“Ho letto delle migliaia di morti in Europa per il coronavirus. È una tragedia. Ma preferirei ammalarmi lì e non qui in Libia” racconta un giovane senegalese da Zuwara, città della Libia al confine con la Tunisia. “Ieri sera alcuni uomini sono venuti a prendermi insieme ad altri tre migranti e ci hanno portato in un posto vicino la frontiera. Ci hanno chiesto di scaricare alcuni scatoloni. Penso si trattasse di armi” dice l’uomo che oramai da giorni si addormenta con il rumore degli spari. Ad una manciata di chilometri ad Est dal complesso dove vivono i migranti nella città costiera berbera, negli ultimi giorni le forze allineate con il Governo di Fayez Al Serraj hanno messo a segno una delle più importanti riconquiste dall’inizio dell’offensiva del Generale Khalifa Haftar su Tripoli e dintorni. Pepe ha le idee chiare “Aspetto che mi paghino un lavoro già finito, e parto. Perché qui se sopravvivo alla guerra, muoio di virus”.
In Libia i numeri delle vittime da Covid-19 sono ancora bassi, una cinquantina accertati, di cui undici in terapia intensiva e una persona deceduta, secondo il Centro Nazionale di Ricerca sulle Malattie Infettive. Tuttavia i numeri del contagio sono destinati a salire, nonostante il coprifuoco imposto dal Governo di Tripoli su tutto il territorio nazionale, o almeno sul territorio di sua competenza nell’Ovest del Paese. Gli sforzi del Governo di Al Serraj poco possono fare di fronte ad una crisi sanitaria già in corso, laddove gli ospedali locali da anni sono sprovvisti anche dei medicinali di base e chiunque necessiti di cure è costretto a procurarsi i farmaci fuori. Quel che rimane del sistema sanitario libico, dopo cinque anni di guerra civile tra le forze del Generale Khalifa Haftar e la coalizione dei gruppi armati di Tripoli, è messo a dura prova dai bombardamenti aerei del Generale dell’Est Khalifa Haftar che negli ultimi giorni ha centrato l’ospedale Al Khadra di Tripoli. Proprio Al Khadra era stata designata nei giorni precedenti dal Governo di Accordo Nazionale (GNA) come struttura principale per accogliere in terapia intensiva i contagiati da coronavirus. E sempre un uomo di Haftar, Hassan Ali Al Gaddafi, sindaco del villaggio di Shweirif, nel deserto libico, ha fatto chiudere la rete del Great Man-made River per vendicare l’arresto di suo fratello nella città di Zawiya, a Ovest di Tripoli. Il risultato è che in piena emergenza sanitaria, il paese è rimasto per oltre dieci giorni senza acqua corrente.
“Qui siamo in 468 e ci sono casi già 130 casi confermati di scabbia. Del coronavirus nessuno sta facendo parola tra i carcerieri e neanche tra il personale locale di Medici Senza Frontiere” scrive via Whatsapp Solomon, eritreo, nel carcere di Zintan, sulla montagna Nafusa a Ovest del Paese. “Se qui entra il virus, è una strage” chiosa l’uomo, rinchiuso nel carcere nell’entroterra libico dall’aprile del 2018. Efrem, sua moglie e i loro quattro figli per quattro anni sono stati trasferiti da un centro di detenzione per migranti all’altro in Tripolitania, e solo lo scorso febbraio sono stati rilasciati dal carcere di Zawiya. “Per qualche giorno sono riuscito a trovare lavoretti e far mangiare i miei figli, ma da metà marzo per via del copri-fuoco non posso neanche andare allo smorzo” racconta l’uomo originario del Sud Sudan. “Tra una settimana dovrò pagare l’affitto. E i soldi proprio non li ho. Nel frattempo, le scorte di cibo stanno terminando”conclude Efrem.
“I trafficanti a sud non stanno facendo entrare i migranti, perché hanno paura del contagio da coronavirus” dice una fonte vicina agli ambienti militari a Tripoli. Tuttavia per le decine di migliaia di migranti già presenti nel paese, la via del mare resta aperta. “Certo, ci sono delle complicazioni sulla strada verso il confine tunisino. Tra Sabrata e Surman ci sono sacche importanti di gruppi fedeli a Haftar. Ma in qualche modo facciamo, e alla fine riusciamo comunque a portare i migranti nei punti di imbarco” spiega uno degli uomini della filiera dei viaggi via mare. L’uomo è in realtà un ufficiale del Dipartimento Anti Immigrazione Irregolare (DCIM) del ministero degli Interni, che collabora con i trafficanti. “Delle volte li mettiamo su un pullman del Dipartimento della lotta alla migrazione irregolare, e così evitiamo i controlli ai check point” spiega l’uomo.
Traversata verso i porti chiusi per emergenza Covid-19
Dall’inizio di aprile, migliaia di uomini, donne e bambini intrappolati in Libia sono stati messi in mare verso l’Europa. Nella sola seconda settimana del mese, sarebbero stati circa 800 i migranti partiti dalle coste libiche. Mentre il Governo di Tripoli manda trenta dottori in Italia per dare il proprio contributo sul fronte della lotta contro il coronavirus, Italia e Malta si dichiarano “porto non sicuro” per l’emergenza Covid-19, chiudendo di fatto le frontiere ai naufraghi nel Mediterraneo Centrale.
Due barconi sono stati soccorsi dalla nave Nave Alan Kurdi della ONG tedesca Sea Eye, ad inizio mese unica presente al largo delle coste libiche al momento. Durante le operazioni di salvataggio della Alan Kurdi, gli uomini della Sicurezza Costiera della città di Zuwara hanno quasi speronato il gommone con i migranti a bordo, e poi sparato dei colpi in aria. “Abbiamo mandato noi gli uomini della sicurezza costiera” ha detto un ufficiale della Direzione di Sicurezza di Zuwara. “Fermare i barconi con migranti irregolari è il nostro mandato, e questo facciamo” ha spiegato la fonte militare. Le autorità libiche provano a rispettare i patti presi con Roma e Bruxelles circa la cooperazione sul fronte del contrasto della migrazione irregolare, anche se ognuno per ragioni proprie. Alcuni ci vedono l’opportunità per uno dei business più redditizi al momento sul mercato, altri per riservarsi il diritto di chiedere all’Italia e all’Europa di restituire il favore su altri fronti, e altri ancora per onore la parola data. Dal canto suo l’Europa ha blindato la cooperazione con la Libia sul fronte del contrasto alla migrazione irregolare, glissando puntualmente circa gli abusi sistematici sui migranti nelle prigioni per migranti in Libia, comprese in quelle gestite dal Ministero degli Interni di Tripoli, così come sulla pratica di alcune milizie di utilizzare i migranti come scudi umani nella guerra civile in corso nell’Ovest del Paese da oltre un anno. Il coronavirus, evento funesto e non preventivato né immaginabile fino a qualche mese fa, sta sparigliando le carte in tavola. I direttori dei centri per migranti a Tripoli si rifiutano di accettare migranti intercettati e riportati in Libia dalla Guardia Costiera. Sopravvissuti ad un bombardamento sul porto di Tripoli durante l’attracco, i 280 migranti intercettati dai guardiacoste libici a metà aprile e trasferiti sul rimorchiatore Ras Jader, sono stati costretti a passare un giorno ed una notte in un hangar del porto. “Nessuno dei centri di detenzione del DCIM di Tripoli era disposto a prendere in carico i migranti. Tutti per paura del contagio da coronavirus” dice un ufficiale del Comitato di Sicurezza anti Covid-19 da Tripoli.
“Abbiamo visto tanti aerei che volavano su di noi, chiedevamo aiuto, ma perché ci hanno lasciato in mare?” chiede in lacrime una donna sopravvissuta ad un lungo naufragio, sfogandosi per telefono con l’avvocatessa per i diritti umani Giulia Tranchina di base a Londra. Per giorni Alarm Phone, la piattaforma per il soccorso di imbarcazioni in difficoltà, ha raccolto le richieste di aiuto del barcone in distress e girato alle autorità maltesi ed italiane. L’agenzia europea per la sicurezza delle frontiere contava anche due velivoli di monitoraggio sul Mediterraneo centrale in quelle ore. Malta e Italia non hanno dato alcuna risposta alla richiesta di soccorso trincerandosi dietro l’emergenza Covid-19. “Quattro altre persone si sono buttate in mare lunedì notte, erano disperate” ha raccontato un’altra sopravvissuta dal centro DCIM di Trik Siqqa a Tripoli. Solo cinque giorni dopo, un peschereccio libico li ha raggiunti e riportati in Libia. “Anche io avrei preferito morire in mare, se avessi saputo che ci volevano portare in Libia” ha continuato la donna. “Sono stati recuperati dalla zona di ricerca e salvataggio maltese” dichiara l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni che conta personale nei vari punti di sbarco lungo la costa libica. “Servono soluzioni urgenti perché la Libia non è un porto sicuro”.
Le segrete in cui finiscono i migranti
Dei 280 migranti intercettati e riportati a terra a bordo del rimorchiatore Ras Jader lo scorso 9 aprile, qualcuno è scappato. Questo hanno dichiarato le autorità libiche al momento della conta dei migranti fatti sbarcare. “È prassi comune nei centri DCIM rimettere in libertà i migranti” spiega una fonte militare da Tripoli. “Anche i direttori dei centri non sanno come gestire i migranti con la guerra che impazza. E ora anche il corona virus…” continua la fonte.
Mentre i centri di detenzione ufficiali rifiutano migranti, le segrete gestite dalle milizie spalancano le loro porte. Un gruppo delle persone riportate a terra dai libici lo scorso 9 aprile, sarebbe stato trasferito in una fabbrica di tabacco in disuso nell’Ovest di Tripoli, oggi centro investigativo della milizia Sawa’iq della città di Zintan. Di questi migranti dunque non rimane traccia nei numeri ufficiali di Tripoli, che invece fanno la conta delle persone presenti solo nei centri DCIM.
Già dallo scorso autunno centinaia di migranti intercettati in mare sono stati trasferiti ad Al Khoms, circa 100 chilometri a Est di Tripoli, nella prigione di Souq al Khamis, una dei tre centri DCIM di cui era stata disposta ufficialmente la chiusura dal ministro degli Interni Fathi Bashaga sulla scorta del bombardamento delle forze di Haftar sul centro di detenzione per migranti di Tajoura nel luglio precedente, in cui morirono una cinquantina di detenuti. “Non si sa che fine facciano i migranti portati lì dentro. Di certo il Governo non ha nessun controllo” commenta un analista internazionale sulla sicurezza in Libia.
Secondo i dati forniti da Tripoli, attualmente ci sarebbero circa 1500 migranti nelle carceri sotto il controllo del Ministero degli Interni. “Si tratta del numero più basso registrato da Ottobre 2019” come scrive in una sua nota l’OIM. Un dato in aperto contrasto con l’alto numero di intercettazioni eseguite dalla Guardia Costiera libica in mare. Dall’inizio del 2020 sarebbero almeno 3200 i migranti riportati a terra dai guardiacoste libici.
“Droga, armi e prigioni per migranti sono business solo per le milizie che controllano i Ministeri a Tripoli” dice un trafficante di diesel dalla città di Zawiya. “Non è come vendere diesel al confine tunisino” conclude l’uomo.
In copertina: Tripoli, 14 aprile 2020 – Personale medico libico aiuta un operatore sanitario a provare una tuta protettiva. Siamo in una scuola di moda trasformata in laboratorio per la produzione di indumenti protettivi da consegnare agli ospedali locali che ricevono pazienti affetti da Coronavirus. Foto di Amru Salahuddien