Dopo la prima approvazione nell’aula del Senato con il maxi-emendamento e la fiducia che ne blindava il testo, il Decreto legge Minniti in materia d’immigrazione e asilo (DL 13/2017) è arrivato alla Camera con la certezza di essere tradotto in legge. Passato per pura formalità in commissione Affari Costituzionali e Giustizia, il decreto è infatti giunto a Montecitorio già inemendabile, indiscutibile e vincolato alla questione della fiducia del governo, scatenando la protesta dell’opposizione – Sinistra Italiana, Possibile, M5S, ma anche Forza Italia e Lega – che ha abbandonato i lavori della commissione, lasciando così la maggioranza indisturbata. I 400 emendamenti proposti dall’opposizione sono stati così rifiutati senza nemmeno essere discussi (tramite il ricorso al maxi-emendamento, una garanzia per il Governo contro “l’ostruzionismo” dei partiti).
Se l’iter legislativo con cui si è pervenuti all’approvazione definitiva è controverso, i contenuti del decreto non sono da meno. L’obiettivo di fondo è quello di accelerare/aumentare i rimpatri al fine di contrastare l’immigrazione illegale – tramite la firma di accordi bilaterali con paesi d’origine e di transito e l’estensione del sistema della detenzione amministrativa – e di snellire le procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, facendo ricadere sui richiedenti asilo le disfunzioni di un sistema amministrativo e la sofferenza del sistema giudiziario. Non mettendo in discussione il paradigma su cui si fondava la precedente legislazione – e cioè la repressione del fenomeno migratorio in un’ottica emergenziale – il cosiddetto decreto Minniti risulta evidentemente inadatto a offrire una vera risposta ai problemi del sistema italiano in materia di immigrazione e asilo, e non potrà che tradursi in un peggioramento della situazione per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali.
1. Uso ingiustificato della decretazione d’urgenza
Prima di entrare nel merito, una fondamentale osservazione formale: a dispetto delle ragioni d’urgenza invocate, il decreto è sprovvisto dei requisiti costituzionali e legislativi di necessità e di urgenza – poiché, come spiega l’avvocato Salvatore Fachile dell’Associazione per gli Studi Giuridici dell’Immigrazione (Asgi) “contiene sia norme di non immediata applicazione, sia norme eterogenee”.
Una seria ed organica riforma delle questioni relative ai cittadini stranieri dovrebbe essere insomma affrontata con la legislazione ordinaria e con un attento dibattito parlamentare, non certo in fretta e furia per via della decretazione d’urgenza. Peraltro i numeri dei migranti irregolari e degli sbarchi – più o meno stabili, e comunque certamente non tali da permettere di parlare di “invasione” o “emergenza” – non giustificano dal punto di vista costituzionale l’uso della decretazione di urgenza, come sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di CILD e Antigone.
2. L’appello negato e la voce inascoltata dei ricorrenti
In nome della semplificazione dei procedimenti giudiziari e dell’esigenza di alleggerire il sovraccarico del sistema d’accoglienza, i richiedenti protezione internazionale vedranno annullato il grado d’appello contro il diniego d’asilo. In altre parole, i richiedenti asilo che si vedessero rifiutata la domanda di protezione dalle commissioni territoriali avranno a disposizione un solo grado di giudizio di fronte al tribunale per opporsi al diniego (oltre ovviamente alla possibilità di ricorso in Cassazione in caso di errori di diritto).
Come sottolineato dall’avvocato Fachile di Asgi, “l’eliminazione del doppio grado di giudizio è in palese contrasto con i principi costituzionali delineati dalla Corte negli anni ed è vieppiù irrazionale nell’ordinamento italiano in cui la garanzia del doppio grado di merito è prevista anche per controversie civili di ben minor valore o di minore importanza rispetto all’accertamento se sussista o meno in capo allo straniero un fondato rischio di persecuzione o di esposizione a torture, trattamenti disumani e degradanti o eventi bellici in caso di rientro nel proprio Paese”. Insomma, il secondo grado d’appello garantito in caso di controversie condominiali – tanto per fare un esempio banale – è invece negato in situazioni che ben potrebbero essere classificate come di vita o di morte.
Oltre all’eliminazione del secondo grado di giudizio, cambia poi anche la struttura dell’esame – da rito sommario di cognizione a rito camerale senza udienza, nel quale al giudice verrà messa a disposizione la registrazione video del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale.
Non c’è insomma alcun obbligo da parte del giudice di ascoltare il richiedente asilo e il contraddittorio è meramente eventuale, restando tendenzialmente solo cartolare.
Come spiegato dalle associazioni di tutela, l’eliminazione di fatto della comparizione personale del ricorrente viola la direttiva europea sulle procedure, secondo la quale il ricorso effettivo comprende l’esame completo e non retroattivo degli elementi di fatto e di diritto – e quindi, nel caso di specie, l’ascolto del richiedente asilo. Secondo il diritto europeo il giudice dovrebbe insomma ascoltare il richiedente asilo, fargli delle domande, andare a verificare le fonti, esaminando così tutti gli elementi di fatto e di diritto e non solo come si propone la visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale (organo, è importante ricordarlo, di natura amministrativa). Un punto questo particolarmente critico – soprattutto quando combinato all’eliminazione dell’appello – e sul quale erano intervenute numerose proposte di emendamento da parte di opposizione e società civile, miranti ad evitare una grave e macroscopica lesione dei diritti fondamentali. Proposte migliorative del tutto vane, in quanto cassate senza nemmeno essere prese in considerazione (mentre l’unica modifica al testo originale operata dal maxi-emendamento è quella della possibilità per il richiedente asilo di chiedere al giudice di essere ascoltato in prima persona, che rimane però nella discrezionalità del giudice).
3. Giudici specializzati e dubbi di discriminazione
Al fine di velocizzare il procedimento di riconoscimento dell’asilo, il decreto istituisce sezioni specializzate dei tribunali dedicate alle richieste di asilo e ai rimpatri, formate da magistrati dotati di una profonda conoscenza del fenomeno migratorio. Se è da salutare il riconoscimento dell’esigenza per i giudici di una formazione specifica sulla materia (da tempo sottolineata dalle associazioni di tutela) nonché il fatto che le sezioni speciali saranno 26 (invece delle 14 inizialmente previste), sull’idea pende però un dubbio di legittimità relativamente al contrasto con l’articolo 102 della Costituzione, secondo il quale “non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali. Possono soltanto istituirsi presso gli organi giudiziari ordinari sezioni specializzate per determinate materie, anche con la partecipazione di cittadini idonei estranei alla magistratura”.
Secondo i giuristi, la concessione o il diniego della protezione internazionale non rappresentano una vera e propria materia, ma solo una parte del diritto dell’immigrazione. Alle sezioni viene dunque assegnata una categoria di persone qualificate solo in base alla diversa nazionalità, più che una materia.
Oltre a porsi in conflitto con il divieto costituzionale di istituzione di giudici speciali, questa specializzazione rischia di tradursi di fatto in una vera e propria “ghettizzazione processuale” e quindi una marginalizzazione delle questioni giuridiche delle persone straniere.
4. Un CIE in ogni regione: cambia il nome ma non la sostanza (sbagliata)
In nome della lotta all’immigrazione clandestina e al fine di rimandare a casa quanti più “irregolari” possibili, la rete dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) sarà estesa, passando da quattro a venti strutture distribuite su tutto il territorio nazionale che verranno rinominate Centri di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr), con una capienza complessiva di 1600 posti (a fronte dei 400 attuali). Il ministro dell’interno Minniti ha chiarito che la finalità dei nuovi centri non è quella dell’accoglienza ma del rimpatrio per l’appunto e non avranno dunque nulla a che fare con i Cie: saranno piccoli, con governance trasparente e poteri di accesso illimitato per il Garante dei detenuti.
Per quanto la finalità dichiarata sia diversa, l’idea di base non mette in discussione il modello fallimentare del sistema della detenzione amministrativa – un sistema inumano, costoso e soprattutto inutile dato che circa la metà delle persone che transita nei Cie non viene poi effettivamente rimpatriata. Al contrario, i centri per la detenzione delle persone verranno estesi, così negando tutta la battaglia che ha portato alla chiusura di molti Cie negli ultimi anni.
Insomma, si torna indietro anziché andare avanti.
5. Rimpatri a tutti i costi
Oltre alla detenzione amministrativa, l’incremento del numero dei rimpatri sarà inoltre rafforzato dalla stipula di accordi bilaterali con i paesi d’origine e transito dei migranti, ricorrendo al buon vecchio metodo dell’esternalizzazione delle frontiere a ogni costo – strategia che nel 2012 è costata all’Italia una dura condanna della Corte Europea dei diritti dell’uomo (nella famosa sentenza Hirsi sui rimpatri in Libia effettuati in esecuzione dell’accordo tra Berlusconi e Gheddafi), a cui potrebbe far seguito analoga valutazione nel caso dei rimpatri verso il Sudan attualmente all’attenzione della Corte. L’Italia considera insomma perfettamente accettabile disporre rimpatri ad alta velocità e bassa garanzia, che però secondo il diritto internazionale sono ammissibili solo verso i cosiddetti “paesi terzi sicuri”, definizione in cui sicuramente non rientrano paesi come il Sudan e la Libia (per citare i due paesi con cui si è pervenuti ad accordi – il secondo attualmente sospeso – più di recente).
Insomma: visto nel complesso, l’approccio su cui si basa il decreto Minniti rimane sempre quello della repressione del fenomeno migratorio in un’ottica emergenziale, riducendo diritti e garanzie del sistema d’accoglienza italiano in una sempre più inaccessibile “fortezza Europa” timorosa di implodere da un momento all’altro sotto la pressione dei flussi migratori.
“Ci sono tanti modi per fare i muri: con il calcestruzzo o con le norme – dice bene l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente di Asgi – È come dire: intanto rendo tutto molto difficile, con pochi controlli giurisdizionali, tolgo un secondo grado di giudizio, eccetera. Non c’è nulla che va a rafforzare la tutela dei diritti su persone assolutamente deboli. Perché dare loro strumenti minori rispetto agli altri? Qui è in atto una separazione tra persone: i migranti non avranno gli stessi diritti degli altri e tutto ciò è codificato.”