Secondo i dati dell’Unhcr, gli sfollati che in Libano hanno lasciato le proprie case per sfuggire ai bombardamenti israeliani cominciati lo scorso 23 settembre sono ad oggi un milione e 200 mila.
Alle persone che dalle città del Sud e dai sobborghi meridionali di Beirut si sono mosse verso il Nord alla ricerca di un posto più sicuro, si aggiungono coloro che hanno deciso di lasciare il paese e attraversare il confine con la Siria. Almeno 200 mila, principalmente siriani, circa il 70%, ma anche libanesi e in percentuali minori iracheni e palestinesi.
Il principale punto di passaggio è rappresentato dal valico di Masnaa- Jdaidt Yabws, 45 km da Damasco, dove una serie di attacchi aerei israeliani ha spinto molti rifugiati ad abbandonare l’auto e proseguire a piedi. Il 60% di chi ha attraversato, secondo l’Unhcr, è un minore, spesso non accompagnato.
Prima del 23 settembre i siriani presenti in Libano erano un milione e mezzo, dei quali oltre 800 mila registrati dall’Alto Commissariato Onu. Rispetto a una popolazione di 5 milioni e 300 mila abitanti, il Libano è lo stato con la più alta percentuale al mondo di rifugiati pro capite: oltre ai cittadini provenienti dalla Siria, ospita quasi 500 mila palestinesi, dei quali poco più di 200 mila registrati dall’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, e altri circa 12 mila cittadini di altre provenienze, principalmente iracheni, sudanesi ed etiopi.
L’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 aveva già segnato l’inizio di una nuova crisi socio-economica, e trascinato sotto la soglia di povertà l’82% delle famiglie libanesi e oltre il 90% di quelle di altra provenienza.
I rifugiati “storici”: i palestinesi in Libano
Secondo i dati Unrwa, i rifugiati palestinesi in Libano che oggi si trovano nei 12 campi rimasti nel paese hanno sempre vissuto ai margini e sofferto condizioni di vita precarie. Sin dai primi arrivi del 1948 con la Nakba, l’esodo forzato seguito alla costituzione dello stato di Israele, la loro storia è stata segnata da crisi, privazioni e conflitti, con la nascita del movimenti di resistenza, le repressioni che ne sono seguite, la guerra civile libanese, il massacro dei campi di Sabra e Shatila a sud di Beirut nel 1982, gli scontri avvenuti nel campo di Nahr el Bared, nei pressi di Tripoli, nel 2007.
Anche nei periodi di relativa quiete, i “rifugiati senza Stato” hanno sofferto la povertà, la carenza di infrastrutture, un estremo sovraffollamento e soprattutto subito forti discriminazioni che li hanno relegati ad essere “corpo estraneo” all’interno di un altro paese.
Ai palestinesi sono ancora preclusi 39 ambiti professionali, dalla medicina alla legge e all’ingegneria, e l’impiego più diffuso fra gli uomini è nel settore edile, mentre le donne lavorano prevalentemente nella trasformazione alimentare, nel commercio al dettaglio e nei servizi sociali e sanitari.
Quasi nessuno riesce a ottenere un posto regolare, e il lavoro nei settori informali contribuisce alla vulnerabilità e all’assenza di diritti.
Ai rifugiati palestinesi insediatisi a partire dalla Nakba del 1948, si sono aggiunti, dopo il 2011, anche i rifugiati palestinesi che vivevano in Siria e che sono scappati della guerra. Si tratta di circa 29 mila persone (dati Unrwa aggiornati al 2018) in condizioni ancora più precarie, che sopravvivevano, almeno fino agli ultimi attacchi israeliani, con le sovvenzioni e i programmi di assistenza delle Nazioni Unite.
I rifugiati “recenti”: i siriani in Libano
Ancora oggi, 13 anni dopo l’inizio della guerra, la Siria è il paese con il più alto numero di sfollati interni (6,8 milioni) e rifugiati (5,4 milioni), che risiedono principalmente in Turchia (3,3 milioni), Libano, Giordania e Iraq. La Germania è l’unico paese non limitrofo a ospitarne un numero consistente, 850 mila.
La popolazione di siriani in Libano è stimata in un milione e mezzo di persone , ma soltanto il 20% ha diritto di soggiorno regolare nel paese ospitante. Il Vulnerability Assessment of Syrian refugees del 2023, una ricerca realizzata da Unhcr, Unicef e World Food Programme su un campione di 5mila famiglie siriane in diverse zone del Libano, ha rilevato che l’84% degli intervistati vive in condizioni di estrema povertà e non riesce a far fronte ai bisogni minimi di sostentamento, e solo il 5,3% non ha problemi ad assicurarsi il cibo. Il 53% vive in luoghi fatiscenti e sovraffollati.
Nel 2019 l’Alto Consiglio della difesa libanese ha stabilito il rimpatrio forzato in Siria per chi fosse entrato illegalmente dopo il mese di aprile, e da allora associazioni come Amnesty International e Human Rights Watch hanno segnalato centinaia di deportazioni, comprese quelle di minori non accompagnati, sebbene non esistano statistiche ufficiali in merito.
In fuga verso la Siria
Nonostante le difficili condizioni di vita in Libano, i siriani rientrati in patria volontariamente sono stati finora una minoranza, poco meno di 400 mila fra il 2016 e il 2023, e il fatto che in poche settimane più di 200 mila persone abbiano attraversato il confine può essere un valido metro di misura per valutare come la situazione libanese, in termini di sicurezza, si sia rapidamente deteriorata, tanto da spingere i rifugiati a fare ritorno a casa, in un luogo che non può essere definito sicuro.
In Siria il conflitto non è mai realmente terminato, e oggi il paese resta smembrato in diverse aree di influenza: il governo di Damasco controlla oggi circa due terzi del territorio, la forze della coalizione a guida curda la Regione Autonoma del Nord Est o AANES, compresa la città di Raqqa, ex roccaforte dell’Isis che è ancora presente in piccole aree fra le due zone, in particolare nella provincia di Deir El Zor, mentre a Idlib c’è l’alleanza Hayat Tahrir al-Sham, nata da ex affiliati di al Qaeda. Fra Jarablus e Afrin sono presenti le forze filo turche e anche lungo il confine fra Ras al-Ain e Tal Abyad c’è una fascia di territorio occupata da militari turchi e loro sostenitori siriani.
A questa situazione di grande fragilità in termini di sicurezza si aggiunge una fortissima crisi economica, una ricostruzione lenta quando non impossibile, una serie di problematiche sociali legate alla gestione degli sfollati interni e delle famiglie dei miliziani dello Stato Islamico detenuti o deceduti, le conseguenze del devastante terremoto del febbraio 2023 nel Nord Ovest. Senza contare che, nella Siria governativa, continuano detenzioni arbitrarie e sparizioni forzate.
La complessità della frammentazione e i focolai di conflitto che periodicamente si riaccendono lungo i confini interni, si sommano ai nuovi attacchi israeliani su territorio siriano. La Commissione Internazionale di inchiesta indipendente per la Siria, avviata dal Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu nel 2011 per investigare sui crimini di guerra commessi durante il conflitto, ha rilevato inoltre che a partire dal 7 ottobre 2023, anche la Siria ha subito le conseguenze della guerra a Gaza: solo nei primi due mesi di guerra sono stati documentati almeno 22 attacchi aerei condotti dagli israeliani in Siria e diretti a obiettivi iraniani, oltre agli 83 attacchi condotti dalle milizie filo iraniane contro le basi americane nel Nord est siriano e le risposte Usa. Nell Siria governativa le sparizioni forzate, la tortura, la morte in carcere non sono mai cessate, e il caso più citato è quello della prigione militare di Saydnaya, dove alcuni familiari di detenuti hanno testimoniato alla Commissione che gli è stata notificata la morte del proprio congiunto senza alcun dettaglio sulle circostanze, e che il corpo non è mai stato restituito.
Da una Siria all’altra
Proprio il Governo di Damasco, negli ultimi giorni, ha aperto i valichi di frontiera e fatto allestire dei centri di accoglienza nelle zone rurali della capitale, a Tartous, Latakia, Homs e Hama per ospitare siriani e libanesi in fuga, ma alcuni hanno poi deciso di spostarsi nella Siria Autonoma del Nord Est, controllata dalle Forze Democratiche Siriane a guida curda. Secondo l’organizzazione indipendente siriana Shafak, che si occupa di rifugiati e sfollati, sarebbero almeno 18 mila coloro che hanno deciso di proseguire verso Raqqa o Al Hasaka. Altri 2 mila avrebbero scelto invece di spostarsi nella zona di Idlib. Secondo l’Ufficio Affari sociali della Regione Autonoma, gli arrivi nei prossimi giorni non saranno inferiori a 50 mila, e per l’accoglienza sono stati aperti due campi nell’area di Jazira e uno in quella di Raqqa. La maggior parte dei rifugiati che arrivano in questa zona del paese sono originarie del Nord Est, e quindi hanno parenti e conoscenti sul posto.
Gli arrivi in Iraq
I rifugiati che dal Libano hanno raggiunto l’Iraq sono 6 mila, (dati Unhcr aggiornati al 6 ottobre), passando attraverso il valico di frontiera di Al Qaim oppure viaggiando in aereo verso Baghdad o Najaf. La maggior parte al momento viene ospitata a Najaf e a Karbala, anche se alcune famiglie si sono dirette nelle provincie di Ninive Salah al-Din e Basra. Al momento Baghdad sta concedendo l’ingresso senza visto ai cittadini libanesi.
Numeri contenuti ma probabilmente destinati a crescere, in un paese che nella sola Regione Autonoma del Kurdistan ospita un milione di rifugiati, principalmente siriani, il 97%, ma anche iraniani, turchi e palestinesi. Qui un abitante su cinque è una persona sfollata o che ha chiesto asilo, in un’area dove la stabilità è più sperata che vissuta.
Immagine di copertina di Ilaria Romano