Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale ha presentato la sua nuova relazione al Parlamento, la seconda da quando è stato istituito questo nuovo ufficio. Frutto di un anno di monitoraggio dei luoghi di privazione della libertà, offre un’ampia panoramica su quale sia la condizione degli stessi e quali le principali problematiche e violazioni riscontrate. Quest’anno la relazione si divide in quattro parti principali: salute, penalità, migrazione e sicurezza. Noi in questa sede ci concentreremo sull’area della migrazione.
La prima cosa che emerge è come nell’anno trascorso l’utilizzo della privazione della libertà come misura di contrasto all’immigrazione irregolare si sia intensificato.
Al calo degli arrivi a cui si è assistito nel 2017 sulle coste italiane è effettivamente corrisposta una diminuzione degli ingressi negli hotspot, per i quali si è passati dai 65.295 del 2016 ai 40.534 del 2017, ma si è registrata una crescita del numero delle persone transitate nei Centri di permanenza per il rimpatrio, del numero dei centri stessi e delle persone rimpatriate in maniera forzata con scorta internazionale.
Una tendenza che, stando alla relazione, è destinata a crescere ulteriormente se si guarda alle riforme attualmente in discussione in sede europea sul sistema comune d’asilo, che affiderebbero un ruolo centrale alle procedure di frontiera.
Hotspot
Anche nel corso dell’anno appena trascorso gli hotspot sono stati oggetto di particolare attenzione da parte del Garante che ha potuto constatare come, nonostante la loro previsione di legge, continuino a essere luoghi dalla natura giuridica incerta. “Se da un lato”, si legge nella relazione, “appaiono come luoghi a vocazione umanitaria per le attività di primo soccorso e assistenza e di informazione e di prima accoglienza per chi ha manifestato la volontà di richiedere la protezione internazionale, dall’altro sono luoghi di svolgimento delle procedure di polizia di pre-identificazione/fotosegnalamento e di avvio delle operazioni di rimpatrio forzato. Tali procedure implicano per gli ospiti rispettivamente il divieto di allontanarsi dal Centro fino alla loro conclusione e la coercizione nell’esecuzione dei provvedimenti di respingimento differito”.
Proprio questa non chiara definizione dell’hotspot rischia – secondo il Garante – di generare delle zone d’ombra trasformandole in strutture aperte o chiuse a seconda delle esigenze dell’autorità di pubblica sicurezza, incidendo così sulla libertà personale degli ospiti che – si sottolinea nella relazione – non possono oltretutto godere di una tutela giurisdizionale.
Altro elemento di criticità riguarda poi, secondo il Garante Mauro Palma, i tempi di permanenza delle persone nei centri. Spesso accade che questi oltrepassino le 24-48 ore previste dalle direttive ministeriali, provocando anche situazioni di tensione per la contemporanea presenza di persone molto diverse tra loro per età, sesso e status giuridico.
Luogo simbolo di questo tipo di situazione è l’hotspot di Lampedusa, per il quale la stessa CILD ha realizzato un dossier sulle violazioni riscontrate.
Venendo agli hotspot, attualmente sono cinque. Quattro sono collocati in Sicilia (Lampedusa, Pozzallo, Messina e Trapani), uno in Puglia (Taranto). Le persone transitate in queste strutture nel 2017, come già ricordato, sono state 40.534, di questi 32 mila erano uomini, 3.578 donne e ben 4.956 minori (di cui la maggior parte, 3.517, non accompagnati). L’hotspot con più presenze è stato quello di Pozzallo, dove lo scorso anno sono transitate 12.010 persone. Per quanto riguarda la permanenza – stando ai dati forniti al Garante dal Ministero dell’Interno – è a Lampedusa che si registra il dato più alto, con i migranti rimasti nell’hotspot in media 10,5 giorni. Tuttavia, nella sua attività di monitoraggio il Garante ha rilevato tempi di permanenza anche superiori.
Centri di permanenza per il rimpatrio
Ai centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) è dedicato un paragrafo intitolato “detenere amministrativamente”. Come si sottolinea nella relazione, dopo un periodo di contrazione culminato nel 2014 con la chiusura della maggior parte dei centri allora funzionanti e la riduzione dei termini massimi di trattenimento, la detenzione amministrativa è ricomparsa nell’agenda politica proprio lo scorso anno con il decreto legge sull’immigrazione Minniti-Orlando, che ha disposto l’ampliamento della rete dei Centri. L’obiettivo dichiarato è di passare dagli attuali 400 posti disponibili all’epoca ad una capienza di 1.600 posti, aprendo una struttura per ciascuna regione.
Oltre all’allargamento del sistema dei centri la legge aveva indicato in maniera netta anche altre disposizioni, tra cui un’attenzione e un assoluto rispetto della dignità umana. Tuttavia “a distanza di poco più di un anno dall’entrata in vigore del decreto – si legge nella relazione – va purtroppo rilevato che le rinnovate espressioni di impegno a favore dell’assoluto rispetto dei diritti fondamentali sono rimaste dichiarazioni di principio, cui non hanno fatto seguito un effettivo miglioramento delle condizioni di vivibilità e/o una diversa impostazione organizzativa delle strutture”.
Fra i maggiori problemi segnalati dal Garante ci sono le scadenti condizioni materiali e igieniche delle strutture, l’assenza di attività, la mancata apertura dei centri alla società civile organizzata, la scarsa trasparenza a partire dalla mancanza di un sistema di registrazione degli eventi critici, la non considerazione delle differenti posizioni giuridiche delle persone e delle diverse esigenze, la difficoltà nell’accesso all’informazione, l’assenza di una procedura di reclamo per far valere violazioni dei diritti. Una situazione dovuta all’assenza di una normativa di riferimento che stabilisca, così come avviene ad esempio per la detenzione penale, i diritti di cui possono godere le persone trattenute.
Per ovviare a questo gap il Garante è attualmente al lavoro su un documento che, raccogliendo gli standard internazionali in materia e sviluppandoli secondo le specificità dell’ordinamento italiano, arrivi a individuare soluzioni concrete per la loro effettiva attuazione.
Soffermandoci sui numeri anche nel caso dei centri di permanenza per il rimpatrio, ad aprile 2018 ne risultavano operativi cinque, uno femminile, quello di Roma con 125 posti, e quattro maschili, Bari (90 posti), Brindisi (48 posti), Torino (175 posti), Potenza (100 posti). Il centro di Caltanissetta è momentaneamente chiuso per lavori di ristrutturazione dovuti ai danni provocati da alcuni ospiti lo scorso dicembre.
Nell’arco di quest’anno dovrebbero aprire le strutture di Gradisca d’Isonzo, di Modena e Macomer (le prime due sono ex Cie, mentre la terza è un ex casa mandamentale), e per il 2019 è prevista l’apertura di due nuovi centri a Oppido Mamertina (ex casa mandamentale) e a Montichiari (ex caserma Serini).
Le persone transitate nei centri nel 2017 sono state 4.087, di queste 769 sono donne e 3.318 uomini. Tra le nazionalità più presenti ci sono i tunisini, i marocchini e i nigeriani. Proprio nel caso delle persone provenienti dalla Nigeria emerge un dato in controtendenza – almeno rispetto alle nazionalità che contano numeri elevati – riguardante la maggior presenza di donne transitate nei Cpr rispetto a quella degli uomini.
I rimpatri
Altro elemento trattato dal Garante nella sua relazione riguarda i rimpatri dei migranti. Questi sono stati 6.514 nel corso del 2017 e hanno riguardato in particolare persone di nazionalità tunisina, albanese, marocchina, egiziana e nigeriana. Un numero cresciuto nel corso degli anni. Erano stati infatti 5.505 nel 2015 e 5.817 nel 2016.
Dei rimpatri avvenuti nel corso dello scorso anno, ben 2.346 sono stati effettuati attraverso voli charter (in molti casi si tratta di rimpatri forzati), in particolar modo verso la Tunisia (64 voli per 1.916 persone). Sette voli sono stati invece effettuati verso l’Egitto, così come sette sono stati quelli verso la Nigeria (in questo caso il 72 per cento dei rimpatri è avvenuto attraverso questa modalità). Un solo volo infine è stato eseguito verso il Pakistan per cinque persone.
L’elemento di criticità emerso nel monitoraggio di questi rimpatri forzati riguarda questioni già sottolineate dal Garante nella precedente relazione e a cui il Ministero dell’Interno non ha dato riscontro. In particolar modo “è stato rilevato come sia consuetudine tenere molte ore i polsi dei rimpatriandi legati tramite delle fascette in velcro, indiscriminatamente e in assenza di comportamente apertamente non collaborativi”.
Altra pratica contestata è quella di non avvisare per tempo le persone dell’imminente rimpatrio. Ciò non darebbe la possibilità di verificare eventuali aggiornamenti della posizione giuridica dei rimpatriandi, di dare il modo agli stessi di prepararsi psicologicamente alla partenza, né di far avvisare i loro familiari del proprio ritorno in patria. Inoltre, come sottolinea ancora il Garante nella relazione, spesso i rimpatriandi, in attesa dell’audizione consolare o dei controlli di sicurezza all’aeroporto, trascorrono anche diverse ore in piedi in aree all’aperto, esposti quindi a estremo calore o freddo a seconda della stagione, oppure in locali fatiscenti non dotati di sedili né di tavoli per consumare pasti e bevande.
Un ulteriore elemento su cui il Garante nazionale esprime forte perplessità riguarda poi il rimpatrio forzato verso paesi come Egitto e Nigeria che non hanno istituito un meccanismo nazionale di prevenzione della tortura e dove le persone, una volta rimpatriate, potrebbero essere soggette a violenze indiscriminate commesse da elementi delle forze di sicurezza.