Nel microcosmo di una nave le emozioni cambiano velocemente così come la realtà a bordo: in sole 48 ore, l’equipaggio della Life Support di Emergency ha soccorso 75 esseri umani, passando in poco tempo dall’adrenalina del soccorso alla soddisfazione di averlo portato a termine, mentre i sopravvissuti, dopo giorni di terrore assaporano il sollievo della salvezza.
“Mi sembra di vivere dentro un sogno, non credo ancora che sia vero. Non posso credere che stiamo andando davvero in Italia. Sento per la prima volta la felicità”, ripete commosso Mustafà, all’interno della clinica di bordo. Ha ventitré anni ed è fuggito dalla guerra in Sudan, dove ha lasciato il padre, quattro fratelli, sei sorelle e la tomba della madre. “Nel mio paese studiavo informatica all’università ma a causa della guerra ho dovuto interrompere gli studi. Ho aperto un negozio nella mia città ma poco dopo le milizie sudanesi sono entrate, l’hanno distrutto e mi hanno intimato di andarmene sparandomi ai piedi. Quel giorno ho pensato di essere morto. Non avevo nessun futuro in Sudan ma presto ho scoperto di non averlo neanche in Libia”, racconta il giovane. Mustafà è arrivato in Libia circa un anno fa con il desiderio di lavorare lì per pagare l’università che era stato costretto ad abbandonare. Ma di soldi Mustafà non ne ha mai guadagnati, se non per pagare i trafficanti delle prigioni libiche. Poco dopo essere arrivato nel paese, infatti, è stato preso dai trafficanti. “La prima prigione in cui mi hanno portato è stata quella di Misurata, lì ci picchiavano continuamente, ci facevano fare i lavori forzati 24 ore su 24 e non potevamo né mangiare né bere, non avevamo bagni a disposizione né le medicine che ci servivano”, racconta, “tre persone erano molto malate, faceva freddo e una di loro è morta di ipotermia di fronte ai miei occhi. I libici hanno preso il suo corpo e l’hanno buttato come fosse spazzatura”. Mustafà sopravvive alla prigione di Misurata e prova ad attraversare il Mediterraneo per tre volte ma ogni volta la cosiddetta guardia costiera libica lo trova e lo riporta, insieme ai suoi compagni di viaggio, nelle prigioni in Libia, questa volta in tre prigioni diverse: quella di Zawia dove è stato per quasi tre mesi, quella di Ego Sheil dove è stato recluso per tre settimane e in ultimo quella di Zuara per altre tre settimane. “L’ultima volta che mi sono imbarcato, nonostante io non sappia nuotare, non avevo più paura del mare, avevo paura solo che i libici ci trovassero e ci portasse di nuovo in prigione. Avrei preferito morire in mare che essere preso dalla guardia costiera”, continua Mustafà mentre mostra le mani bucate dalle cicche che le milizie gli spegnevano sulla pelle. Poi alza la maglietta, chiede ai presenti se sono disposti a guardare e mostra la cicatrice che gli attraversa la schiena. “Lo vedi questo” – continua – “questa è la Libia”.
Abdalla (nome di fantasia) gli sta accanto, gli dà un abbraccio e lo guarda come a volersi scusare. “Ho conosciuto Mustafà nel centro di detenzione di Ego Sheil, sono stato lì per 5 giorni dopo che per la terza volta ero stato catturato in mare dalla guardia costiera. Non avevamo cibo e ci costringevano a bere acqua salata. Quando ho detto che ero di Gaza mi hanno lasciato andare, ma Mustafà – con cui intanto avevo stretto amicizia – è rimasto in prigione”, racconta.
Abdalla scappa da un’altra guerra, quella di Gaza. “Mio padre è stato ucciso dalle bombe di Israele nel 2022, allora sono tornato a Gaza dal Cairo (dove studiavo ingegneria all’università) e mi sono ritrovato da un giorno all’altro con il peso di tutta la mia famiglia sulle spalle”, continua. Il 18 marzo 2023, poco prima dell’inizio della guerra più atroce mai vissuta a Gaza, Abdalla scappa dalla Striscia. Arriva in Libia attraverso il Sinai, poi il Cairo, Bengasi fino a raggiungere Tripoli. “Inizialmente avevo pagato i trafficanti per un viaggio che sarebbe dovuto terminare in Turchia, da dove mi sarei imbarcato per la Grecia. Quando sono arrivato a Bengasi, però, ho scoperto che con i miei soldi non era stato pagato il visto per la Turchia, così mi sono affidato ad un altro trafficante per arrivare a Tripoli”, spiega il giovane mentre si accende una sigaretta nello spazio esterno della nave destinato ai sopravvissuti. In totale è stato costretto a pagare 250 dollari per la tratta Cairo – Bengasi, 4500 dollari per il primo tentativo di attraversare il Mediterraneo, 3500 la seconda volta e 1000 per l’ultimo viaggio.
“Non ho mai avuto paura di morire – conclude il giovane gazawi – non mi importa della mia vita, ma di quella della mia famiglia, che mi sono lasciato alle spalle, dei miei fratelli e delle mie sorelle che sono ancora dentro la prigione di Gaza. Quando vi ho visti arrivare in mezzo al mare, eravamo alla deriva, il motore si era spento, e io pensavo che non ce l’avrei fatta. Quando ho capito chi eravate, sono rinato”.
Abdalla è rinato insieme a tutti i profughi a bordo della Life Support, quando il comandante li avvisa: “Stiamo per arrivare a Vibo Valentia, in Italia, dove sarete al sicuro”. Tra le grida di gioia, qualcuno comincia a ballare, altri a cantare, e qualcun altro ringrazia la crew. “Voi siete gli angeli della vita”, si rivolge al comandante uno dei minori non accompagnati. Ma qui nessuno è un angelo, e il miracolo del soccorso terminerà fra qualche ora con l’arrivo in porto, l’equipaggio sarà presto il compagno di viaggio di altri esseri umani che verranno soccorsi nel Mediterraneo e i sopravvissuti affronteranno un’altra odissea, quella dell’accoglienza in Italia.
Leggi il primo articolo della serie: “Il soccorso in mare. Una corsa a ostacoli e contro il tempo”
Credit. Le immagini sono di Lidia Ginestra Giuffrida