Il Libano non è un paese in guerra. Lo è stato, fino al 1990 quando gli accordi di Ta’if sotto l’egida della Lega Araba, misero fine a una guerra fratricida durata tre lustri. Non è neanche un paese in pace. Da cinque anni, quasi un milione e seicentomila siriani vivono stabilmente in questo fazzoletto di terra grande poco meno del Veneto. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sarebbero un milione e cinquanta mila i siriani regolarmente registrati presso l’organizzazione, ma tali stime ufficiali sono aggiornate al 6 maggio 2015, data in cui il governo libanese ha imposto la sospensione della registrazione dei nuovi arrivati.
I siriani che sono regolarmente censiti tuttavia, possono fare ben poco. Non possono trovare uno “sponsor” e quindi lavorare regolarmente.
Prima della guerra gli abitanti della Siria potevano entrare e uscire facilmente dalla frontiera libanese. Le cose però sono cambiate e gli ostacoli da affrontare sono sempre più numerosi. Dallo scorso anno, infatti, i siriani sono obbligati a pagare duecento dollari ogni sei mesi per ottenere un permesso di soggiorno. Devono inoltre fornire un documento firmato da uno sponsor libanese. Il rischio altrimenti, è quello di essere arrestati e rimpatriati in Siria, poiché il paese dei cedri non ha ancora ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati. Le autorità libanesi negli ultimi tempi inoltre, conducono raid nei campi profughi per bloccare i siriani che vivono “illegalmente” nel paese. Una situazione che aggrava e appesantisce le già precarie condizioni dei profughi siriani in Libano.
Nessun futuro in Libano
Abu Rabia viveva nel campo profughi di Tel Abbas situato nel distretto di Akkar, nel nord del Libano, a quattro chilometri dalla Siria.
Per paura di essere fermato ai checkpoint, non usciva quasi mai dal campo. Come lui, anche la maggior parte degli uomini evita i lunghi spostamenti. “Ero pronto a pagare un trafficante per andarmene da qui. Avevo già chiesto soldi a diversi famigliari, quasi seimila euro in tutto. Che futuro puoi offrire ai tuoi figli, se non puoi neanche uscire per lavorare?”, esclama questo giovane padre, originario di Homs.
Abu Rabia non ha pagato nessun trafficante e non ha rischiato la vita. E’ giunto in Europa con il primo corridoio umanitario, promosso dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (FCEI) e la Comunità di Sant’Egidio con il sostegno finanziario dell’otto per mille delle Chiese metodiste e valdesi.
Come spiega il presidente della FCEI, Luca Maria Negro: “Uno degli obiettivi [del progetto] è proprio quello di sottrarre i rifugiati ai trafficanti di persone umane, offrendo la possibilità di un viaggio in tutta sicurezza anche per i paesi riceventi, poiché i beneficiari sono selezionati nei paesi di partenza”.
Grazie alla firma del protocollo con il Ministero degli Interni e il Ministero degli Esteri, avvenuta lo scorso dicembre, circa mille persone potranno entrare in Italia in modo sicuro e legale. Le prime duecento cinquanta sono partite proprio dal Libano.
Tuttavia, come afferma Nando Sigona, vicedirettore dell’Institute for Research Into Superdiversity dell’università di Birmingham e ricercatore presso il Centro studi sui rifugiati dell’università di Oxford: “I corridoi umanitari possono contribuire a ridurre la domanda di attraversamenti irregolari ma non possono svuotarla completamente perché, per accedere ai corridoi, ci sono criteri stringenti mentre per accedere ai servizi degli smugglers, ci vogliono solo i soldi. I corridoi sono comunque un modello replicabile da altri paesi”, sottolinea il ricercatore italiano.
Mai più in Siria
Jamal, insieme alla moglie, ai suoi tre figli e al nipotino, è giunto in Italia con il secondo corridoio umanitario. Destinazione Torino.
Originario della periferia di Homs, prima della guerra possedeva un’impresa di automezzi edili. Poi ha perso tutto: l’impresa, la casa, i soldi e la dignità.
E’ finito nelle carceri del regime, perché soccorreva i feriti e trasportava materiale medico nelle zone bombardate. Mostra le cicatrici delle torture con gli occhi gonfi di lacrime: “Sono stato torturato per due mesi, mi strappavano le unghie e mi spegnevano le sigarette sulla schiena. Volevano ottenere informazioni sui ribelli ma io aiutavo altri civili, vittime come me di questa guerra assurda. Con la Siria ho chiuso. Spero di poter aver la possibilità di ricostruirmi una nuova vita in Italia”, dichiara amaramente.
Aspettando il ritorno
A differenza di Jamal, molti sono i connazionali che tornerebbero in Siria.
C’è chi come Aya sceglie di restare in Libano in attesa della fine del conflitto. Questa donna originaria di Raqqa, roccaforte dello Stato Islamico, vive in un campo profughi lungo il confine con la Siria, nella valle della Bekaa, a ridosso di Baalbek, cittadina d’epoca romana famosa per i suoi templi.
Indossa una lunga veste viola di tonalità viva e accesa e un velo colorato appoggiato sul capo. Il viso è solcato dalle rughe e dai tatuaggi, simbolo di appartenenza a una tribù. Lei è scappata insieme al suo clan per non sottostare alle regole del califfato islamico.
Mentre è visitata dal dottor Luciano Griso, medico della FCEI per il progetto Mediterranean Hope, Aya racconta: “Siamo scappati perché dovevamo sottostare alle regole di Daesh. Dovevamo vestirci di nero e se non lo facevamo gli uomini dell’Isis obbligavano i nostri mariti a pagare una multa, altrimenti sarebbero stati uccisi. Aspettiamo solo che questa disgrazia sparisca per tornare il più presto nella nostra terra”.
Scegliere di non lasciare il Libano
Le condizioni dei siriani in Libano sono eterogenee così come lo è il suo popolo.
Chi sceglie di restare, il più delle volte, lo fa per mancanza di denaro o perché spera di ritornare in Siria.
Sawsan è donna vedova di ventisei anni, proveniente da Hasakah città della Siria nordorientale . Vive a Saida, località che affaccia sul Mediterraneo a sud di Beirut in una squallida stanza insieme ai suoi sei figli, la più piccola gravemente malata. Inserita nella lista dei corridoi umanitari, ha scelto di non partire, in seguito alle pressioni della famiglia ancora in Siria.
Ma c’è anche chi in Libano lavora dignitosamente e non vuole vedersi associato al termine “rifugiato”.
“Io non mi sento un profugo, né voglio essere trattato come tale”, racconta Anas, musicista e ingegnere del suono presso una casa di produzione libanese. Originario di Damasco è giunto a Beirut all’inizio della guerra, dove vive in un luminoso appartamento nel cuore di Geitawi, quartiere vintage della capitale. “Se avessi un passaporto di diversa nazionalità, probabilmente mi sposterei in un altro Stato, ma a queste condizioni, preferisco rimanere qui e mantenere la mia dignità, senza essere trattato come un rifugiato disgraziato o rischiare di perdere la vita attraversando il mare”.
I trafficanti come unica via d’uscita dalla trappola libanese
Storie come quelle di Aya, Anas, Abu Rabia, Jamal, Sawsan sono molteplici e differenti l’una dall’altra. Ciò che persiste è lo stato di precarietà e d’instabilità vissuta da chi è intrappolato in Libano e non sa ancora quanto dovrà restarci. L’impossibilità di ottenere un visto umanitario in tempi ragionevoli spinge chi vuole fuggire o semplicemente viaggiare a pagare un’organizzazione criminale dedita alla tratta.
Come spiega efficacemente Francois Crepeau, Relatore Speciale delle Nazioni Unite per i diritti dei migranti, “se questi servizi fossero offerti dagli Stati, i trafficanti sarebbero fuori dal mercato. Gli smugglers lavorano perché non esiste un sistema alternativo di mobilità. E’ un mercato”.
In queste circostanze la migrazione resta l’unica via alla sopravvivenza e il trafficking l’unico strumento di fuga.
Probabilmente rotte legali e la libera circolazione delle persone danneggerebbero molto più le organizzazioni criminali dedite alla tratta e restituirebbero un approccio solidale a quello che è uno dei fenomeni umani più antichi, la migrazione appunto.
(Header Image by United Nations Development Programme via Flickr Creative Commons)