Se entri in un bar di piazza Dergano, è più facile passare per forestieri arrivando da un altro quartiere di Milano che non da un’altra nazione. Qui, nella severa periferia nord della città, dove nonostante l’arrivo della metropolitana si intuisce ancora la campagna, immigrati di ogni provenienza, dalla Puglia a El Salvador, non hanno mai smesso di arrivare dal secondo dopoguerra. Al riparo della massicciata della ferrovia, fra negozietti cinesi di bubble tea e piccole ciminiere di mattoni, è ancora intatto il muro di cinta degli stabilimenti della Milano Films, che fu la prima casa di produzione cinematografica d’Italia, ormai chiusa da più di settant’anni e sul cui terreno oggi sorge un parco. Ma se Dergano è uno dei quartieri più multietnici di Milano, il cinema è tornato ad assumervi un significato speciale, grazie a un gruppo di attivisti culturali che a Dergano ci vivono, e che si è battezzato Associazione Nuovo Armenia.
Dalla prima casa di produzione cinematografica d’Italia al cinema multiculturale cuore del quartiere
Il muro di cinta del parco, infatti, è sormontato ancora da una vecchia insegna che recita “Armenia Films”. La Milano Films aveva cominciato l’attività nel quartiere Isola, poi aveva fatto documentari in via Serbelloni, poi dopo essersi consociata con altri si era trasferita a Precotto, e nel 1910 aveva cominciato la costruzione del teatro di posa sul grande terreno in via Baldinucci dove oggi sorgono i giardini. Lì, 119 abitanti hanno dipinto e decorato il muro di cinta con uno splendido lavoro che rende anche omaggio al passato cinematografico del luogo. Esattamente cento anni fa, la Milano Films diventava Armenia Films per iniziativa di un produttore armeno, Johannes H. Zilelian. Col vanto di aver fra l’altro prodotto il primo lungometraggio muto italiano, in seguito le risorse della Armenia Films sarebbero confluite nell’Elias, che avrebbe prodotto fra gli altri anche Luchino Visconti. Tutt’intorno stavano sorgendo le fabbriche: c’era già la produzione di medicinali della Carlo Erba, apriva nel 1918 la fabbrica di dolci Zaini, e poi la fabbrica di adesivi e prodotti chimici per l’edilizia Mapei nel 1937, e la ItalCima dagli anni Trenta agli anni Settanta in un edificio di Gio Ponti. Quartiere di corrieri sulla strada che portava a Como, Dergano si riempì presto di trattorie popolari. All’inizio del Novecento aveva già molti circoli e cooperative, e nel 1922 al Circolo Rinascimento ci fu una battaglia con gli squadristi fascisti. Dergano fu uno dei luoghi caldi degli scioperi nelle fabbriche del 1943, e ancora oggi le piccole strade con le case basse e i balconcini liberty sono costellate di targhe commemorative e corone in memoria dei morti della Resistenza. A marzo, il Comune di Milano ha presentato il nuovo potenziamento del sistema bibliotecario cittadino proprio alla biblioteca di Dergano, un luogo importante della vita di quartiere, con una collezione di più di 1200 volumi cinesi nati dal gemellaggio con la biblioteca di Shanghai, una collezione importante anche in arabo, e una sezione dedicata alla narrativa italiana scritta da autori migranti.
Il richiamo della storia cinematografica di Dergano è stato irresistibile per un gruppo di persone nato intorno alla casa di produzione Gina Films e al film di Antonio Augugliaro Io sto con la sposa, documentario del 2015 unico nel suo genere, in cui un poeta palestinese siriano e un giornalista italiano decidono di aiutare cinque palestinesi e siriani sbarcati a Lampedusa ad arrivare clandestinamente in Svezia, inscenando un finto matrimonio. Unendo le forze con l’associazione Asnada, nel giro di pochi mesi il gruppo, vinto un bando per realizzare una rassegna di quartiere chiamata Cinema di Ringhiera, l’ha realizzata l’estate scorsa, e ha appena vinto il bando per realizzarla di nuovo, proprio pochi mesi dopo averne vinto un altro che ne influenzerà la vita per molto tempo a venire: quello per far sorgere, all’interno delle stalle semi-abbandonate della villa Hanau in via Livigno, il cinema multiculturale Nuovo Armenia. Hanno ricevuto lo spazio in gestione per trent’anni, e in questi giorni stanno cominciando a sgomberarlo dalle macerie, a pulirlo e a renderlo abitabile.
“La multiculturalità è nella nostra vita di tutti i giorni”, mi dice Gina Bruno della Gina Films, che è arrivata al nord dalla Campania nel 2006 per amore di Antonio Augugliaro, anche lui milanese nato da genitori immigrati dal sud, che poi ha sposato. “I nostri figli giocano e vanno a scuola con i figli della nostra vicina peruviana, di quella salvadoregna, i nostri vicini sono egiziani, sia musulmani che copti, o del Guatemala, ci incontriamo in cortile, per le feste di compleanno, riuniti intorno agli spazi di gioco dei figli, e sono esperienze universali, abbiamo tutti gli stessi problemi. Io sto con la sposa ci ha portato sintonia con tante altre persone – donne, uomini e artisti che come noi vogliono contribuire a cambiare la narrazione dominante sull’immigrazione. Ma abbiamo capito che le parole si possono cambiare insieme solo dove c’è permanenza. Ci voleva uno spazio, una presenza. Ci dicevamo, apriamo un cinema. Avevamo in mente proprio un’esperienza d’impresa, fuori dai circuiti associativi; abbiamo cominciato a cercare fra i capannoni della zona, volevamo restituire al quartiere la sua vocazione cinematografica. Avevamo cominciato il percorso con la Camera di Commercio e stavamo preparando un business plan, quando prima del Natale 2015 è uscito il bando con cui il Comune affidava nove spazi da restituire alla coesione sociale. Ci siamo detti, siamo noi! Con la coesione sociale come ricaduta di un processo culturale e di intrattenimento. Il fatto che poi abbiamo vinto significa che l’intenzione era quella giusta. Inizialmente volevamo farlo con quelli del caffè libreria Mamusca, qui nel quartiere, che sono molto bravi, poi insieme abbiamo deciso che avremmo tentato il bando ognuno con un progetto diverso; abbiamo fatto il progetto insieme ad Asnada, che ha molto metodo e una lunga esperienza di scuola sperimentale di italiano per rifugiati politici, richiedenti asilo e migranti economici. Asnada”, dice Gina, “per me rappresenta in piccolo ciò che la politica non sta facendo e dovrebbe fare. Loro non solo fanno formazione, ma sono a loro volta sempre in formazione, fanno poco rumore e agiscono molto”. Il lavoro è cominciato già dalla scrittura del bando: “Camilla Gentilucci ci ha aiutato a scriverlo, e abbiamo fatto un percorso complesso, lavorando giorno e notte; abbiamo fatto un’inchiesta sociologica sui dati Istat del quartiere, un’analisi dei bisogni, chiesto assistenza sui film in lingua, consultato gli amici, e il gruppo si è rafforzato attraverso questa continua discussione che dopo la vincita del bando ha portato anche a confrontarsi duramente su come lavorare”.
L’esperienza del cinema di ringhiera
Questo processo, e un saggio di cosa può fare il cinema multietnico, Gina Bruno e gli altri lo hanno sperimentato con un altro bando quasi contemporaneo, stavolta dei Beni Culturali, quello che hanno vinto per realizzare la prima edizione di Cinema di Ringhiera la scorsa primavera, e che hanno rivinto pochi giorni fa. “Era perfetto per noi, realizzare rassegne cinematografiche delle comunità residenti su suolo italiano. Abbiamo fatto anche quello insieme ad Asnada, pensandolo per i cortili delle case di ringhiera del quartiere. È stata un’esperienza difficile ma bellissima, abbiamo lavorato con le relazioni fra vicini, partendo dagli amici, nei condomini nelle case di corte; siamo andati a incontrare gli abitanti, abbiamo raccolto proposte per i film da proiettare, e deciso di far presentare ogni film da una persona della stessa comunità di provenienza, che ci aiutasse a sceglierlo, e facendoglielo vedere prima. Nell’imparare, abbiamo fatto anche qualche gaffe – per esempio quando abbiamo fatto vedere un film di Hong Kong in cantonese alla mamma cinese di un compagno di mio figlio, che ovviamente non andava bene per un pubblico cinese che parla mandarino. A volte ci siamo scontrati proprio con questioni di gusto, ci hanno proposto qualche film brutto; il concetto di partecipazione”, dice ridendo, “è sempre un bagno di sangue! Ma funziona se ci sei sempre, se costruisci rapporti veri. Con Fatima, mamma di un bimbo della materna, con cui era partita un’idea di sartoria italo-senegalese poi naufragata, è rimasta una grande amicizia, la comunità senegalese ha aderito all’iniziativa del cinema di ringhiera e offerto la festa nella loro serata, è stata una delle più partecipate”.
Per il film srilankese, The Wind Beneath Us, c’erano 350 persone, metà delle quali srilankesi, soprattutto delle seconde generazioni. Suranga Deshapriya Katugampala, regista di Per un figlio, ha fatto da moderatore. “L’idea e lo sforzo”, dice Gina Bruno, “sono sempre quelli di lavorare sul post-esotico; nascono discussioni molto accese, e a volte ci si scontra. Il risultato è imperfetto, ma bellissimo. Senti risuonare il wolof e il portoghese, il lucano e il russo, lo spagnolo e il napoletano. Il film peruviano lo ha scelto una coppia, Beatriz e Johnny, che abita qui da tanti anni. Hanno detto che per loro era un’occasione per mostrare che non vengono dal nulla, che hanno alle spalle una storia di terrorismo e di campagne spopolate, di attivismo nell’istruzione pubblica, hanno scelto Coraje di Alberto Durant, che racconta la lotta di una leader femminista contro la violenza dei militari ma anche contro Sendero Luminoso che aveva scelto la lotta armata. Alla chiusura della rassegna ci siamo detti, loro ce le hanno, le parole”. Nel lavorare alla rassegna, sono successe anche cose sorprendenti: “il film tunisino era Appena apro gli occhi, di Leila Bouzid, e abbiamo chiamato a presentarlo Hana Ben Salem, che è un’amica e una figura di rilievo, impegnatissima nel sociale, che non si tira mai indietro; ma quando ha visto il film prima della proiezione, ha detto no, mi dispiace, nel film ci sono delle scene esplicite, si vedono dei genitali maschili, e io non me la sento perché non mi rappresenta. Poi ci pensa, decide di venire lo stesso, e porta anche il marito, con cui apre la discussione, e la figlia adolescente, riconoscendo che il film fosse comunque una sfaccettatura della società tunisina com’è oggi. Alcuni nel pubblico hanno anche reagito scandalizzati, o schifati, e sono andati via, altri sono rimasti, e hanno guardato cosa succede nel paese dal quale sono lontani, e che continua a cambiare”. E se l’anno scorso il tema della rassegna era il concetto di famiglia, compresa la migrazione dal sud Italia, “quest’anno ci piacerebbe concentrarci sul tema della paura, preceduta da una video inchiesta sulle paure che attraversano i cittadini di Dergano, per provare a darci delle risposte insieme”.
Un dna multietnico e multiculturale
Questo è un po’ il dna che il Nuovo Armenia si porta dentro ancora prima di nascere.
Dipinto di rosa all’esterno come una casa colonica, l’edificio delle stalle è solitario e in diversi stati di abbandono, ma non è comunque difficile coglierne il potenziale. La villa Hanau, che sorge all’interno di un grande parco, fu la direzione dell’ospedale degli infettivi dal 1833 fino agli Settanta. Costruita dall’avvocato Hanau, venduta al Comune di Milano nel 1891, è la sede del consiglio di zona 9. Qui alle stalle, il lato basso del tetto è cadente, le stanze al piano di sopra sono andate accidentalmente bruciate quando ci vivevano alcune famiglie senza dimora, e nel portico c’è una montagna di spazzatura e detriti. Ma la vertiginosa tettoia in legno è in buone condizioni, alcune parti hanno porte nuove in ferro, e c’è un bagno semi-funzionante. Gli spazi sono vasti e versatili, e quelli del Nuovo Armenia si aggirano per le stanze col naso all’insù, immaginando come potrà diventare accogliente.”Per noi è fondamentale che l’attività si sostenga da sola, dice Gina Bruno. “E in un’epoca precaria e fragile, in cui le vite si progettano di mese in mese, abbiamo questo spazio in gestione per i prossimi trent’anni, e non è stato facile assimilare cosa significa. Parte del lavoro è anche fare i conti con l’idea di fallimento. Ma abbiamo molta fiducia nel processo, e adesso siamo tutti allineati nel ragionamento. Siamo alla prima di tre fasi, quella in cui dobbiamo sgombrare le macerie e farne un po’ casa.”
Riuniti intorno a un picnic di sapori meridionali a base di salame, olive e cicoria saltata in padella, seduti su pezzi di raccordo di tubature e chini su cartine e appunti, Nuovo Armenia e Asnada ragionano su come fare i primi lavori con il solo costo dei materiali, come stilare una previsione di budget, come fare sottoscrizioni che permettano di pagare le prime spese – bollette, assicurazione. Come far portare via i rifiuti, come fare gli allacciamenti, come riciclare i materiali per arredare il giardino, come rasare e imbiancare le pareti e come farsi aiutare per le piante. Si riuniscono qui quando possono, più che altro nei weekend – la stessa Gina, Antonio, Alessia Bellarosa, Carlo Giasanti, Angelo Castucci, e l’associazione Asnada con Sara Honegger, Margherita Giorgio, Debora Marongiu, Giada Beretta e Maria Boli. Di idee su come far vivere il luogo, anche prima che tutti i lavori siano finiti, ce ne sono già, come un festival di poesia di guerra nel giardino, con musicisti e poeti da diversi paesi. “Pensiamo di lavorare per moduli, sistemandoli e rendendoli agibili un po’ alla volta, mettendoci i tavolini, allestendo un piccolo mercato e una scuola estiva di Asnada”. Potrà sembrare impossibile, ma se tutto va bene, quest’anno la proiezione finale del Cinema di Ringhiera si terrà qui. Il futuro Nuovo Armenia è separato dal parco da una sottile rete metallica, dietro la quale sfrecciano adolescenti sudamericani in bicicletta. Lungo il vialetto sono accumulati cippi di pietra, lastre per tombini e altri materiali scaricati dal comparto strade del Comune di Milano. Quando sui grandi alberi rispunteranno le foglie, potrebbe diventare un luogo incantato, un miracolo di periferia.
Foto di copertina: la vecchia insegna della Armenia Films a Dergano, Milano. Tutte le foto nell’articolo sono di Marina Petrillo.