aiuta a trovare un lavoro o ad affittarsi una casa. “Perché ci hanno fatto rimanere qui se poi non potevano aiutarci? Era meglio per noi arrivare in Francia e in Germania, lì sei tutelato, qui no”. Per tutti, e anche per Mediha, il nemico è il regolamento di Dublino, che li ha costretti a chiedere asilo nel primo paese di approdo. “Sono in Italia da cinque anni, sono anziana, ogni tanto mi arrangio a fare le pulizie. Questo è l’unico posto dove stare che avevo trovato, lì dentro c’è tutta la mia vita. Da qui non me ne vado senza aver ripreso tutto”.
Medhina e gli altri resteranno in presidio per strada quasi per una settimana. Nel cuore di Roma, senza bagni, con l’assistenza quasi esclusiva di poche organizzazioni umanitarie: Medici senza frontiere (Msf), Intersos, Croce rossa. Il 23 agosto un dispiegamento di forze preannuncia un nuovo sgombero: quello dei giardini di piazza Indipendenza. Per una giornata intera, gli agenti rimangono in tenuta antisommossa e i rifugiati asserragliati nei giardini, mentre si svolge una trattativa serrata: in piazza ci sono Paolo Lojodice, vescovo vicario di Roma, i rappresentanti dell’Alto Commissariato per i Rifugiati (Unhcr) e quelli della comunità eritrea. Trattano con le forze dell’ordine e con i rappresentanti della Sala operativa sociale del Comune per evitare un’azione violenta e trovare una soluzione condivisa. Nel frattempo in prefettura si apre un tavolo a cui partecipano Comune, Regione e i proprietari del palazzo. Si vagliano varie ipotesi: dai centri a disposizione di Roma Capitale per i casi di fragilità, a un complesso di appartamenti nel reatino messo a disposizione dal proprietario del palazzo di via Curtatone per 40 famiglie. A metà giornata, l’azione violenta sembra scongiurata e la soluzione conciliante sempre più vicina.
Ma la mattina dopo – il 24 agosto alle 6 – i blindati fanno di nuovo irruzione nella piazza per quella che la stessa prefetta di Roma, Paola Basilone, ha chiamato “un’operazione di cleaning”. Le scene sono da guerriglia urbana: la polizia usa idranti e manganelli, i rifugiati rispondono lanciando oggetti, tra cui alcune bombole di gas. In tutto saranno due le cariche violente, di cui la seconda, a metà mattina, su un gruppo di donne che stavano raccogliendo i propri oggetti nella piazza. Alla fine il bilancio, secondo Msf che ha soccorso le persone durante gli scontri, è di 13 persone assistite e 5 portate all’ospedale. Una di loro, Gemma Vecchio, non era tra gli occupanti ma è la presidente di Casa Africa, e si trovava lì per mediare. La notte del 24 però, nonostante la giornata di tensione, le persone sono di nuovo in strada. L’amministrazione ha offerto 80 posti in due diversi centri, ma loro non intendono accettare: innanzitutto perché le famiglie verrebbero separate (donne da una parte, uomini dall’altra), ma anche perché i rifugiati hanno deciso di unire la loro lotta a quella dei movimenti per la casa, che chiedono un piano di politiche abitative a Roma. Il nuovo presidio resisterà un’altra settimana a piazza Madonna di Loreto, nella zona dei Fori Imperiali. Qui i rifugiati subiranno due nuovi sgomberi, l’ultimo il 5 settembre.
Dall’occupazione alla strada
“Dove dobbiamo andare?”, ripete Aster, 42 anni, somala, da 14 anni in Italia. “Io non sono venuta con un barcone”, racconta, “ma con un regolare contratto di lavoro. Ho lasciato i miei figli a casa e sono venuta qui per riuscire a mantenerli”. Quindici anni fa, Aster ha incontrato ad Addis Abeba quella che definisce “una dottoressa speciale”, una donna medico italiana che lavorava nella cooperazione. “Ero rimasta vedova da poco, con tre bambini piccoli, e lei mi ha proposto di venire qui a lavorare. Dopo avrei potuto portare anche loro”, racconta. “I due gemellini più piccoli avevano un anno e mezzo, la più grande quattro anni. Così è stato. Ho lavorato tutti i giorni, senza mai prendere un giorno di ferie, facendo di tutto: dalle pulizie alla badante, ho persino lavorato in un negozio di Gucci qui in centro. Dopo tanta fatica, nel 2010, sono riuscita a fare il ricongiungimento familiare. È la cosa per cui sarò sempre grata all’Italia: i miei figli ora sono con me”. Ma ad Aster è rimasto anche il grande rimpianto di non aver dato loro una casa. “Ho lavorato tanto, ma spesso in nero. Per un periodo ho avuto una casa in affitto perché avevo un contratto, poi ho perso il lavoro e così sono andata a via Curtatone. Ma non avrei mai immaginato di trovarmi per strada, mi vergogno tantissimo. Quello di cui oggi ho paura è di non riuscire a realizzare il sogno di mia figlia di fare l’università. Vuole diventare medico, sarebbe bellissimo”.
Dopo il secondo sgombero a piazza Venezia, Aster è andata a vivere in un’altra occupazione a Roma, quella di via Collatina, in una zona periferica della capitale, ospite da un’amica. “Nelle occupazioni in periferia le persone sono meno visibili”, spiega Biniam, 40 anni, eritreo, arrivato in Italia nel 2003. Anche lui racconta di aver fatto mille mestieri, dall’operaio all’ambulante, ma mentre aspettava l’esito della domanda d’asilo si è anche iscritto prima a un corso di italiano, poi all’università, dove studia ingegneria meccanica. “Mi manca solo un esame alla laurea”, dice, “ma per vivere lavoro in una bancarella”. Dopo il quarto sgombero, Biniam ha trovato ospitalità da amici, ma in una casa: “per non farmi dormire in strada mi hanno detto che potevo stare qui”, spiega. “Le persone che vivevano a via Curtatone ora vivono sparpagliate in diverse parti della città: alcuni hanno accettato la sistemazione provvisoria nei centri di accoglienza, altri si sono appoggiati da amici come me, altri ancora vivono negli stabili occupati. Quello che continuiamo a chiedere è una sistemazione stabile, non per sempre, ma almeno per vivere degnamente: nei centri i nuclei familiari si dovrebbero dividere. E le persone più grandi, come me, dovrebbero rinunciare alla loro vita: c’è chi va a lavorare all’alba, o di notte, sono orari non compatibili con quanto ci offrono”. Biniam sta aspettando da un mese di potersi riprendere gli oggetti lasciati a via Curtatone: “lì dentro c’è tutto quello che sono stato in questi anni, e ci sono anche i ricordi della mia famiglia: le foto, i libri, i regali che mio padre e mia sorella mi hanno dato prima di partire. Tutta la mia vita, lì dentro”.
L’emergenza sociale e l’integrazione che non c’è
Nei giorni scorsi, davanti all’ingresso del palazzo di via Curtatone è stato montato del filo spinato per evitare che lo stabile venga occupato di nuovo. Intanto l’emergenza sociale non è finita: in tutto, spiega il Comune di Roma, sono 76 le persone che hanno accettato di essere ospitate nei centri di accoglienza. L’assessora alle politiche sociali, Laura Baldassarre, ha più volte ribadito che il compito del Comune è intervenire per dare assistenza alle fragilità, dando la priorità a donne, disabili, anziani e mamme con bambini. E ha ribadito che la vicenda “non va strumentalizzata”, affermando: ”mi auguro che tutti coloro che hanno diritto all’accoglienza presso le nostre strutture accolgano le proposte, senza cedere alle pressioni di alcune realtà che dimostrano di essere interessate più alla loro visibilità in piazza che a trovare soluzioni concrete”. I movimenti per la casa continuano, invece, a parlare di soluzioni “indegne”. “Sono soluzioni provvisorie, inaccettabili”, afferma la portavoce del Movimento per il diritto all’abitare di Roma, Margherita Grazioli, “non hanno la minima considerazione di queste persone. E lo dimostra il fatto che i loro beni personali sono stati caricati sui furgoncino dell’Ama [la nettezza urbana]”.
“Non è che noi non vogliamo ricominciare da zero”, dice Biniam, “abbiamo ricominciato tante volte, a qualsiasi livello, ma chiediamo una soluzione che rispetti la vita delle persone”. Dal canto suo, il Ministero dell’Interno ha annunciato alcune linee guida sugli sgomberi (che non verranno attuati quando mancano soluzioni alternative) e l’approvazione di un “piano integrazione”. Intanto molti continuano a dormire per strada, alcuni vengono ospitati nel presidio degli attivisti di Baobab Experience, altri negli stabili occupati in periferia. L’Unhcr ha chiesto una “concreta strategia di intervento sociale”: “la situazione di grave disagio e marginalità in cui vivono migliaia di rifugiati, incluse molte famiglie con bambini, in insediamenti informali ed occupazioni si protrae ormai da molti anni rendendo urgente la messa in atto di concrete strategie di intervento sociale per tali contesti”, e nella sua nota sottolinea che da mesi sta chiedendo alle autorità a livello locale e nazionale di “trovare una soluzione immediata per le persone attualmente all’addiaccio e […] garantire ai beneficiari di protezione internazionale presenti a Roma adeguati servizi per l’integrazione”.
In copertina: a Piazza Indipendenza le donne eritree e somale si sistemano per la notte, dopo lo sgombero del palazzo di via Curtatone (foto: Federica Mameli, come tutte le fotografie di questo articolo)