A luglio e agosto del 2017, il numero di migranti arrivati in Italia via mare è drasticamente diminuito: rispetto alla scorsa estate (luglio-agosto 2016), il calo è del 65 per cento.
Difficile trovare una spiegazione: normalmente l’estate rappresenta il periodo più “caldo” per via delle condizioni meteo favorevoli. Mentre ci si chiede se una tale diminuzione sarà permanente o se si tratti di una tregua estiva, sui media nazionali e internazionali si rincorrono le ipotesi: colpa delle condizioni del mare, troppo agitato per effettuare partenze; merito del governo italiano, e del suo piano di contrasto all’immigrazione – in questa direzione vanno le parole del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, secondo cui “il codice delle Ong è un pezzo fondamentale” della strategia per ridurre i flussi migratori (l’altro pezzo sarebbe costituito dal contestatissimo accordo tra l’Italia e Fayez al-Serraj, presidente del Governo di accordo nazionale di Tripoli, per delegare alla Guardia costiera libica il blocco dei barconi in partenza dalle coste nordafricane); un’altra, allarmante lettura ritiene invece che all’origine del calo ci siano le milizie armate che controllano il nord della Libia, principale punto di partenza dei barconi. Qui facciamo luce sui numeri degli arrivi e verifichiamo le diverse ipotesi.
I numeri
Che un calo negli arrivi, e netto, ci sia stato, lo dicono i numeri. Se nel periodo gennaio-agosto 2016 in Italia sono arrivati 115.068 migranti, nello stesso periodo del 2017 il numero scende a 99.127 (fonte Unhcr). Un calo del 13,85 per cento.
Considerando solo i mesi di luglio e agosto, nel 2016 sono sbarcati in Italia 44.846 migranti, mentre nel 2017 sono stati 15.375: il 65,72 per cento in meno. Il calo, registrato già a luglio (-50 per cento su luglio 2016), è diventato più marcato ad agosto (-82 per cento). Quello che non cambia è il punto di partenza delle imbarcazioni: il 95 per cento di quelle dirette in Italia parte ancora dalla Libia. Cosa è cambiato negli ultimi mesi? Alcuni fanno notare come le condizioni meteorologiche nel mese di luglio siano state particolarmente sfavorevoli, impedendo ai barconi di partire. Un’ipotesi, a dire il vero, debole: perché mai i trafficanti che stipano centinaia di persone su un gommone di pochi metri dovrebbero preoccuparsi di effettuare viaggi in sicurezza? Secondo quanto dichiarato all’agenzia Reuters da Chris Catrambone, co-fondatore di Moas, anche quando il mare si presentava “piatto come un lago” c’erano poche barche pronte alla partenza.
Una prima spiegazione: il codice di condotta delle Ong
Per il premier Gentiloni, il massiccio calo negli arrivi sarebbe conseguenza diretta dell’applicazione del codice di condotta delle Ong voluto dal ministro dell’Interno, Marco Minniti, e sottoscritto (ai primi di agosto) da cinque organizzazioni umanitarie che effettuano salvataggi nel Mediterraneo: Proactiva Open Arms, Save the Children, Moas, Sea-Eye e, da ultimo, Sos Mediterranée; qui la nostra intervista al direttore di Msf Italia sulle ragioni del “no” della sua organizzazione. Questo codice, si ragiona in ambienti di governo, previene le Ong dall’effettuare operazioni non autorizzate, quali recuperare i migranti in acque territoriali libiche, e pone il coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso sotto un controllo più stringente. Le conclusioni del governo (più controllo sulle Ong = meno arrivi) sembrano accreditare l’equazione tra la presenza delle organizzazioni umanitarie nel Mediterraneo e l’aumento degli arrivi (e dei morti) nel 2016, criminalizzando l’operato delle Ong contro ogni evidenza.
Il discorso non regge: il codice è stato approvato a fine luglio, quando il trend degli arrivi aveva già iniziato a cambiare segno. A ben vedere, poi, il famoso e strategico codice contiene pochi interventi rilevanti (o nessuno): le novità principali, molto contestate, sono state poi ridimensionate grazie all’addendum proposto da Sos Mediterranée. Questa Ong, all’atto di sottoscrivere il codice, ha ribadito che “il codice di condotta non è legalmente vincolante e prevalgono le regolamentazioni e le leggi nazionali ed internazionali”. Il codice, a questo punto, è praticamente inutile.
A ridurre l’attività delle Ong, più che il codice, è stata invece l’improvvisa decisione della Libia di estendere la sua zona di ricerca e soccorso ben oltre il limite delle sue acque territoriali, di fatto escludendo le Ong (anche a colpi di mitraglietta) dall’attività di salvataggio in acque internazionali. Ed è proprio alla mancanza di sicurezza in mare che alcune Ong (Msf, Sea-Eye e Save the Children) hanno imputato la sospensione delle loro attività di ricerca e soccorso in mare.
Una seconda spiegazione: gli accordi con la Libia
E qui veniamo al secondo tassello della “cura Minniti”: il Memorandum concluso in febbraio con la Libia (o, per meglio dire, con il leader del governo di Tripoli), che si completa con l’invio di una missione navale a supporto della Guardia costiera libica. La ricetta è quella tipica dell’esternalizzazione delle frontiere: io ti finanzio con soldi e mezzi, tu freni i migranti in partenza – ad ogni costo, come denunciato da inchieste e, di recente, dal rapporto di Msf. A questo accordo principale si aggiungono le intese concluse con i capi di diverse tribù e cittadine di confine, affinché controllino e sigillino il limite meridionale della Libia. Questi accordi, che tra l’altro certificano la debolezza della nostra controparte al-Serraj (e quindi del Memorandum), sono necessari perché, per usare le parole di Minniti, “il 97 per cento dei migranti salvati nel Mediterraneo centrale viene dalla Libia ma la cosa incredibile è che tra di loro non ci sono libici”. I migranti e rifugiati che arrivano in Italia dalla Libia provengono, secondo i dati dell’Unhcr, in prevalenza da Nigeria (17,8 per cento), Guinea (9,5 per cento), Bangladesh (9,4 per cento), Costa d’Avorio (8,8 per cento). La Libia è solo un paese di transito, vuoi per la vicinanza ai porti italiani, vuoi per la permeabilità del suo sterminato e desertico confine sud. È chiaro, allora, che alla ricetta italiana anti-immigrazione manca qualche ingrediente.
Accordi su accordi
Anche se la Guardia costiera libica ha cominciato a intercettare alcuni gommoni in partenza (secondo i dati dell’Oim, tra gennaio e luglio ha fermato 11.424 migranti che hanno tentato di attraversare il Mediterraneo), questo da solo non giustifica la forte riduzione degli arrivi: il calo sembra avere origine nel numero di persone in partenza, prima che in quelle che superano il viaggio (sul punto si vedano le parole di Flavio Di Giacomo, portavoce dell’Oim, e di Mark Micallef, ricercatore del Global Initiative Against Transnational Organized Crime). Basta percorrere al contrario le principali rotte migratorie dirette in Italia per scoprire che la strategia anti-migranti (nostra e dell’Ue) passa attraverso la diplomazia e il denaro.
Il confine molle della Libia è quello con il Niger: paese a cui l’Italia ha offerto 50 milioni per bloccare il traffico di migranti; lo stesso ha fatto la Ue, offrendo più di 600 milioni di euro. A fine agosto, nella conferenza di Parigi, i governi di Italia, Francia, Germania e Spagna hanno concordato con quelli di Niger, Ciad e Libia di implementare meccanismi di smistamento dei migranti direttamente in Africa, così da separare chi ha diritto alla protezione internazionale e chi (i migranti economici) non potrà proseguire il viaggio. Non è ancora chiaro se questa attività di individuazione avverrà tramite dei veri e propri hotspot in Niger e Ciad, e sebbene nel documento conclusivo del meeting si parli di rafforzare le attività di reinsediamento e ricollocazione dei rifugiati (in realtà finora fallimentari), l’accento viene posto soprattutto sulla necessità di “controllare” e “difendere” i confini.
Non solo: si diceva che quasi un migrante su cinque al suo arrivo in Italia dichiara di essere nigeriano. Ebbene, ad agosto 2016 il premier Gentiloni, durante un viaggio in Nigeria, ha annunciato uno stanziamento di 10 milioni di dollari per assistere i paesi della Commissione del bacino del Lago Ciad (oltre alla Nigeria anche Camerun, Ciad e Niger). Il sostegno economico dovrebbe garantire un maggiore controllo dei flussi migratori. Altri accordi, di polizia o di cooperazione, hanno avuto come controparti le dittature di Sudan ed Eritrea. Nella stessa strategia rientra anche l’apertura di credito nei confronti dell’Egitto. Nonostante le responsabilità nella vicenda che ha visto la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni, l’Italia ha deciso di ripristinare i rapporti diplomatici con il Cairo “per migliorare i rapporti con Abdel Fattah al-Sisi, il presidente egiziano in grado di influenzare il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica”.
Dove finiscono i soldi degli accordi: un’altra ipotesi per il crollo degli arrivi
Lo scorso 21 agosto la Reuters ha pubblicato una scioccante esclusiva: dietro il crollo degli sbarchi non ci sarebbero né diplomazie né buon governo, bensì un’organizzazione criminale. Secondo fonti anonime, la “Brigata 48” sarebbe composta da civili e militari, comandati da un ex capo mafioso. Questa milizia armata, che opera a Sabratha, principale porto di partenza dei barconi, avrebbe sostituito al business del traffico di migranti quello del blocco delle partenze. Perché?
Il passo successivo lo fa un’inchiesta di Maggie Michael, secondo cui il governo di Tripoli starebbe pagando le milizie coinvolte nel traffico di esseri umani per fermare le partenze. Il denaro (quello dell’accordo con l’Italia) che dovrebbe pagare la riorganizzazione della Guardia costiera libica, la costruzione di centri dove siano rispettati i diritti umani, nuove opportunità di inserimento per le vittime del traffico, scrive Michael, in parte finanzia il rafforzamento di milizie irregolari e armate, desiderose di accreditarsi presso al-Serraj, ma in grado di rappresentare un potente fattore di instabilità nella regione. Infatti, se il blocco delle partenze dipendesse realmente dall’azione di gruppi armati e prezzolati, cosa accadrebbe ove si chiudessero i rubinetti?
Intanto aumentano i flussi diretti in Spagna
Mentre diminuiscono gli arrivi in Italia, aumentano – per la prima volta da anni, dopo “l’esperimento di successo” della chiusura delle frontiere – gli ingressi in Spagna, via terra e via mare. Se tra gennaio e agosto 2016 erano 7.244 persone, al 16 agosto 2017 sono stati 13.682 secondo l’Unhcr: quasi il doppio. In particolare l’estate è stata segnata da incidenti in mare e momenti di altissima tensione, con casi di veri e propri assalti alla frontiera di Ceuta. Come si spiega? C’è un legame con la chiusura della rotta italiana?
La rotta spagnola è sempre esistita, accanto a quella italiana e a quella greco-balcanica. La chiusura di due rotte può determinare un rafforzamento dell’ultima rimasta, dato che i trafficanti cercano un modo per aggirare i blocchi; secondo l’ultimo aggiornamento di Frontex, l’aumentata pressione alle frontiere spagnole dipende da un’accresciuta instabilità nei paesi di origine e transito, insieme con lo smantellamento dei campi improvvisati in Marocco e in Algeria, che avrebbe agito come “fattore di spinta”. In ogni caso, gli esperti consigliano prudenza: è presto per dire se la diminuzione in Italia e l’aumento verso la Spagna siano definitivi.
Un altro punto su cui riflettere è che la composizione degli arrivi nei tre paesi non coincide: nel massimo periodo di pressione la Grecia accoglieva soprattutto siriani; si è già detto della nazionalità dichiarate all’arrivo in Italia (in prevalenza nigeriani e bengalesi). La situazione della Spagna, in base agli ultimi dati disponibili dell’Unhcr, è ancora diversa: prevalgono i cittadini della Guinea (21,3 per cento) e quelli della Costa d’Avorio (19,6 per cento), seguiti da Gambia, Siria, Marocco.
Difficile dire se la situazione in Spagna sia destinata a peggiorare; già ora, comunque, l’agenzia Onu per i rifugiati rileva una pressione che il governo di Madrid non è in grado di fronteggiare, e per bocca del suo portavoce spagnolo avverte: “Se non ci sarà una risposta adeguata, vedremo persone che cadono nelle grinfie dei trafficanti e diventano merce di scambio. Vedremo persone che dovrebbero avere protezione internazionale esposte a rischio se tornano a casa”.
Intanto, i rapporti quindicinali dell’IOM dicono che a fronte di un volume di arrivi più che dimezzato quest’estate, il numero complessivo di morti rispetto allo stesso periodo del 2016 è però rimasto identico – 288 contro 283 – e ad agosto è sensibilmente aumentato: 151 morti in mare quest’anno, mentre nel 2016 erano morte 62 persone. Questo significa soltanto una cosa: che il viaggio è diventato più pericoloso, e che da quando l’Italia ha bloccato i migranti nei campi di detenzione in Libia e costretto le Ong a rinunciare al soccorso per lasciare campo libero ai respingimenti, in mare si muore molto di più.
In copertina: al sicuro a bordo della Dignity I di Msf, un uomo prega mentre prosegue il salvataggio di altre persone da un gommone dietro di lui (foto: Anna Surinyach/Msf)