Tradurre, si sa, è sempre un po’ tradire non essendo mai questione di sole parole, ma di significati, vissuti, rappresentazioni e universi a volte difficilmente trasponibili. Tentare questa operazione con il concetto di teranga, termine wolof dal vasto campo semantico, ne è sicuramente una conferma. Solitamente associato all’idea di accoglienza, di ospitalità, di solidarietà, di rispetto, ma anche di gentilezza, di prendersi cura (dell’ospite), il vocabolo si è imposto al di là della sua aerea linguistica di riferimento. Il wolof è una delle tredici lingue ufficiali riconosciute in Senegal che svolge, però, il ruolo di lingua franca tra i vari gruppi etnolinguistici, rivaleggiando con la lingua ufficiale che resta il francese. Esso è oramai uno degli elementi identificativi del paese. Se il motto nazionale recita «Un popolo, uno scopo, una fede», la teranga completa idealmente questo trittico, come ben sanno gli appassionati di calcio che seguono le (vittoriose) vicende dei «Leoni della teranga», espressione utilizzata anche per le rappresentative nazionali di altre discipline. Lo stesso dicasi per le strategie di marketing territoriale o aziendale/imprenditoriale che, nel promuovere la «destinazione Senegal», fanno volentieri leva su questo tratto pertinente, ben presente ed esperibile nella quotidianità, per sedurre turisti e attrarre investimenti.
Terra di accoglienza, dunque, ma anche di emigrazione, al punto da fare ufficialmente della propria diaspora – Referendum costituzionale del 20/03/2016 – la «15° regione» senegalese che elegge oramai i propri deputati (15 su 165 totali) all’Assemblea Nazionale. Un riconoscimento politico e amministrativo sopraggiunto a consacrare, de iure, il ruolo, l’apporto e l’impatto non soltanto economici storicamente avuti dai e dalle senegalesi residenti all’estero.
Una diaspora che, negli anni, ha moltiplicato le proprie ramificazioni, aggiungendo nuove destinazioni e rotte, consolidando presenze più o meno antiche e radicate, modificandosi in termini di giovanilizzazione e femminizzazione (benché ricerche approfondite in materia siano, a tutt’oggi, poco numerose).
Il binomio Italia-Senegal, a tal riguardo, è istruttivo essendosi via via irrobustito come asse di mobilità bidirezionale. Qualche cifra, par dare un’idea più precisa. Secondo le ultime statistiche ISTAT disponibili, i senegalesi ufficialmente residenti in Italia sono 110.763 mentre le stime sugli Italiani ufficialmente residenti in Senegal si attestano intorno ai 2.600. Stanti le differenze comunque importanti in termini di numeri e flussi, ciò che conta rilevare è la complessità di forme e progetti di mobilità contemporanee che sfuggono sempre più a riduzionismi, determinismi e politiche di gestione discutibili.
Prendendo spunto dall’ambivalenza terra di accoglienza/terra di partenze, e dal Senegal come studio di caso, proveremo a delineare qualche traccia che vada al di là di alcuni stereotipi sui fenomeni migratori – e, en passant, sui rapporti Nord/Sud –, senza pretese di esaustività o sistematicità.
Un polo di attrazione storico
Parliamo di storia recente, tralasciando l’epopea dei grandi imperi dell’Africa occidentale (situabile grosso modo tra il IV e il XVII secolo) con i suoi considerevoli fenomeni migratori.
Data la particolare collocazione geografica, il Senegal è stato oggetto di appetiti geopolitici che hanno inteso sfruttarne il doppio ruolo di porta d’entrata dell’Africa subsahariana (dal lato occidentale) e di “affaccio” sull’Oceano già dai tempi del famigerato commercio triangolare, divenendo una delle roccaforti della cosiddetta tratta atlantica. Con l’abolizione – formale – della schiavitù, il dispiegarsi del colonialismo europeo post conferenza di Berlino (1884-85) ha visto nascere vasti aggregati politico-amministrativi per concretizzare la spartizione del continente. Tra di essi, l’Africa Occidentale Francese (AOF, 1895–1958) che scelse prima Saint Louis (fino al 1902), poi Dakar come capitale di questa porzione considerevole – 4.746.539 km² – dell’impero coloniale transalpino.
Il duplice ruolo di testa di ponte e di polo di attrazione – di persone, capitali, flussi, transazioni – ha attraversato le vicissitudini della colonizzazione e della decolonizzazione fino ad arrivare ai giorni nostri. Il clima di stabilità e l’assenza di conflitti armati ad alta intensità ha giocato, anch’esso, in favore di questa capacità attrattiva. Basti osservare come moltissime istituzioni internazionali, ONG, multinazionali, continuino a scegliere il Senegal come base dei propri uffici a portata regionale. Non fa eccezione l’Ambasciata italiana a Dakar, competente per 5 altri paesi della regione (Capo Verde, Gambia, Mali, Guinea Conakry e Guinea Bissau).
Va inoltre ricordato che il Senegal è membro, dal 1975, della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (CEDEAO/ECOWAS), organizzazione intergovernativa che raggruppa 15 paesi garantendo uno spazio di libera circolazione di persone e beni ai loro cittadini. Questi fattori sommariamente delineati, in aggiunta ad altri qui non menzionati, possono essere riassunti in un dato: il Senegal accoglie una percentuale di «immigrati internazionali» che si aggira, ufficialmente, in base a dati Oim, attorno al 2% della popolazione residente (268.000 individui, secondo l’ultimo censimento generale decennale – il 5°– del 2013; le rilevazioni demografiche per la 6° edizione sono attualmente in corso ma gli immigrati sarebbero stati 274.900 nel 2020 secondo i dati ONU).
La grande maggioranza è costituita da persone provenienti dei paesi limitrofi, ma le presenze da altre regioni africane e da altri continenti sono andate costantemente rafforzandosi. Di fatto, le pratiche amministrative per chi intende stabilirsi in Senegal sono relativamente semplici: quasi nessuna per i cittadini CEDEAO; una documentazione piuttosto snella (se paragonata a quanto richiesto in Italia, per esempio) e di agevole reperibilità per tutti gli altri. Inoltre, attualmente non è richiesto nessun visto se si intende soggiornare per un periodo non eccedente i 3 mesi. Un (timido) tentativo di instaurare un minimo di reciprocità, ha avuto vita brevissima: istituito nel luglio 2013, il visto d’ingresso è stato soppresso il 1° maggio del 2015.
Dall’emigrazione come “scelta” al «partire o morire»
Poco meno di 640.00: ecco il numero (sotto)stimato di emigranti senegalesi alla fine del 2020, ferme restando le difficoltà di disporre di statistiche affidabili, soprattutto per quanto riguardo la mobilità regionale e continentale. Una cifra che, pur in mancanza di serie storiche precedenti agli anni 80 del Novecento, è certamente cresciuta negli ultimi decenni modificando nel tempo, come già detto, la propria declinazione in termini di genere e di età anagrafica. Particolare interessante, su cui torneremo in seguito, le destinazioni africane restano (leggermente) maggioritarie rispetto alle mete europee, americane e asiatiche.
I mutamenti più importanti hanno a che fare con i fattori intervenuti a monte della scelta di emigrare. Non è questa la sede per tentare di riassumere gli eventi e le dinamiche micro e macrostrutturali che hanno, ciascuno a proprio modo, giocato un ruolo in queste molteplici riconfigurazioni. Per chi volesse approfondire tali aspetti, è disponibile una solida letteratura scientifica con svariati modelli interpretativi, anch’essi in continua evoluzione.
Ciò che ci interessa rilevare, seppur sinteticamente, è l’impatto profondo dell’inasprimento progressivo del quadro giuridico e delle politiche migratorie internazionali. Un impatto che ha stravolto progetti e strategie – basati, ad esempio, su reti di solidarietà, finanziamento e accoglienza a base regionale o di villaggio, di affiliazione/appartenenza religiosa, su meccanismi di ricambio intergenerazionale/familiare ecc. – del passato recente, rendendo sovente l’opzione migratoria una «scelta tragica».
Ancora una volta, è il wolof a fornirci una chiave di lettura. «Dem walla dee» e «Barça walla barzakh»: rispettivamente, «partire o morire» e «Barcellona o la morte» – in realtà, barzakh rimanda all’idea islamica di un “intermondo”, una sorta di purgatorio nell’attesa del giudizio finale. Con la città spagnola a fungere da sineddoche per l’Europa e con le isole Canarie, ingannevolmente a portata di piroga, a rappresentarne la propaggine concreta non così lontana dalle coste senegalesi. Dai primissimi anni 2000, alternando momenti di estrema visibilità ad altri di apparente attenuazione, questi due tristi refrain scandiscono la narrazione istituzionale (campagne nazionali, onusiane, internazionali volte a scoraggiare la “clandestinità” e “l’irregolarità”), mediatica e sociale.
Andando oltre la semplificazione, essi ci parlano di una volontà di altrove, diversamente motivata e niente affatto riducibile alla sola ricerca di benessere economico e/o materiale, che continua a innervare l’immaginario nonostante le restrizioni crescenti e i pericoli ben evidenti e conosciuti. Ma anche, innegabilmente, di una certa frustrazione legata alla situazione nei contesti di origine, aggravata dalla sensazione che le opzioni legali per allontanarsene, anche solo temporaneamente, siano oramai quasi inesistenti. Rispondere a tutto ciò con la sola retorica del «fissare le persone nei loro territori», slogan utilizzato anche in Senegal per accompagnare progetti (pur lodevoli) di formazione professionale, pare per lo meno miope.
Per (non) concludere
Con le dovute cautele, e al netto di comparazioni grossolane, ecco alcune delle suggestioni che si potrebbero approfondire a partire dal contesto senegalese.
La mobilità e le sue incarnazioni sono molteplici, ben al di là dell’approccio “patologizzante”, criminalizzante e pressoché monocorde che pare informare i vari accordi globali/internazionali in materia di gestione delle migrazioni. In Senegal, come in molti altri paesi dell’Africa occidentale (e dell’Africa nel suo complesso), essere in movimento fa parte del percorso biografico, partecipando alla costruzione dell’identità individuale e di gruppo. La mobilità interna, più rilevante di quella internazionale – per alcuni, un suo prodromo –, è una componente ricorrente delle traiettorie personali e collettive, a volte fin dalla tarda infanzia o dalla prima adolescenza.
Più in generale, la maggior parte dei flussi migratori africani, al contrario della percezione che se ne ha in Europa con la complicità di differenti attori politici e massmediatici, si compie all’interno del continente. Così come andrebbe corretta la scala fuorviante delle carte geografiche, per ridare all’Africa la giusta dimensione rispetto agli altri continenti, non sarebbe male riequilibrare il discorso anche su questo aspetto.
Tra le motivazioni citate dai candidati senegalesi alla migrazione, figurano sempre più spesso le conseguenze dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento delle risorse (energetiche, minerarie, alieutiche ecc.) a vantaggio di paesi e capitali esteri. Anche in questo caso, le risposte istituzionali ai vari livelli di decisione – ad esempio, il rifiuto di riflettere sullo statuto di «rifugiati climatici» – paiono abbastanza fuori fuoco.
Da ultimo, ma non per importanza, i giovani e le loro aspirazioni. Come molte realtà africane, la società senegalese vanta un’età mediana relativamente bassa (19 anni). La fascia di popolazione tra 0 e 24 anni costituisce all’incirca il 70% del totale. Per chi, come il sottoscritto, ha la fortuna di lavorarci quotidianamente, è facile constatare come le possibilità di contatto, confronto e scambio con i propri pari di altri paesi e continenti aumentino esponenzialmente (utilizzo delle stesse piattaforme, commistione e contaminazione di linguaggi e stili, fruizione degli stessi eventi “globali” ecc.), senza che ciò significhi omologazione o annientamento delle specificità.
A fronte di queste aperture lato sensu virtuali e della curiosità (reciproca) che le accompagna, le restrizioni drammaticamente reali (e asimmetriche) alla mobilità sembrano una risposta “schizofrenica”, perché disconnessa dalle dinamiche e dai fenomeni che vorrebbe, invece, regolamentare.
*Riccardo Cappelletti è dottore di ricerca in sociologia del diritto (Università degli Studi di Milano Statale). Dal 2012 è collaboratore scientifico (ricerca, insegnamento e partenariati internazionali) presso l’Institut des Droits de l’Homme et de la Paix (IDHP) dell’Università Cheikh Anta DIOP di Dakar (UCAD). Si occupa di sociologia e geopolitica dei diritti umani, diritti delle minoranze e diritti dei bambini. Ha curato la partecipazione dell’IDHP al progetto Ritorno in Senegal, realizzato insieme alle associazioni Roma-Dakar e Progetto Diritti.
[Foto dell’articolo: Foto di Victor Rutka su Unsplash]