Mercoledì scorso il governo ha approvato il cosiddetto decreto Rilancio. In discussione da diverse settimane, quello che ha visto la luce è un provvedimento gigantesco, che interviene in vari campi e vari settori prevedendo una spesa di 55 miliardi di euro.
Nei 256 articoli che lo completano ha trovato spazio anche il 103, recante norme per “Emersione di rapporti di lavoro”. Di fatto quelle che in molti aspettavano per la regolarizzazione delle centinaia di migliaia di immigrati che da anni vivono e lavorano in Italia, senza avere un titolo di soggiorno valido.
Se il provvedimento segna un passo in avanti importante, probabilmente non scontato vista la timidezza del governo quando si parla di immigrazione (testimoniata dal permanere in vita dei decreti Salvini e dal blocco delle navi delle Ong impegnate in attività di ricerca e salvataggio nel Mediterraneo), tuttavia si poteva e doveva fare di più.
La platea di lavoratori immigrati che potevano essere regolarizzati era stata valutata in 600.000 persone, se si fosse tenuto conto di tutti i settori economici. Un’opportunità di fatto scartata già nella prima bozza del decreto, dove era stato previsto che a poter accedere a questa possibilità sarebbero stati solo i braccianti agricoli. Anche grazie agli appelli e alla pressione della società civile il campo di intervento è stato infine allargato, andando a comprendere anche le persone impegnate in qualità di domestici e badanti. Qualcosa in più dunque, ma non abbastanza.
L’impressione che in molti hanno potuto scorgere è che si sia trattato di un provvedimento che guardasse più a “noi” e alle nostre necessità (la frutta e la verdura che rischiano di rimanere incolte, gli anziani e i malati che rischiano di restare senza assistenza con il ritorno al lavoro delle persone con cui vivono) che a “loro” e al loro diritto alla dignità.
Così la platea di chi potrebbe beneficiare della regolarizzazione si sarebbe ridotta, secondo alcune fonti, a 200.000 persone. Tuttavia anche questo dato andrà valutato. Sono state infatti introdotte norme ostative e paletti alla regolarizzazione che lasciano diversi dubbi e perplessità e che potranno incidere sul numero di lavoratori da far emergere.
A lasciare dubbi è, ad esempio, l’aver incluso come elemento di discrimine per il riconoscimento della richiesta il reato di spaccio di sostanze stupefacenti, al fianco a quelli di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione, di minori da impiegare in attività illecita.
La ragione che ha spinto ad introdurre questo reato – l’unico a non essere contro la persona – in questa lista resta difficile da capire. Sappiamo che la violazione del testo unico sulle sostanze stupefacenti è un reato che vede coinvolti una grande quantità di stranieri, e che per la maggior parte vengono perseguiti proprio per le attività di spaccio, mentre pochi sono quelli che incorrono nel ben più grave reato di traffico internazionale di stupefacenti. È insomma facile immaginare questo sia un reato dettato dall’esclusione sociale e dalla mancanza di possibilità lavorative, che proprio l’irregolarità accresce, e non dall’adesione ad un orizzonte criminale. La regolarizzazione, in tal senso, aiuterebbe queste persone ad evitare di diventare pedine appetibili per i gruppi criminali. Ciò che incide ancor di più nel destare preoccupazione è poi il fatto di prevedere che la bocciatura dell’istanza di regolarizzazione, in questi casi, possa avvenire anche in assenza di una condanna definitiva.
Per quanto riguarda i paletti, invece, i più evidenti riguardano quelli posti per la concessione del permesso di soggiorno per ricerca lavoro. Il decreto prevede infatti due fattispecie, una di sanatoria pura e una di concessione del permesso. La prima si applica a tutti coloro che erano presenti in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che avranno un datore di lavoro che presenterà una richiesta di regolarizzazione. La seconda fattispecie, invece, si applica a coloro che hanno un permesso di soggiorno scaduto dopo il 31 ottobre 2019 e che hanno lavorato negli anni precedenti anche solo un giorno sempre nell’ambito delle attività oggetto del decreto. Per questi viene dunque rilasciato un permesso per ricerca di lavoro della durata di sei mesi. Ed è proprio sulla data del 31 ottobre che si poteva fare di più. Sappiamo infatti che molti stranieri sono diventati irregolari a partire da quando il primo decreto Salvini abolì il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Se una data andava trovata, dunque, quella del 4 ottobre 2018 sembrerebbe più significativa. Per chi non rientra in questa finestra temporale, ora, si tratterà invece di andare alla ricerca disperata di qualcuno che possa offrire un contratto. Cosa che potrebbe dare vita a forme di sfruttamento e di ricatto verso i lavoratori.
Ci sarà dunque bisogno di un controllo ulteriore su quanto accadrà, anche in riferimento alle somme da versare per la regolarizzazioni. Il decreto prevede infatti che ogni datore di lavoro dovrà versare 500 € per la sola sanatoria, mentre 130 € andranno versate dallo straniero per avere il permesso per ricerca lavoro. Il rischio è che in alcuni casi ci si possa rifare sui lavoratori, che rimangono sottoposti all’arbitrarietà dei datori di lavoro anche laddove si chiarisce che l’istanza potrà essere rigettata nel caso di mancata sottoscrizione, da parte del datore di lavoro, del contratto di soggiorno presso lo sportello unico per l’immigrazione o per la successiva mancata assunzione del lavoratore straniero.
Dubbi, infine, ma in questo caso in senso estensivo, emergono laddove si dice che le disposizioni previste si applicano al settore dell’agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse. Quali siano queste attività connesse è probabilmente un punto che si risolverà solamente nei decreti attuativi ma che per alcuni può arrivare a contemplare anche attività di trasformazione e vendita.
Questi sono gli elementi più evidenti contenuti nel decreto che, purtroppo, limiteranno gli effetti e la portata che una regolarizzazione ampia avrebbe potuto portare. Anche a livello economico. Come ha ricordato infatti la Fondazione Leone Moressa, l’emersione totale di tutti i lavoratori immigrati avrebbe potuto produrre un gettito fiscale pari a circa 2,6 miliardi di euro. Fondi che si sarebbero potuti investire, oltre che sul welfare, anche nel miglioramento delle condizioni di vita proprio di alcune fasce di questi lavoratori.
È infatti bene sottolineare che anche il migliore dei decreti possibili, da solo, non sarebbe bastato per intervenire sul loro sfruttamento. Negli anni sono emerse forme di lavoro nero e grigio che riguardavano anche lavoratori stranieri regolari o lavoratori italiani. Solo pochi giorni fa a Catanzaro si è tenuta una nuova udienza del processo per l’uccisione di Soumalia Sacko, bracciante con regolare permesso di soggiorno, ucciso con colpi di arma da fuoco mentre raccoglieva delle lamiere per costruire una baracca nella quale vivere nel reggino durante la raccolta delle arance.
Per arginare questo fenomeno servono risposte forti e risorse. La regolarizzazione, dunque, non sarebbe che un primo passo, fondamentale, ma non sufficiente.
Ora il decreto Rilancio dovrà passare in Parlamento per la sua conversione in legge. Visti i precedenti è facile immaginare che sarà posto un voto di fiducia al provvedimento, ma che ci sarà la possibilità di inserire alcune modifiche in un maxi-emendamento. Non resta che augurarsi che, su questo tema, le criticità sottolineate dal mondo della società civile vengano recepite per allargare le maglie dell’articolo 103.
In copertina: bracciante in una serra di Pianoro, in provincia di Bologna (Aprile 2020). Foto di Arianna Pagani