Mentre in tutta Europa il sistema carcerario si adatta, pur con lentezza e fatica, alle restrizioni imposte dalla pandemia di coronavirus, un’altra realtà detentiva sembra – salvo poche eccezioni – esserne solo scalfita. È quella del trattenimento dei migranti in situazione irregolare, finalizzato formalmente al rimpatrio nei paesi di origine.
Circa 155,000 cittadini stranieri sono stati rimpatriati da paesi dell’Unione Europea (incluso il Regno Unito) nel 2019, transitando in gran parte per una costellazione di centri chiusi, distribuiti lungo le frontiere interne ed esterne dell’Unione. Strutture spesso fatiscenti, teatro di proteste, suicidi e violenze eppur presentate, da governi di colori diversi, come indispensabili strumenti di gestione del fenomeno migratorio.
“Con la pandemia, diversi paesi europei hanno rivisto le loro misure carcerarie: lo stesso non si può dire della detenzione cosiddetta amministrativa”, dice Michael Flynn, direttore del Global Detention Project, organizzazione svizzera che monitora le condizioni di detenzione di migranti e rifugiati nel mondo. Per Flynn, questo è un ulteriore segno della “crudeltà inerente” a questo sistema.
Mentre la Spagna, caso limite nel continente, ha chiuso in poche settimane tutti i suoi otto Centros de internamiento de extranjeros, la maggior parte dei paesi dell’UE ha apportato misure correttive minime, ricorrendo solo marginalmente a quelle che in gergo sono le ‘alternative alla detenzione’: misure affini all’obbligo di dimora e firma per i carcerati, in questo caso in attesa del rimpatrio, previste dalla legislazione comunitaria ma adottate di rado.
Giuristi, organizzazioni della società civile e gli stessi garanti dei detenuti di diversi paesi europei hanno chiesto di chiudere le strutture, ritenendo illegittime le misure di trattenimento – data l’impossibilità materiale di eseguire il rimpatrio quando gran parte dei paesi del mondo ha chiuso i propri confini – e sollevando anche preoccupazioni per le condizioni sanitarie dei centri, in cui sono già stati registrati diversi casi di contagio.
Per Yasmine Accardo, referente della campagna LasciateCIEntrare, che dal 2011 lavora per garantire l’accesso nei centri italiani a giornalisti e società civile, “stiamo vivendo in un regime straordinario, ma i centri per i rimpatri continuano a essere gestiti in maniera ordinaria, con conseguenze drammatiche”.
Rischi sanitari e ridotto diritto alla difesa
In Italia la questione fa capolino nelle terze pagine dei giornali a fine marzo, quando circola la notizia che uno dei trattenuti nel Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, è positivo al Covid-19. Un video, girato da un altro detenuto, mostra l’uomo sdraiato per terra e infine accompagnato su una barella da personale sanitario.
Il divieto di ingresso e uscita dalla Lombardia, previsto dall’8 marzo, non aveva impedito che una decina di giorni dopo l’uomo fosse prelevato dalla provincia di Cremona e condotto nel CPR di Gradisca d’Isonzo,in una regione allora poco colpita. Il 26 marzo, non appena la notizia del contagio trapela, il ministero dell’interno diffonde una prima circolare sul tema, in cui si chiede alle prefetture competenti per gli otto CPR attivi di effettuare un “costante monitoraggio” sulla salute dei trattenuti e di assicurare una “idonea dotazione di materiale per la cura dell’igiene”.
Richieste rafforzate da una circolare successiva, dei primi di aprile, che introduce anche un obbligo di isolamento preventivo per i nuovi ingressi, riducendo eventualmente la capienza dei centri per ricavare spazi adatti.
Diverse fonti confermano però che i presidi sanitari, ovvero le mascherine chirurgiche, generalmente due a detenuto, verranno consegnate solo due settimane dopo, senza che ci sia una sufficiente igienizzazione delle strutture né vengano distribuiti gel idroalcolici né – tantomeno – che si effettui il test a tutti gli ospiti, pur se provenienti da zone ‘rosse’ ed in contatto con operatori e agenti delle forze dell’ordine.
Nei CPR si continua a vivere in stanze con altre 4 o 5 persone e talvolta a mangiare gomito a gomito in spazi comuni e il 24 aprile, nello stesso centro di Gradisca d’Isonzo, il numero di contagiati salirà a 5.
Nel frattempo le presenze nei centri si riducono di settimana in settimana a partire da fine marzo, con una serie di rilasci per scadenza dei termini di detenzione e una riduzione di nuovi ingressi. Al 24 aprile i trattenuti erano 250, a fronte di circa 380 a fine marzo, in sei CPR: Gradisca d’Isonzo, Torino, Roma, Palazzo San Gervasio (Potenza), Brindisi, Caltanissetta e Macomer (Nuoro). Il centro di Trapani, già poco utilizzato, viene svuotato.
Per l’avvocato Gianluca Vitale, strutture inadeguate e condizioni sanitarie precarie si riflettono anche sul diritto alla difesa. Nel CPR di Torino, “non chiamo più i miei assistiti alle udienze di proroga del trattenimento, perché si troverebbero in uno spazio piccolo, a contatto con persone venute dall’esterno e senza il distanziamento necessario”, spiega il legale, raccontando di un’udienza in cui il giudice, proprio per mancanza di spazio, “partecipava restando fuori dalla finestra della palazzina, dentro cui mi trovavo con l’assistito e le forze dell’ordine”.
Il sequestro dei telefoni personali, divenuto prassi in diversi centri nonostante la comunicazione con l’esterno debba essere garantita per legge, crea poi ulteriori problemi. “Mentre nelle carceri si è aperto all’uso di applicazioni WhatsApp o Skype, essendo sospesi i colloqui dal vivo, chi è trattenuto nei CPR deve spesso accontentarsi di un telefono a gettone, il chè rende difficile comunicare sia con i famigliari che con gli avvocati”, prosegue Vitale.
A fronte del rilascio di diversi trattenuti alla scadenza dei sei mesi di termine o perché gli è riconosciuto l’asilo, altre persone si sono viste prorogare la detenzione anche quando il loro paese di origine, che si tratti di Nigeria, Marocco, Egitto o Cina, aveva chiuso le frontiere aeree per arginare il contagio. Nel frattempo le richieste di riesame inoltrate da diversi avvocati, invocando l’impossibilità di garantire misure sanitarie adeguate nei centri, sono state in gran parte respinte.
Questi elementi, sostiene Vitale, “confermano il vuoto giuridico in cui si muovono i CPR, luoghi sospesi che a differenza delle carceri non rispondono a norme definite”.
Sulla scia dell’Italia, il governo francese è intervenuto con misure organizzative, ovvero riadattando spazi e introducendo maggiori controlli, solo dopo l’emersione di casi di contagio all’interno di diversi Centres de rétention administrative (CRA). Il 20 aprile Adeline Hazan, contrôleur général – l’equivalente del garante per i diritti dei detenuti italiano – ha chiesto al governo di chiudere in modo provvisorio tutti i centri.
“Il fondamento legale delle misure di detenzione è venuto meno, perché le prospettive di allontanamento sono compromesse e il diritto alla difesa non è garantito”, ha scritto dopo aver visitato il centro di Vincennes, in cui nove persone erano risultate positive al Covid-19 e diversi trattenuti dichiaravano di non aver accesso a dispositivi igienici.
Circa 900 persone erano trattenute nei CRA e in altre aree di detenzione ai confini alla metà di marzo e – nonostante le pronunce di alcuni tribunali in favore del rilascio dei detenuti – gli attivisti della rete Ȧ bas les CRA [Abbasso i CRA], hanno segnalato almeno cinquanta nuovi ingressi attorno a metà aprile, in un contesto segnato da proteste e scioperi della fame.
Oltre la Manica, quello del Regno Unito è uno dei sistemi di detenzione più duri del continente: non pone limiti temporali e nel 2019 era responsabile da solo del 20 per cento dei rimpatri dall’UE pre-brexit. A un mese di distanza dal successo di un’azione legale dell’organizzazione Detention Action, che ha portato alla liberazione di 350 persone a fine marzo, le promesse del governo di proseguire con i rilasci sembrano però rallentate. Secondo la stessa Ong circa mille persone sarebbero ancora trattenute, in condizioni di rischio sanitario e forte stress.
Da dove nasce l’eccezione spagnola
Mentre dunque per molti paesi europei la detenzione dei migranti prosegue come business as usual e gli appelli alla chiusura dei centri da parte di società civile, Consiglio d’Europa e Alto commissario ONU per i diritti umani hanno trovato poco ascolto, la Spagna è riuscita a svuotare completamente i suoi otto centri di trattenimento nel giro di un mese.
Dietro alla decisione di Madrid c’è “un contesto particolare, in cui la società civile lavora da decenni con il governo per creare alternative alla detenzione”, spiega Barbara Pilz, coordinatrice europea di International Detention Coalition, piattaforma di organizzazioni che si occupano di detenzione in tutto il mondo.
Nacho Hernandez, avvocato e consulente legale dell’organizzazione umanitaria Fundación Cepaim, spiega che all’origine della decisione del governo c’è essenzialmente la legge spagnola, che limita le detenzione a due mesi non prorogabili, decisamente al di sotto del tetto dei 18 mesi previsto dalle norme europee. “Con la dichiarazione dello stato di emergenza, il 14 marzo, è stato chiaro che continuare la detenzione era illegale, così diverse organizzazioni della società civile hanno spinto per una chiusura totale”, spiega Hernandez.
I risultati si sono visti in poche settimane e a metà aprile erano state rilasciate le ultime tre persone detenute nel CIE di Algeciras. Erano quasi 500 appena un mese prima. “È stata data priorità a chi poteva garantire di avere un alloggio nel comune di residenza, da solo o tramite familiari: per gli altri, si è provveduto all’inserimento in strutture di accoglienza”, prosegue il legale. Fra queste ci sono quelle di Fundación Cepaim, che già gestisce programmi di integrazione per richiedenti asilo e senzatetto.
Se la scure della deportazione rimane sospesa sul capo di chi è stato rilasciato, a meno che non riesca ad accedere al arraigo social, canale di regolarizzazione basato su residenza e promessa di lavoro – quasi impossibile da ottenere con le restrizioni dovute alla pandemia – l’esempio spagnolo sembra porsi all’opposto di quello italiano.
Yasmine Accardo racconta infatti che “molti dei detenuti rilasciati dal centro di Ponte Galeria a Roma o da quello di Palazzo San Gervasio in Basilicata si sono trovati a vivere per strada, con un invito a regolarizzarsi o a lasciare il territorio che non poteva essere ottemperato, a causa innanzitutto della chiusura degli uffici competenti”.
Verso una maggiore sorveglianza, tra confini e rimpatri
Belgio e Germania hanno seguito in parte l’esempio spagnolo, riducendo il numero di detenuti e chiudendo alcuni centri, per inserire le persone in strutture di accoglienza temporanea.
Per diverse organizzazioni di tutela è dunque il momento buono per premere sull’acceleratore delle misure alternative alla detenzione. Michael Flynn del Global Detention Project mette però in guardia contro “l’idea che le alternative siano una panacea: per funzionare, devono essere calate nella realtà locale e basate sul rispetto dei diritti umani”.
Un rischio, secondo il ricercatore, è che le misure alternative diventino allettanti anche per l’industria della sorveglianza, “che negli USA vende già braccialetti elettronici da indossare alle caviglie per migliaia di migranti irregolari in attesa di rimpatrio”, normalizzando di fatto l’uso di questi sistemi per la gestione delle migrazioni.
Rex Osa, attivista della rete tedesca Refugees4Refugees, teme da parte sua che il rilascio di molti migranti dai centri di detenzione in Germania, non sia che “una misura temporanea, all’interno di un sistema sempre più repressivo”. I migranti rilasciati nell’ultimo mese, spiega Osa, “sono stati in gran parte indirizzati agli stessi centri per richiedenti asilo in cui vivevano prima della detenzione e sono obbligati a rimanervi per accedere a servizi di base: appena finirà l’emergenza, sarà facile rintracciarli e riprendere i rimpatri”.
Ma c’è un ultimo cambiamento che preoccupa Osa, come altri osservatori: la trasformazione di centri di accoglienza aperti, per richiedenti asilo e rifugiati, in realtà chiuse, in nome di misure di quarantena. “Con questa scusa l’esercito è arrivato a presidiare già diverse strutture in Germania e c’è il rischio che, finita l’emergenza, resti lì: si usa il coronavirus per introdurre nuove restrizioni e controlli, che possono poi diventare permanenti”, sostiene l’attivista.
Le frontiere esterne dell’area Schengen sono il terreno di sperimentazione di queste nuove misure di quarantena che – secondo Barbara Pilz di International Detention Coalition – sfociano nella detenzione de facto. “L’idea che gli stranieri portino malattie è antica come il mondo e ora rischiamo di vederla usata per rafforzare i controlli alle frontiere, bloccando persone in situazioni di estrema vulnerabilità, in cui le garanzie legali sono minime e la società civile ha poco accesso”, sostiene Pilz.
A illustrare questo rischio in Europa sono le misure di contenimento prese nei centri hotspots e in altre strutture lungo il confine tra Grecia e Turchia, in cui da metà marzo migliaia di persone sono costrette in situazioni semi-detentive. Pur con numeri inferiori alla Grecia, l’Italia registrava al 21 aprile circa 220 presenze nei tre hotspots attivi a Lampedusa, Messina e Pozzallo, circa 200 in una serie di strutture di accoglienza riaperte ad hoc in varie province siciliane per realizzare la quarantena di migranti appena sbarcati e altre 149 in isolamento su una nave ancorata nel porto di Palermo dopo essere state soccorse dalla Ong Sea-Eye e Aita Mari.
Per Lucia Gennari, avvocata dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, “non è ancora chiaro su quali principi giuridici si basi la restrizione della libertà in queste strutture, che è sì temporanea ma in alcuni casi è stata prorogata oltre ai 14 giorni previsti per decreto”. A Lampedusa, il trattenimento nell’hotspot è stato per esempio prorogato di continuo con l’arrivo di nuovi ospiti, innescando quello che Mauro Palma, Garante per i diritti dei detenuti, ha definito “un processo senza fine che è lontano dall’essere accettabile”.
La decisione spagnola di svuotare i CIE rischia poi di mettere in ombra la situazione di circa 1600 persone bloccate nei Centros de estancia temporal para inmigrantes delle enclavi di Ceuta e Melilla, in territorio marocchino, che per Amnesty International vanno rilasciate con urgenza.
Se la pandemia ha messo a nudo le fragilità della detenzione amministrativa degli stranieri irregolari, offrendo nuovi argomenti a chi la contesta, Barbara Pilz sottolinea che per la società civile sarà dunque fondamentale “lavorare insieme per far sì che l’Europa post-coronavirus ricorra meno alla detenzione”.
Uno scenario che la Commissione Europea sembra temere, tanto che in una comunicazione su asilo, reinsediamenti e rimpatri del 16 aprile, evidenzia come, “nonostante le perturbazioni temporanee” causate dalle misure di emergenza, “occorre proseguire i lavori per il rimpatrio, in modo da essere pronti per l’esecuzione delle operazioni stesse” appena possibile.
Frontex, l’agenzia dell’Ue per il controllo delle frontiere esterne, è indicata come perno di queste operazioni, in coordinamento con i governi nazionali. Se “tutti gli sforzi sono stati fatti ma il rimpatrio non si può effettuare”, ricorda quindi la Commissione, “gli stati hanno la discrezionalità di concedere un permesso di soggiorno ai migranti irregolari”.
Per alcuni osservatori, si tratta di una stoccata, nemmeno troppo velata, alla decisione spagnola di svuotare i centri di detenzione. Ma al di là delle speculazioni, la Commissione ha voluto confermare la centralità sempre più forte dei rimpatri nell’agenda europea sulle migrazioni, lasciando alle ipotesi di regolarizzazione, timidamente vagliate da diversi governi nazionali per garantire manodopera a settori vitali dell’economia, un ruolo solo residuale.
E per molti governi, la detenzione continua a rimanere lo strumento principe per rintracciare e rimpatriare persone non gradite, anche quando – come durante una pandemia – non è di fatto possibile farlo.
In copertina: il CPR di Ponte Galeria a Roma. Foto via Twitter