Mauri non ama parlare della sua vita di prima. Se non si esprimesse in francese, si potrebbe pensare che viva da sempre a Vallermosa, piccolo centro urbano dell’Iglesiente. Invece, partito dal suo paese, la Guinea, ad appena 13 anni, per lavorare da elettricista prima in Mali, poi in Algeria e mandare i soldi a casa, Mauri è arrivato in Sardegna meno di due anni fa, quando era ancora minorenne.
Oggi ha 18 anni, e si incupisce quando ricorda la prigionia e le torture nel lager di Bani Walid, in Libia. “Mi avevano detto che lì si trovava lavoro,“e io purtroppo ci avevo creduto”. Del barcone su cui è scappato ricorda poco. Sa però di essere stato soccorso dalla Guardia costiera italiana e poi trasferito su una nave spagnola che lo ha portato fino al porto di Cagliari. Ad accoglierlo, sulla banchina, c’era Tullio Ballai, che è il direttore insieme alla sua socia Daniela Pisanu di un centro per l’accoglienza straordinaria (Cas) dove Mauri ha lentamente riacquistato fiducia negli altri e speranza per il futuro.
“Voglio restare qui”, dice, “anche se non ho ancora molti amici”.
L’accoglienza di ogni giorno
Nella parte di Sardegna in cui Mauri è approdato, lontano dalle mete del turismo di lusso a nord-est dell’isola e in mezzo alla desolazione lasciata dal tracollo dell’industria mineraria, il disagio economico genera pregiudizi che ostacolano l’integrazione ma senza riuscire a impedirla.
Far funzionare l’accoglienza non è un lavoro semplice. Lo sanno bene Ballai e Pisanu, gestori di un hotel-ristorante fondato trent’anni fa e oggi anche di questo Cas. I loro ospiti – che sono un centinaio, in una fascia di età compresa fra i 18 e i 30 anni, divisi in tre centri a Vallermosa più altri due nei comuni limitrofi di Villacidro e Siliqua – devono essere seguiti uno per uno . Ognuno ha una storia, sempre segnata da tragedie. Integrarli è difficile ma possibile. “È un continuo Tullio, Tullio, Tullio”, racconta Ballai divertito. “Io faccio quello che posso. Tutti vengono da me con esigenze diverse”.
Occuparsi di persone vulnerabili come Mauri è una questione delicata. Mancano le risorse e i riferimenti. A questo si aggiungono spesso episodi tragici che mettono in luce le lacune nella struttura del sistema di accoglienza. È il caso di un giovane guineano appassionato di calcio, morto per un malore durante una partita a Uta, un paese del Medio Campidano. “Non esistevano regole precise su chi dovesse incaricarsi della sepoltura”, racconta Pisanu. “Alla fine è stato seppellito a Uta e i nostri ragazzi sono andati al funerale. Ovviamente la sua famiglia non c’era. È stato molto triste”.
L’anno scorso, un altro ospite del Cas, un trentenne pachistano, ancora oggi nel sistema di prima accoglienza, ha avuto un ictus e ha perso il controllo di parte del corpo. I suoi compagni di casa sono molto solidali e si prendono cura di lui. Pisanu e Ballai hanno avviato le procedure per la richiesta di assistenza, ma si sono scontrati ancora una volta con l’assenza di regole in materia per le persone all’interno del sistema di prima accoglienza.
“Se parliamo di assistenza è perché non esiste la volontà di inserirle, queste persone”, spiega Pisanu. “Anche quando trovano un impiego, non esiste la certezza che venga loro consentito di restare. Noi facciamo tutto il possibile perché nel tempo che devono passare in attesa di una risposta imparino un mestiere e vadano a scuola di italiano, e loro si impegnano, ma poi?”
Nel 2007, Stella Deiana ha aperto il primo Sprar della Sardegna. Oggi ce ne sono 11, compreso quello che lei ancora dirige. Gli Sprar gestiscono la seconda fase dell’accoglienza in un percorso di accompagnamento che dovrebbe durare sei mesi, ma che viene spesso prorogato per consentire ai rifugiati di mantenersi da soli.
Quando la prima accoglienza ha funzionato come dovrebbe, questo percorso è più fluido e rapido. “Al termine dei sei mesi nello Sprar, le persone devono aver appreso l’italiano, ma spesso non lo hanno mai studiato nella fase di prima accoglienza e questo complica le cose,” spiega Deiana. “Dalla loro padronanza dell’italiano quando arrivano qui capisci se i Cas di provenienza hanno fatto un buon lavoro o meno”.
Il Cas di Vallermosa
Il Cas di Vallermosa opera in un’area, oggi parte della provincia del Sud Sardegna, in cui il settore alberghiero e della ristorazione sopravvive, ma soffre. In questo contesto, l’accoglienza, se gestita correttamente, può dare una spinta positiva a tutto il territorio. Ne è profondamente convinta
Pisanu, che ha iniziato a lavorare all’hotel-ristorante Wunder vent’anni fa, per poi diventare socia di Ballai e dal 2014 affiancare alle attività della loro impresa anche quelle del Cas.
“Abbiamo avuto una prima esperienza di questo tipo nel 2011” racconta. “Ma si trattava di una necessità temporanea legata a un’ondata straordinaria di sbarchi dal Nordafrica. Da tre anni, invece, operiamo regolarmente nell’accoglienza”. Ballai e Pisanu hanno una ventina di dipendenti, compresi cinque mediatori culturali. “In una situazione normale ne avremmo sei o sette”, spiega Pisanu. “La presenza dei ragazzi crea un circolo virtuoso. Ogni mattina noi facciamo la spesa e ci facciamo rifornire da tre panifici della zona”. Sommando le esigenze dell’hotel a quelle delle persone accolte nelle loro strutture, continua Ballai, il Wunder spende ogni giorno circa 1000 euro, di cui almeno 800 soltanto per le attività del Cas. “Sono soldi spesi nel territorio, che ne alimentano l’economia”.
Anche i dipendenti dei due imprenditori sono tutti originari o residenti nel territorio. Andrea Usai, che viaggia ogni giorno da Quartucciu, nell’hinterland cagliaritano, per poter lavorare come mediatore culturale a Vallermosa, ha trovato casa a Uta, un comune vicino, dove si trasferirà presto per ridurre i tempi di spostamento. “Sarò più lontano dal mare e questo mi dispiace molto”, dice, “ma almeno venire al lavoro sarà più facile”.
A suggerire Usai, 36 anni, come suo sostituto, è stato, un anno fa, un mediatore eritreo, amico del giovane che in quel periodo era in cerca di lavoro. “Lui era in procinto di trasferirsi in Germania”, racconta Usai, “dove oggi lavora come ingegnere”. A dimostrazione che gli effetti positivi dell’integrazione si estendono in più direzioni.
Insieme a Usai, Francesca Mirai si occupa delle esigenze sanitarie e sociali degli ospiti. “I servizi sociali di questo territorio sono sovraccarichi e devono lavorare per l’integrazione anche di famiglie locali. Spesso non ce la fanno”.
Mirai ha 32 anni. Ha studiato politiche e servizio sociale a Torino e poi in Francia prima di tornare in Sardegna. “A Torino ho avuto difficoltà a trovare casa perché molti non volevano affittare a una sarda”, racconta.
Tornata nella sua terra, Mirai ha avvertito ancora più forte la necessità di lavorare per l’integrazione. “Noi sardi abbiamo un attaccamento molto forte al territorio e sappiamo cosa si provi a essere costretti ad abbandonarlo. Abbiamo però anche una memoria molto corta. Qui i migranti sono ancora chiamati vu cumprá o senegalesi o marocchini a prescindere dalla loro provenienza”. Come se non avessero un’identità. “Ma io resto ottimista”, continua Mirai. “E a loro dico che sono l’avanguardia e dovranno aprire la strada ai prossimi”.
E in questo territorio i giovani ottimisti sono tanti, assicura la trentenne originaria di Cagliari. “Molti di noi, che erano andati via, adesso sono tornati e si impegnano per l’integrazione. Se non ci pensiamo noi, chi altro può farlo?”
Anche Ballai, che alla giovane ha offerto un posto da operatrice nel Cas, ha esperienza diretta delle difficoltà legate all’integrazione in un paese straniero.
Oggi sessantacinquenne, è, come molti altri sardi della sua generazione, un ex lavoratore emigrato in Germania, e conosce l’importanza di apprendere un mestiere per potersi integrare.
“A 18 anni ho fatto i bagagli e sono partito”, racconta. “Non volevo neanche andare in Germania, la mia meta era Amsterdam, ma poi ho finito i soldi e mi sono fermato a Francoforte dove sono riuscito a trovare un lavoro. Noi italiani eravamo trattati un po’ meglio dei turchi e degli arabi. Io cercavo di comunicare anche con loro, che avevano più difficoltà a esprimersi in tedesco. Aiutare i richiedenti asilo a inserirsi è un po’ la stessa cosa”.
Per questo, Ballai ha messo su un orto e una serra dove, sotto la sua supervisione, gli ospiti del Cas coltivano ortaggi di vario tipo, dalle fave e i carciofi ai finocchi e le melanzane. “Alcuni, molti arrivati dal Bangladesh, sapevano già coltivare e sono appassionati. Vengono qui tutti i giorni”. A volte, assicura Ballai, la produzione eccede persino le esigenze del Cas e degli altri centri d’accoglienza della zona e gli apprendisti coltivatori riescono a vendere al mercato. “Da poco hanno venduto i fagiolini, per esempio”.
Come Ballai negli anni Settanta, anche Salif oggi lavora in un paese in cui, prima di intraprendere il suo tragico viaggio, non avrebbe mai pensato di trasferirsi. Salif ha 36 anni ed è in Italia da tre. In Senegal ha lasciato sua moglie e due bambini di sei e sette anni con cui adesso riesce a parlare spesso al telefono ma che non vede da quando è partito. Fatica a trattenere le lacrime quando parla dei suoi figli e ti racconta della Libia, dove è rimasto bloccato per nove lunghi mesi. “Però io sono molto fortunato”, continua a ripetere. Fortuna, per Salif, è aver trovato un posto in cui può stare tranquillo e, soprattutto, lavorare per mandare un po’ di soldi a casa. Lavora nella cucina del ristorante Wunder. Pisanu sarebbe contenta di assumerlo a tempo indeterminato, ma non può perché il suo permesso di soggiorno è temporaneo e per legge deve esserlo anche il contratto di lavoro.
“Vallermosa, comune gemellato con Lampedusa”
Su un muro all’ingresso del paese qualcuno ha scritto: “Vallermosa, comune gemellato con Lampedusa”. Il sindaco ci ha scherzato su. “Ho commentato che se questo significa che anche noi possiamo essere candidati al Nobel, forse non è una cosa negativa. Scherzi a parte è difficile spiegare a un giovane disoccupato di Vallermosa che vede queste persone restare qui anche per sette, otto anni, che la loro situazione è diversa dalla sua”.
La disoccupazione è una piaga dilagante in questo territorio. Nonostante questo, alcune piccole aziende agricole faticano a trovare dipendenti disposti a svolgere mansioni particolarmente faticose, e si rivolgono ai Cas per contrattare i migranti.
Mentre si assicura che le sue pecore tornino alla stalla una volta munte, Federico Congias, allevatore, getta lo sguardo su Bamba e Lassi, due ventenni maliani che lavorano per lui da sei mesi. “Non conoscevano nulla di questa attività e ancora stanno imparando”, spiega Congias. “Io mi auguro che loro possano e vogliano restare”, dice.
A 32 anni, Congias è ancora giovane, ma non ha mai pensato di cambiare mestiere. L’azienda era di suo padre, che a sua volta l’aveva ereditata dal nonno. Quando gli chiedi se gli piaccia fare l’allevatore sorride rassegnato. “Uno che è nato in campagna come me ha poco da sperare in qualcosa di diverso”, dice.
L’attività di Congias, che conta circa 1.500 capi di bestiame, da qualche anno fatica a far fruttare il latte e la carne ovina che produce. “Quando vendiamo le pecore, a volte dobbiamo darle via per 20 euro. Cosa sono 20 euro? Una ricarica telefonica?”
A Villacidro, a poco più di dieci chilometri, la chiusura dello stabilimento Keller, un’azienda produttrice di materiale ferroviario un tempo orgoglio della cittadina, ha lasciato senza lavoro più di 300 lavoratori, la maggior parte dei quali vedranno presto scadere anche i loro ammortizzatori sociali.
La fine del lavoro e la Rwm
A garantire posti di lavoro in questo territorio, invece, è Rwm, un’azienda tedesca produttrice di armi impiegate in Yemen dall’Arabia Saudita. Della presenza della fabbrica a Domusnovas, piccolo comune del Sulcis-Iglesiente, è stata data notizia dai media locali e internazionali, incluso il New York Times, che hanno evidenziato il paradosso di una società pronta a produrre armi da guerra ma che non accoglie di buon grado i profughi in fuga dai conflitti. Queste critiche, però, sono cadute nel vuoto. Dopo tutto, la priorità qui resta l’occupazione. Vicino a Vallermosa, la Rwm ha anche un deposito semi-nascosto di cui nessuno vuole parlare.
Invece i problemi legati all’accoglienza, quando si verificano, fanno sempre notizia, alimentando la retorica dell’intolleranza.
“Certo, esistono anche Cas che lavorano male, che non danno ai ragazzi il pocket money, che li trascurano. Ma a fronte di questi esempi ci sono tanti di piccoli centri che vanno avanti fra mille difficoltà”, spiega Pisanu. “Due anni fa noi abbiamo avuto problemi per un allaccio alla rete idrica, che abbiamo risolto non appena ci sono stati segnalati”, racconta. “Per farlo, però, abbiamo dovuto chiudere momentaneamente il centro”. In alcune circostanze, poi, assicurare il rispetto di certe regole diventa difficile. “Secondo le norme della Asl, per esempio, i ragazzi non possono mangiare nelle stanze da letto e le stoviglie sporche non devono essere lasciate in giro per casa”, spiega. “Noi cerchiamo di farlo capire ai ragazzi, ma soprattutto quelli appena sbarcati non fanno attenzione a queste cose, o si portano la tazza di latte con i biscotti in camera la sera perché hanno paura che qualcuno gliela rubi. Ci vuole tempo perché si tranquillizzino”.
Tranquillizzare i ragazzi è un compito molto delicato, visti i traumi che molti di loro si portano dietro. A differenza degli Sprar, che non gestiscono la prima accoglienza e hanno a disposizione anche degli psicologi, i Cas cercano di far fronte, con il loro personale ristretto, alle esigenze socio-sanitarie delle persone che accolgono. “Abbiamo avuto un ragazzino gambiano che per sei mesi si è rifiutato di comunicare”, ricorda Ballai. “Poi, quando ha iniziato ad aprirsi, abbiamo scoperto che parlava più di una lingua. Io cerco di accontentarli come posso, anche al di là delle loro necessità. Ai ragazzi del Bangladesh ho comprato le mazze da cricket, perché sono appassionati”.Il cinema e il teatro sono alcune delle attività che i ragazzi sono incoraggiati a seguire. Vallermosa, però, è un piccolo centro, e da qui spesso bisogna spostarsi nei comuni vicini, o anche a Cagliari. Quando non possono muoversi con il trasporto pubblico, Ballai e il personale del Cas accompagnano i ragazzi in auto. “Al mare no, non li portiamo”, spiega Ballai. “Non perché non vogliamo, ma perché a loro non piace. Non ci vogliono andare. Forse perché risveglia dei brutti ricordi”.
In copertina: alcuni ospiti del Cas di Vallermosa mentre lavorano l’orto che produce vari tipi di ortaggi in parte venduti nei mercati locali (fotografia di Federica Mameli, come tutte le immagini di questo articolo)